30.11.16

Telespettatore. Una poesia di Óscar Hahn (Cile, 1938)

Eccomi di nuovo
nel mio appartamento di Iowa City

sorbisco il mio piatto di zuppa Campbell
davanti al televisore spento

lo schermo riflette l'immagine
del cucchiaio che entra nella mia bocca

Sono la pubblicità di me stesso
che non annuncia niente a nessuno.

(da Mal d'amore, 1986) nel sito “Il canto delle Sirene” ( http://cantosirene.blogspot.it/ )

29.11.16

Turchia. Anatomia di un partito che vuol farsi Stato (Azzurra Meringolo)

Istanbul
L’estate 2016, in Turchia, sarà ricordata come la stagione delle purghe. Tra Istanbul e Ankara, a definirla così sono già molti intellettuali e analisti che accettano di dire due parole solo a microfoni spenti. Molti di loro sono stati sospesi dal loro incarico, anche se sperano di tornarci, ad altri è stato impedito uscire dal Paese. Non sono finiti dietro le sbarre perché non sono affiliati al movimento Hizmet di Fetullah Gulen – predicatore autoesiliatosi in Pennysilvania che il governo accusa di essere stato il regista del tentato golpe del 15 luglio, l’unico fallito nella storia della Turchia. Attraverso i poteri straordinari che si è attribuito dichiarando lo stato di emergenza, il presidente Recep Tayyp Erdogan vuole ora sostituire con figure più leali al governo tutti i gulenisti presenti nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione, persone che, ironia della sorte, sono state piazzate in quelle posizioni proprio da lui quando, fino al 2013, era alleato di Gulen. «Rimuovere i gulenisti non è illegittimo, ma sarebbe necessario sostituirli con persone professionali, qualificate e mantenendo un certo pluralismo», dice a pagina99 Barkay Mandiraci, analista dell’International Crisis Group di Istanbul. «Ma la fretta con la quale Erdogan sta portando avanti questo processo non sembra andare in questa direzione. L’unico criterio che conta è la lealtà al leader», aggiunge Mandiraci.

Il sultano è vicino all’ultimo colpo
L’analista dell’International Crisis Group descrive quella in corso come una vera e propria ristrutturazione delle istituzioni turche. «Erdogan farà di tutto per trasformare il suo Akp in un partito Stato» conclude Mandiraci. E osservando gli altri partiti turchi è difficile immaginare che qualcuno possa mettere il bastone tra le ruote al progetto del presidente.
Con meno di vent’anni alle spalle, il partito della giustizia e dello sviluppo, Akp, sembra quindi a un passo dalla vetta di quella scalata politica iniziata nel 1998, quando il partito in cui militava l’attuale presidente della repubblica e allora sindaco di Istanbul, il Refah Partisi, venne sciolto perché minava la laicità dello stato strenuamente difesa dai militari. In seguito alla purga da parte dell’esercito contro il Refah, Erdogan e il suo alleato Abdullah Gul fondarono l’Akp, impostandolo su basi in linea con quelli imposti dall’ancora forte establishment militare kemalista. «Sin dalla sua nascita, l’Akp fece del pragmatismo la sua caratteristica principale, grazie alla quale, pur affermandosi come un partito proveniente dalla tradizione politica islamista, ha adottato un’agenda favorevole all’ingresso in Europa e al libero mercato, integrando al suo interno anche kemalisti», spiega Lea Nocera, turcologa che insegna all’università Orientale di Napoli. Nel novembre 2002, a un solo anno dalla sua creazione, l’Akp vinse le elezioni politiche con oltre il 34% dei voti. E da lì fu un crescendo di successi.

Attivismo quotidiano
A dare forza elettorale al partito è anche una caratteristica peculiare dei militanti politici islamici turchi, ossia quella di essere attivi non soltanto in occasione delle tornate elettorali, ma anche nella quotidianità, quando tengono sotto controllo l’elettorato e i potenziali votanti. Ed Erdogan ha avuto buon gioco nell’applicare questo modello al suo nuovo partito in quanto nella sua attività di amministratore a Istanbul aveva maturato un’ampia esperienza in proposito. Secondo dati riportati da uno studio pubblicato nel 2015 dal professor Luca Ozzano, il partito ha ufficialmente 300 mila attivisti e oltre 3.600.000 iscritti: una cifra ritenuta sostanzialmente attendibile, pur tenendo conto della tendenza turca di gonfiare i numeri degli iscritti ai partiti.
Importantissimi sono anche i network di rapporti personali, più o meno informali, che si intessono fra membri di una stessa comunità o di una stessa confraternita all’interno del partito. Queste reti non sono solo mezzi attraverso i quali si svolge la socializzazione, ma hanno un ruolo fondamentale per la rappresentazione degli interessi della nuova classe sociale borghese che rappresenta il fulcro dell’Akp. Questi rapporti di natura personale gettano però ombra sulla democrazia interna al partito, dove, con il passare degli anni, è cresciuta la tendenza al personalismo, rappresentata al massimo dalla gestione accentratrice di Erdogan.
«In questi anni, l’attuale presidente ha fatto piazza pulita non solo dei suoi oppositori interni, ma anche delle figure che, guadagnando spazio nel partito, hanno rischiato di rubargli visibilità», spiega a pagina99 un giovane docente dell’università Bilgi che chiede con insistenza di mantenere l’anonimato. «Basta fare due chiacchiere con i parlamentari che si erano dichiarati contrari alla guerra in Iraq, non seguendo la linea imposta dal partito», prosegue l’accademico, ricordando che buona parte di questi indisciplinati non è stata ricandidata alle elezioni del 2007. «Ci sono state diverse fratture interne al partito. In primis quella con Gulen, ex alleato più aperto nei confronti dell’Unione europea. E poi quella con Gul, (presidente della Repubblica dal 2007 al 2014, ndr) un moderato rispetto a Erdogan, che non condivideva il disegno più autoritario del suo successore», aggiunge Nocera, ricordando non solo l’allontanamento, lo scorso anno, di figure accusate di essere vicine a Gulen, ma anche il più recente licenziamento, lo scorso maggio, del premier Ahmet Davutoglu.
I rapporti tra quest’ultimo ed Erdogan non erano certo idilliaci, in primis a causa del dissenso sulla riforma costituzionale tanto voluta dal presidente per mettere da parte, una volta per tutte, il dualismo premier-presidente, naturalmente a vantaggio di quest’ultimo. Anche se attualmente Erdogan non ricopre ufficialmente alcuna carica dentro il partito, il seguito di cui gode gli ha permesso di fare fuori Davutoglu, sostituito con il più leale Binali Yıldırım, ex ministro dei trasporti già coinvolto nello scandalo corruzione del 2013.
Anche se per il suo agire politico di uomo solo al comando Erdogan è stato più volte accusato di abusare del suo potere, interferendo in dinamiche non di sua competenza, nulla, all’interno del partito, sembra mettere in dubbio la sua tenuta. Eppure l’Akp è tutt’altro che un monolite, come mostra la comparsa sul mercato editoriale di “Karar”, un giornale nato all’interno dell’Akp da una frangia critica nei confronti di Erdogan. Per tenere compatte le fila, dopo lo sventato golpe, Erdogan sembra ora intenzionato a ricompattare il partito sul modello originale, cercando di recuperare i rapporti con le anime storiche dell’Akp, anche a costo di marginalizzare figure provenienti da altre ali. Un primo segnale dell’accoglienza che potrebbe trovare questo tentativo presidenziale è arrivato proprio dopo l’inizio del golpe, quando Gul non ha atteso più di un paio d’ore per mostrare pubblicamente il suo sostegno a Erdogan.
Potrebbe essere quindi la vecchia guardia riunita a festeggiare la trasformazione dell’Akp in partito Stato. L’unico soggetto che potrebbe mettergli i bastoni tra le ruota è l’esercito che, come ha mostrato quanto accaduto nella notte del 15 luglio, non è coeso nel sostenere Erdogan. O almeno non lo era prima del processo di epurazione con il quale il governo sta cercando di fare definitivamente pulizia dopo anni passati a depotenziare i generali, in primis i kemalisti legati ai principi del fondatore della Turchia laica Kemal Ataturk.
«Ma ora l’esercito è in crisi e sottomesso», fa notare Dani Rodrik, docente all’università di Harvard. I quasi 10 mila soldati già finiti in manette potrebbero non sembrare neppure troppi per una struttura con 610 mila dipendenti, compresi 52 mila funzionari civili, ma tra gli arrestati, ci sono molte figure di vertice. Per i militari turchi, questi sono forse i giorni più duri in quasi un secolo di storia repubblicana. Per ottant’anni, essere un soldato di carriera portava con sé prestigio e prebende, accesso a circoli esclusivi e privilegi per i familiari. E soprattutto, la grande missione di vegliare sul potere civile per garantire la laicità dello Stato. Con l’arrivo di Erdogan, tutto è cambiato. Dopo la svolta del 2007, quando i militari kemalisti persero il braccio di ferro sull’elezione del primo presidente con moglie velata, Gul, la loro autorità ha perso colpi a ripetizione. Con la complicità dell’allora alleato e oggi arcinemico, Gulen, Erdogan ha decapitato i vertici laici dell’esercito con i due maxi-processi Ergenekon e Balyoz.

Kemalisti all’angolo
L’altro colpo è arrivato con il referendum del 2010 che sancì il giudizio davanti a tribunali civili anche per i militari in caso di golpe. Nel frattempo, molte condanne sono state annullate e molte accuse si sono rivelate fasulle, ma intanto i kemalisti erano stati messi all’angolo e sostituiti in molte posizioni di vertice dai militari fedeli a Gulen. «L’esercito era l’ultimo feudo dei gulenisti, dopo che Erdogan li aveva già eliminati dalla polizia, dal giudiziario e dal mondo della comunicazione», ricorda Rodrik. Oggi che anche loro sono stati epurati, l’esercito di Ankara appare un gigante azzoppato che non sembra neanche godere della grazia della popolazione. Le probabilità che l’Akp sia fermato dalla componente militare, minoritaria, che si considera ancora detentrice e custode del laicismo sono quindi poche. Ma Erdogan vuole annullarle del tutto. Non solo con le purghe, ma lavorando anche sull’immaginario collettivo. Nei circoli più vicini all’ormai Sultano c’è anche chi dice che Erdogan vorrebbe portare i militari dalla sua parte. L’Akp partito Stato potrebbe cercare di trasformare il suo storico nemico in alleato.


pagina 99, 29 luglio 2016

Carlo Michelstaedter e l'elogio del nulla (Alberto Asor Rosa)

Quello di Carlo Michelstaedter rappresenta senza dubbio il caso più singolare della cultura italiana del Novecento. Non sarà male riassumere i termini essenziali della questione, perché, per l'appunto, uno degli aspetti di questa singolarità consiste nel fatto che, pur trattandosi del nostro pensatore moderno più acuto, l'informazione che il pubblico medio ha di lui è ancora pressoché inesistente, mentre superficiali ed episodiche sono le tracce che egli ha lasciato nel mondo della cultura professionale. E, bisogna riconoscerlo, non senza qualche responsabilità da parte sua.
Si direbbe, infatti, che egli, in omaggio ad un principio di coerenza assoluta che ha pochi eguali, abbia organizzato e voluto la propria presenza vitale in maniera che, come durante la sua breve esistenza scansò per quanto gli era possibile le seduzioni del coinvolgimento e della partecipazione, così dopo la sua morte non restasse di lui che una balenante, quasi inafferrabile cometa di pensieri puri: difficilmente ri-utilizzabili e dunque, per tutti, inutili.
Giudichi il lettore. Carlo Michelstaedter era nato a Gorizia da una colta e benestante famiglia ebrea nel 1887 (ed infatti, per celebrarne il centenario, si svolgerà nella città natale, dal 1 al 3 ottobre, un convegno di studi ideato da Elvio Guagnini e organizzato dalla locale Amministrazione provinciale). Dopo aver frequentato il ginnasio nella città natale, nel novembre 1905, dopo una breve parentesi viennese, si trasferisce a Firenze e si iscrive all' Istituto di Studi Superiori, dove segue i corsi classici, perfezionando la sua già eccezionale conoscenza del greco e appassionandosi a questioni di filosofia antica. Le testimonianze biografiche di questi anni sono assolutamente normali e ovviamente alquanto scarse: come del resto è scontato, poiché parliamo di un qualsiasi studente universitario tra i diciotto e i ventidue anni.
Possiamo soltanto dire, a giudicare dal ricco materiale recuperato postumo, che già allora ferveva intensamente la sua intima ricerca intellettuale (versi, riflessioni): anche se in quegli anni poco ne emergeva, se non nei rapporti con gli amici, che furono intensissimi sia a Firenze sia a Gorizia (e questa propensione per il sodalizio maschile costituisce indubbiamente un tratto caratteristico della sua personalità). Come che sia, nei due anni successivi Michelstaedter, oltre alle normali relazioni e attività di un giovane della sua età, attende principalmente alla compilazione della sua tesi, assegnatagli nel settembre 1908 dal professor Vitelli sul tema: I concetti di persuasione e di retorica nelle opere di Platone e Aristotele (non senza qualche implicita ma chiarissima intenzione polemica, come ho avuto già modo di motivare altrove, nei confronti del clima culturale fiorentino, dominato dalla banda Prezzolini e dall' esperienza della “Voce”). All'inizio dell'ottobre 1910 spedisce da Gorizia alla segreteria del suo Istituto il manoscritto della prima (e più rilevante) parte del suo lavoro. Il 16 ottobre termina di stendere le Appendici (dottissime) della sua tesi. Il pomeriggio del giorno successivo (pare dopo una discussione con la madre, ma, come dirò, l'occasione immediata mi sembra irrilevante), si uccide con un colpo di rivoltella.
Le pubblicazioni degli scritti del giovane Michelstaedter sono tutte postume (se si esclude qualche trascurabile eccezione), e furono dovute alla cura affettuosa di alcuni amici, che ne avevano intuito il genio. A lungo il patrimonio del suo pensiero è dunque rimasto disperso e incompiuto, e ciò ne ha accresciuto la marginalità. Di lui abbiamo un gruppo non numeroso di poesie, un lungo Dialogo della salute, uno scritto breve ma importante dal titolo Il prediletto punto d' appoggio della dialettica socratica, una quantità imponente di appunti, note, riflessioni, ecc.; e soprattutto il lavoro di tesi, universalmente noto come La persuasione e la rettorica. Si tratta, a mio giudizio, del più importante testo filosofico italiano del secolo (se si prescinde da talune acerbità dell'argomentazione, ancora, e forse proprio perciò stupefacente di genio, non del tutto professionalizzato e molto molto giovanile). Il discorso di Michelstaedter è assai complesso e arduo, anche perché tramato da un continuo colloquio con gli antichi. Per dirla molto in breve, si potrebbe osservare che è un discorso sull'essere, ossia sulle condizioni dell'essere umano e sulle radici della vita, al di là o al di qua di qualsiasi camuffatura sistematica e di qualsiasi illusione, quand'anche biologica (e, come Michelstaedter dimostra, ce ne sono).
Secondo Michelstaedter la persuasione è il possesso presente della propria vita, e chi vuol essere un attimo solo persuaso di ciò che fa, deve impossessarsi del presente, vedere ogni presente come l'ultimo...: nell'oscurità crearsi da sé la vita. La rettorica, al contrario, è la piena, ottusa soggezione all'amore della vita, che restringe lo spazio d'azione del pensiero entro i limiti miserabili dei bisogni quotidiani. Colui che si mette per questa strada, è dunque soggetto alla materia invece di dominarla, soggetto al dolore invece di accettarlo per arrivare attraverso di esso alla gioia, soggetto alla deficienza della natura umana invece di partire dal riconoscimento della sua ineliminabilità per arrivare, appunto, a quel pieno, anche se istantaneo e rarissimo possesso di sé, che è la persuasione.
Per questo, sebbene il suo pensiero sia quanto di più antimetafisico e antisistematico si possa immaginare, è difficile parlare, a proposito di Michelstaedter, di una risposta religiosa alla crisi del mondo moderno (e delle sue filosofie, tanto idealistiche quanto attivistiche): se mai, bisognerebbe parlare di un pensiero profondamente laico e morale, alla maniera, per intenderci, del Leopardi delle Operette e degli ultimi Canti. Con il quale oltretutto, Michelstaedter condivide la convinzione profonda che i veri pessimisti sono energòi (attivi, ndr.) nel dolore, perciò sono sani: id est vanno alla salute (precisamente nel senso in cui questo termine viene usato nel titolo e nel testo del Dialogo della salute); mentre proprio gli altri, i devoti dell'amore della vita, sono inerti nel dolore, vogliono riposare, perciò sono malati: vanno alla pazzia.... A mio giudizio, Carlo Michelstaedter è ben consapevole, nello sviluppare il suo ragionamento, che esso è, in sostanza, un ragionamento paradossale (o, più esattamente, tragico-paradossale). Approfondire il nesso pensiero-vita fino in fondo, significa ri-solverlo. La sua pungente critica a Platone è rivolta precisamente a quella convinzione del filosofo greco (totalmente antisocratica, a pensarci bene) che l'assoluto abbia una sua identità oggettiva al di fuori di noi: il che, secondo Michelstaedter, è addirittura ridicolo pensare. Ma, d'altra parte, l'assoluto, autentico possesso di sé, il possesso presente della propria vita, coincide con l'assoluta ri-soluzione dai contenuti occasionali, contingenti, episodici della vita stessa: coincide, cioè, con la morte. Il pensiero di Michelstaedter batte la via di una totale coerenza: non s'arresta neanche di fronte all'ostacolo che si presenta là dove la vita si biforca dalla sopravvivenza. Dimostra se stesso, facendosi vita, cioè impossessandosi di sé fino a confondersi nell'essere. Carlo Michelstaedter, dall' alto dei suoi giovani anni, ha voluto provarcelo: l'assoluto esiste; ma solo in quanto si fa nulla.


“la Repubblica”, 29 settembre 1987

Parole del mio paese. La penuria d'acqua e la “lavatura” (S.L.L.)

La penuria d'acqua non è cosa recente per gli abitanti del mio paese, Campobello di Licata. Il rubinetto nelle case di tutti o di quasi tutti è conquista relativamente recente, tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso; ma, in senso stretto, l'acqua corrente c'è stata per poco tempo e solo in pochissime abitazioni. Nella maggior parte di esse, all'atto dell'allaccio all'acquedotto, era già collocato un recipiente, il più delle volte in amianto-cemento, per conservare l'acqua onde rimediare ad una erogazione a singhiozzo, sempre più diradata nel tempo. 
A lungo in paese, anche dopo, rimasero attive le fontanelle ove si poteva fare liberamente rifornimento di acqua corrente. Vi si riempivano giarri e giarriteddri, cioè le giare di terracotta senza manici con collo sottile e piccola bocca a misura di tappo (tuppagliu), mentre la più grande giara a bocca larga, utile a molte conservazioni, era chiamata giarruni. E vi si riempivano quartari (recipienti più piccoli, a forma di anfora con due manici, di terracotta, raramente di zinco), bummuli e bummuliddri (anforette da pochi litri in terracotta), bagnere (bagnarole ovali di metallo per fare il bagno o per mettere a bagno la biancheria) e cati (catini di zinco). 
Più tardi arrivò il Moplen e fu il trionfo della plastica .
Il supplemento delle fontanelle serviva generalmente a integrare il fabbisogno idrico domestico, ma una parte usciva dall'abitato verso i campi. Le quartare venivano sistemate su carretti, o più spesso in groppa a muli e somari, negli spazi appositamente predisposti dal bastaio (vardunaru), per dotare di una riserva di acqua potabile, fresca e ben conservata, chi andava a lavorare in campagna.
Poi, nel corso dei gloriosi Sessanta, i contadini diminuirono fortemente di numero, come pure le bestie da soma, sostituite da motoveicoli (l'Ape della Piaggio, soprattutto, la lapa in dialetto); e anche in campagna arrivarono i bidoni dell'industria petrolchimica.
L'acqua era comunque una risorsa scarsa e usata con parsimonia perfino eccessiva. Una buona pratica era quella di riutilizzare l'acqua di cottura della pasta, sempre abbondante per via delle famiglie molto più numerose che adesso e per la centralità della pastasciutta nella alimentazione dei campobellesi. La si usava per lavare piatti, pentole e stoviglie: era di aiuto l'alta temperatura e la leggera salatura, che faceva risparmiare la lana d'acciaio per strofinare, come pure la cinnireddra, la liscivia (liscìa in dialetto) o, più tardi, il detersivo liquido (Butasol o Persil, mi pare) che si comprava sfuso a decilitri, usando come contenitore riusabile una piccola bottiglia.
Dato l'uso prevalente che se ne faceva, l'acqua di cottura della pasta alimentare era chiamata lavatura anche quando ne veniva fatto un uso gastronomico. Molti, infatti, amavano rendere un po' più liquida, appunto con la lavatura, la salsa d'“aglio e oglio” che insaporiva gli spaghetti o altra pasta scallata, altri usavano la lavatura per ammorbidire la ricotta che condiva i cavati o i ditali.

Papi: il duro, il colto, il populista. Le metamorfosi di Pietro (P. Bottazzini, G. Zambelli)

Vediamo la verità come in uno specchio: ovvero un’immagine confusa, deformata. È dai tempi di Paolo di Tarso che la tradizione cristiana invita tutti gli uomini a scoprire nella metafora dello specchio il riflesso della fede. Certo, ma come possiamo interpretare la verità? Con la parola.
Perché la verità deve esser rivelata. «In principio era la parola» scriveva Giovanni all’inizio del suo Vangelo. E la parola per eccellenza che parla agli esseri umani è quella dell’autorità suprema della Chiesa: il papa. Ecco perché smontare il linguaggio di un papa serve a conoscere gli oggetti delle sue enunciazioni, le intenzioni, i destinatari.

Cosa ci dicono le parole dei papi, sempre più pop
Abbiamo provato a farlo, per cogliere il ritmo della trasformazione degli ultimi decenni, mettendo sul tavolo anatomico del linguista cinque discorsi pronunciati dagli ultimi tre pontefici, Karol Józef Wojtyla, Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio, in circostanze simili.
Il discorso di insediamento; un discorso particolarmente significativo rivolto alla Curia romana; un famoso discorso-denuncia molto acceso e discusso; un discorso pronunciato di fronte ai fedeli del proprio Paese o comunque relativo alla propria patria; infine un discorso importante tenuto fuori Roma (v.box).
Nella stesura di queste orazioni si inscrivono sia la traccia della società cui sono indirizzate sia la personalità dell’autore.
D’altra parte, la voce del pontefice pronuncia le parole dell’ultima autorità universale rimasta sul pianeta.

Ratzinger: la Chiesa al primo posto
Nel momento in cui un papa si rivolge alla Curia romana l’evangelizzazione passa in secondo piano. Quando parla ai cardinali il pontefice fa emergere le sue intenzioni politiche. E qui è interessante, perché se il soggetto del discorso è la Chiesa intesa come istituzione, il modo di tematizzarlo è un indice della tempra del papa.
Solo Ratzinger chiama la cosa con il suo nome e utilizza il lemma Chiesa con più frequenza degli altri (33 volte). Nel definire il perimetro di questa istituzione, Benedetto XVI ricorre a due chiavi di interpretazione del suo statuto, che ritroviamo nei termini Concilio e fede.
Quindi nel definire gli interlocutori della Chiesa si rivolge al mondo, termine che ricorre molto più di quanto ritorni il lemma Dio. È, insomma, un papa mondano, che tende a riportare quaggiù sulla terra le cose di lassù.

Woytyla: il pastore che pensa alla vita
Tutto il contrario di Wojtyla, che guarda in alto. Nei suoi discorsi subordina il riferimento alla Chiesa a quello indirizzato a Dio – richiamato il doppio delle volte – e collocato in posizione dominante sul testo.
L’unità degli uomini, siano essi religiosi o laici, avviene sotto il mandato dell’autorità più alta nella Grande Catena dell’essere. Le 36 occorrenze del designatore Dio denunciano una strategia retorica consapevole da parte di Wojtyla, solitamente più parco in questo genere di invocazioni.
O meglio: sembra che quando parla davanti alla Curia invochi Dio molto più di quanto faccia al cospetto dei fedeli. Come se le minacce provenienti da vescovi e cardinali richiedessero maggiore prudenza. Eppure, per esperienza, Wojtyla avrebbe potuto temere di più le folle che i porporati.
La prospettiva si rovescia quando il pontefice si rivolge al mondo esterno. Il destinatario immediato sono le adunate di fedeli presenti all’omelia, il bersaglio è la secolarizzazione della cultura contemporanea, l’indirizzo finale è quello dei potenti della Terra.
La parola chiave del discorso di Wojtyla è vita: nel suo testo compare 77 volte, ed è il soggetto di gran parte dei suoi enunciati. La sua riflessione si sviluppa in un momento di crescita economica e di trionfo dei valori mondani, riconducibili al successo professionale, al prestigio sociale, all’edonismo morale.
Il linguaggio del papa è lo specchio capovolto della società cui si rivolge: propone un’interpretazione diversa dell’esistenza, quella della coscienza (15 volte), suggerendo che la verità (16 volte) non sia quella che appare nella concretezza dei sensi e del qui-e-ora.
Ora l’appello a Dio, convocato 36 volte, acquista il senso pieno che ricopre nel pensiero di Giovanni Paolo II: è anzitutto il pastore (26 volte), poi anche padre (19 volte), che accompagna – nell’immanenza della vita nel mondo – i giovani alla verità.

Bergoglio: la sofferenza al centro
Nel discorso di Bergoglio invece la Chiesa è confinata a un ruolo minore. Protagonista è la metafora della malattia, in generale l’allegoria del corpo che soffre. Se si sommano le 38 occorrenze dei lemmi Cristo, Chiesa e Dio non si riesce ancora a bilanciare la frequenza del dizionario che allude al malessere fisico. Papa Francesco ama indulgere al linguaggio figurato della vita materiale nella sua dimensione quotidiana, con le immagini della famiglia e dei suoi ruoli, e con quelle dell’esistenza corporale di ogni individuo. La sua retorica punta sull’empatia, e in questo senso è popolare poiché mira alla persuasione attraverso il consenso emotivo. Ognuno ha una casa e un corpo, e la loro intimità affrontata nelle parole del papa diventa lo specchio visibile di ciò che deve essere l’unità della Chiesa con i suoi fedeli. Se fosse un semplice politico, gli analisti non indugerebbero nel chiamarlo populista – o meglio, come spiega lo studioso Loris Zanatta nell’intervista alle pagine 6 e 7, andrebbe definito peronista.
Il mondo su cui si affaccia Bergoglio soffre il fallimento della promessa di prosperità elaborata ai tempi di Giovanni Paolo II: il suo discorso è la rotazione dello specchio puntato contro la società dal suo predecessore. È il papa più politico: la chiave di volta è la richiesta di cambiamento, ribadita 28 volte, sulle esigenze di casa, giustizia, pace, diritti e lavoro (tutte ribadite tra 10 e 11 volte), formulate dai popoli della terra. È anche il papa dell’immanenza: la sua voce si leva contro il potere della finanza, tanto che nel suo dizionario trova ospitalità anche la nozione di economia, che i suoi predecessori trascuravano del tutto.

La presenza di Dio nel mondo
Se Bergoglio parla con parole semplici, comprensibili e capaci di arrivare al cuore e alla mente di tutti i fedeli, Ratzinger sceglie un registro più “alto”, come se si rivolgesse agli esponenti d’una Repubblica delle Lettere. Il focus del suo discorso è l’Europa, con particolare attenzione ai valori che la rendono una comunità non solo economica. La loro portata culturale è universale e si fonda sull’identità cristiana. Data la levatura intellettuale di Benedetto XVI, il dizionario è molto vario (il 44,4% delle parole compare una volta sola, contro il 24% di Wojtyla, e il 30% di Bergoglio), con la struttura sintattica più complessa dei tre.
Nei discorsi rivolti a popoli specifici, il protagonista dell’orazione per Wojtyla è ancora una volta la Chiesa. Per Bergoglio e per Ratzinger invece il soggetto è Dio, che per Benedetto XVI si manifesta come parola e come cultura, mentre per Francesco si rivela con i tratti domestici del fratello, della madre, del figlio e del sangue. La Chiesa, la cultura, la famiglia e il corpo sono la sequenza attraverso la quale i papi hanno suggerito di cercare la presenza di Dio nel mondo, hanno proposto di sentirla, hanno chiesto obbedienza e solidarietà alle parole del pontefice – promettendo in cambio un’identità interiore e una dignità sociale per ciascuno.

La Chiesa e il cambiamento
Wojtyla tenta di ruotare il senso del termine vita in una direzione trascendente, che orienti la ragione stessa dell’esistenza individuale e collettiva della comunità verso una giustificazione superiore. In questa direzione deve ritrovarsi anche il valore e il potere della Chiesa come istituzione.
Ratzinger rimuove la suggestione della chiamata celeste dal ruolo della comunità cristiana, per riconsegnarlo alla diligenza dello studio e alla pazienza del dialogo. Il significato della vita è la ricerca, il senso dell’essere emerge dal primato delle radici della cultura europea: il logos, l’argomentazione, il libro.
Bergoglio è un politico missionario: sa che lo spazio per la vita oltremondana si estende sul margine che la fatica per la sopravvivenza lascia alla dignità dell’esperienza terrena. Conosce la pragmatica linguistica dei gesuiti ed è consapevole di come si fanno cose con le parole, prima che discorsi: alla Chiesa non basta l’unità e il coraggio dei fedeli, né l’egemonia nella Repubblica delle Lettere europea o nella Città di Dio. Serve il cambiamento radicale, perché tutto resti come prima.


Pagina 99, 26 novembre 2016

28.11.16

Leo Longanesi uomo del no (Nello Ajello)

La prima volta che sul “Mondo” apparve la parola 'Longanesi' fu nove anni dopo la fondazione del settimanale di Mario Pannunzio, nel numero dell' 8 ottobre 1957. Leo Longanesi era morto dieci giorni prima, nel suo ufficio di via Bigli, a Milano. Nell'articolo che lo rievocava, veniva spiegato come mai su quel giornale si fosse "per anni evitato perfino di fare il suo nome". Non si trattava, faceva capire Pannunzio (l'articolo, non firmato, era suo), di una delle solite autocensure che appartenevano all'aspro repertorio del settimanale, e che consistevano nel rifiutare agli avversari l'onore di una citazione. Qualche volta, quando era proprio indispensabile nominare una persona o una testata non accetta, “Il Mondo” ne sbagliava infatti la grafia ad arte, come per un refuso. Per Longanesi no: nel suo caso, precisò Pannunzio, "il silenzio ci sembrava il modo migliore per rispettarlo". Era stato insomma un espediente generoso per non scendere in polemica con un uomo di cui si era amata, e si desiderava conservare, un'immagine diversa.
Arrigo Benedetti - fondatore di due settimanali, “L'Europeo” e “L'Espresso”, che tecnicamente discendevano, al pari del “Mondo”, da una costola longanesiana - si comportava in maniera analoga. Di Longanesi non amava parlare. Il creatore dell'“Italiano” e di “Omnibus” era stato per lui una felice meteora professionale e umana, durata sei anni, "fra il maggio del 1937 quando uscì “Omnibus”, appunto e la splendida notte del 25 luglio 1943: l'ultima che passammo insieme, scossi da un' autentica commozione, animati da comuni speranze".
Se un uomo scomparso a soli cinquantadue anni - Longanesi era nato a Bagnacavallo (Ravenna) nel 1905 - veniva considerato un sopravvissuto da due fra i suoi maggiori allievi, un motivo ci deve essere, e anche molto serio. Risiede qui, almeno per me, l'enigma che circonda la figura di quel geniale inventore di giornali che fu Leo Longanesi.
L'enigma mi si ripropone nel leggere il volume che allo scrittore ed editore romagnolo hanno dedicato due suoi ammiratori incondizionati: uno, Indro Montanelli, di appena quattro anni più giovane di lui, l'altro, Marcello Staglieno, appartenente a una diversa leva, quella dei "discendenti" o dei discepoli postumi (Leo Longanesi, Rizzoli, pagg. 421 con illustrazioni, lire 29.000). Aspettarsi che un libro, anche un bel libro traboccante di documenti inediti, riesca a fornire una risposta a ogni curiosità su Longanesi e sulle sue metamorfosi politiche e di costume, significherebbe attribuire ai biografi poteri d'indagine che nemmeno gli psicoanalisti detengono. Non stupirà quindi che "la verità sul caso Longanesi" - questa specie di romanzo artistico-politico-editoriale ambientato nell'Italia della prima metà del secolo - resti ancora in gran parte da accertare. Montanelli e Staglieno le hanno girato intorno, a quella verità, lungo l'arco di quasi un quarantennio (dai primi anni Venti ai tardi Cinquanta, dall' Italiano al Borghese), l'uno con la partecipazione del testimone, l'altro col puntiglio dello studioso, e hanno finito per comporre una tipica "opera aperta". Non sono cioè riusciti a scolpire un monumento a Longanesi, per loro e nostra fortuna.
Può darsi che neppure se lo proponessero. Comunque, il soggetto non si prestava. Il personaggio era incoerente, emotivo al massimo, docile preda di umori contingenti e impensati, continuamente posseduto (sono ancora parole di Pannunzio) da una "volubile polemica", animato da "una vitalità tanto più prepotente quanto più inquieta". Si può definirlo un artista, specie se si dà al termine quel senso ottocentesco e "strapaesano" che implica imprevedibilità, bizzarria, tendenza a superare - un po' per disprezzo e un po' per reale incapacità di distinguerli - i confini della logica. Si aggiunga una cronica predisposizione ad esaurire se stesso e l' universo in uno humour amaro o surreale. Con simili connotati - che Montanelli e Staglieno rintracciano nella sua vita, quasi giorno per giorno - Longanesi si trovò a cavalcare due regimi, il fascismo e il dopo-fascismo, in una posizione di alta responsabilità, qual è quella di un "opinion maker" (oggi si dice così), di un elaboratore di strategie politico-propagandistiche, di un creatore di giornali, di un selezionatore di talenti; in una parola, di un educatore. Quanto poco adatto fosse un temperamento come quello di Longanesi a svolgere simili compiti è facile capirlo. Non poteva che nascerne un paradosso, quello che segnò la vita di Longanesi e ne rende enigmatica la memoria. È un paradosso ormai proverbiale, ma tanto vale ripeterlo: durante la dittatura fascista egli si comportò spesso da oppositore in nome della democrazia, ma appena tornata la democrazia la avversò in nome della trascorsa dittatura, quella stessa di cui aveva a suo tempo offerto una parodia indimenticabile. In queste due fasi salienti della sua vita - il suo antifascismo "da fronda" e il suo filofascismo venato di nostalgia - Longanesi fu sempre all'opposizione, sempre in prima linea, sempre circondato da uno stuolo di seguaci, parecchi dei quali - pensiamo per esempio a Giovanni Ansaldo, a Camillo Pellizzi, ad Alberto Savinio, ad Arrigo Cajumi, fino a Giuseppe Prezzolini - di lustri e decenni più anziani di lui. Gente esperta. In qualche caso (Ansaldo, Prezzolini) anche cinica. In mezzo a costoro, l'inventore dell'“Italiano”, di “Omnibus” e del “Borghese” esercitava cura d'anime.
Un paradosso nel paradosso. Verso la fine del libro si racconta di uno sfogo che un certo giorno degli anni Cinquanta Arrigo Benedetti - il più espansivo fra i suoi discepoli "critici" - fece a Longanesi, che gli rimproverava pose progressiste e lo definiva "giacobino". Ma come? - obiettò in sostanza Benedetti. - Nel 1937, quando da Lucca venni a Roma per aiutarla a preparare “Omnibus”, io ero un ingenuo giovane fascista. Fu lei a farmi nascere dei dubbi, a indirizzarmi verso la fronda, a spingermi sulla strada dell' antifascismo. Come può accusarmi, adesso, di aver seguito quella strada con coerenza, di non aver tradito i suoi consigli? La stessa domanda avrebbero potuto rivolgerla a Longanesi tanti intellettuali italiani, e soprattutto quelli che chiameremo i "longanesiani di sinistra": da Pannunzio a Flaiano, da Gorresio a Brancati, da Soldati fino - per certi aspetti - a Moravia.
Fra il 1935 e il '40 la scuola di Longanesi fu, come ricorderà uno di loro, "un esempio di indipendenza, di libera critica, di dissidenza". A bottega da lui impararono come s' impagina un giornale, come si taglia una fotografia; come una litografia dettata da uno humour sottile può trasformarsi, messa in copertina, in un richiamo "di massa". In campo professionale, trovarono in lui un inventore felice e un imprenditore moderno. In politica, un uomo libero fino all' insofferenza e all'incontentabilità. Ma dopo?
"Quello che è poi avvenuto nel suo animo", scrisse Pannunzio in quel suo unico articolo su Longanesi, "non potremo mai spiegarcelo". "Il vero Longanesi", gli farà eco, vent'anni più tardi, Mario Soldati, "è rimasto un segreto per quasi tutti", alludendo, con quel "quasi", a Moravia. L'autore degli “Indifferenti”, più versato in psicologia, si è infatti avventurato fino ad ipotizzare "un misterioso trauma politico" che lo scrittore romagnolo doveva aver subìto nell'adolescenza, trasferendosi dall'ardente clima patriottico-socialista di Bologna, sua prima città di adozione, nella scettica Roma del fascismo con le ghette. Generose congetture, che si perdono nel vortice delle contraddizioni di cui Longanesi è stato insieme sperimentatore e cavia.
Di contraddizioni, Montanelli e Staglieno ne suggeriscono grappoli: Longanesi era legato in maniera quasi rissosa alla borghesia della Belle Epoque - basta vedere con quanto solidale umorismo ne disegnava i fasti - e tuttavia amò inizialmente quel "mussolinismo" che ne decretava il tramonto. Era nostalgico dell'Italia di Giolitti, eppure scherniva la Storia d'Italia di Croce, che del decennio giolittiano aveva cantato le glorie. Esecrò per tutta la vita i vezzi, gli artifici e le presuntuose viltà dei letterati italiani, ma con i letterati italiani più tipici, quelli della “Ronda”, intrecciò rapporti strettissimi. Fondatore, accanto a Maccari, di "Strapaese", guardò poi, proficuamente, ad esperienze europee per dar vita ai suoi giornali e introdusse in Italia alcuni grandi nomi della letteratura internazionale. Aveva (lo ha raccontato Soldati) "un estremo, assoluto, romantico penchant per le donne", eppure "non perdeva mai l' occasione per sostenere che, le donne, bisogna picchiarle". Affermava - suprema incoerenza - che "gli inglesi vinceranno la guerra" e "i tedeschi la perderanno" proprio nel momento in cui (raccontano gli autori) "lui, la guerra, la faceva a “Fronte”, una rivista che il Min. Cul. Pop. stava preparando per i soldati". A propagandare questa massa disordinata di sillogismi alla rovescia intervenivano il fascino personale, garantito da un'insolita intelligenza e rinforzato da un attivismo irrefrenabile.
È perfino arduo elencare le qualifiche che Longanesi si guadagnò fabbricando libri e giornali, scrivendo, titolando e disegnando per una vita intera. Ci si provò una volta un suo allievo, Giuseppe Trevisani, e la lista risultò iperbolica: scrittore, pittore, tecnico, disegnatore, antiquario, tipografo-editore, giornalista, polemista, direttore, esteta, politico, copywriter, bibliomane, artista, idea-man, cronista, causeur, critico, umorista, pubblicitario, epigrammista, narratore... Fece tutto questo. Tutto, tecnicamente parlando, benissimo. E tutto, almeno come tornaconto personale, a fondo perduto. Longanesi - questa biografia a quattro mani ne fornisce una prova di più - era il contrario d' un opportunista. Posseduto da un inguaribile "cupio dissolvi", intento a "odiare il prossimo suo come se stesso", era immune da tentazioni arrivistiche. Infatti, non arrivò a nulla. Nessuno gli diede un quotidiano da dirigere, una ricca casa editrice per estendervi l'ala del suo talento, un sontuoso stabilimento tipografico nel quale sperimentare le sue doti eccelse di disegnatore di caratteri e di incisore di testate (eppure, sul biglietto da visita s'era fatto scrivere: "unico successore di Bodoni in Italia"). Non ebbe mai un premio. Non diventò accademico di nulla. Trincerato in quel suo "elegante e vizioso qualunquismo" che Pannunzio gli rimproverava, lavorò senza protezioni di sorta.
Quasi mai le sue invenzioni hanno avuto degni continuatori: pensiamo soprattutto al “Borghese”, l'ultimo prodotto della sua operosità di giornalista, un'impresa già patetica sul nascere, oggi caduta - e meritatamente - in clandestinità. Benché esperto in molte specialità, quanto a furberia - in un paese di letterati furbissimi - Longanesi era poco più che un novizio. Ciò aiuta a spiegare perché tanti intellettuali in buona fede, e tutt'altro che sprovveduti, assecondarono fino all'ultimo le sue ubbie, combattendo al suo fianco battaglie impossibili. E adesso, lungi dal maledirlo, lo rimpiangono.


“la Repubblica”, 23 dicembre 1984  

Alicante. Una poesia di Jacques Prévert

Alicante
Un’arancia sulla tavola
Il tuo vestito sul tappeto
E nel mio letto tu
Dolce presente del presente
Freschezza della notte 
Calore della mia vita.

La crisi bancaria che verrà (L'alieno gentile)

Firmato con un curioso nom de plume è stato pubblicato a fine novembre 2016, l'articolo di cui riprendo un ampio stralcio, allarmato se non allarmistico. (S.L.L.)
Banchiere a Zurigo
[…]
Il problema a Siena è che serve una nuova iniezione di denaro fresco per Mps, un aumento di capitale da 5 miliardi di euro dopo i numerosi (e corposi) aumenti lanciati negli ultimi anni. Ma l’azienda non fa profitti, appesantita com’è da un carico di crediti deteriorati nettamente superiore alla già indecorosa media del sistema finanziario italiano. Mancando i profitti, mancano anche investitori interessati a sottoscrivere le nuove azioni così il Monte dei Paschi intende (manca ancora l’approvazione dell’assemblea) lanciare una proposta agli obbligazionisti: la conversione dei bond.
Tutti i detentori di emissioni subordinate, siano essi investitori professionali o uno dei 40 mila semplici risparmiatori correntisti della banca, verranno invitati a sottoscrivere uno scambio: cedere all’istituto i loro titoli e ricevere le nuove azioni della banca.
La proposta è corredata da un promemoria che sembra uscito da un romanzo di Mario Puzo: si può sottoscrivere questa conversione volontariamente, oppure la si dovrà subire forzatamente. Infatti, se la banca non riuscirà a realizzare questo aumento di capitale, la continuità aziendale sarà messa in discussione e sarà necessario procedere alla richiesta di aiuti di Stato e alla procedura di risoluzione nota come bail-in.
Il prezzo su cui calcolare il concambio per gli obbligazionisti, in questa offerta, è pari a 100 (quindi alla pari) o a 85 a seconda del tipo di emissione posseduta. Un prezzo che sembra allettante: a fronte di 1 euro di valore nominale di obbligazioni, il risparmiatore riceverà 1 euro di controvalore in azioni (o 0,85 nel caso peggiore). L’offerta appare conveniente specie se confrontata con l’alternativa di mercato: vendere i titoli significa infatti incassare 65 centesimi per ogni euro, al 23 novembre.
Tuttavia chi compra a prezzo scontato, pagando in contanti, sono per lo più i cosiddetti “fondi avvoltoio” che acquistano allo scopo di convertire per poi vendere immediatamente le azioni, appena verranno loro consegnate. Per loro il profitto consiste nella differenza fra il prezzo pagato per comprare le obbligazioni e l’incasso per la vendita delle azioni che riceveranno in concambio. Nel primo giorno di contrattazione utile, pertanto, venderanno a tamburo battente e continueranno a vendere anche di fronte ad un -20% perché a quei valori staranno ancora registrando un profitto. Ed è così che i risparmiatori che obtorto collo avranno convertito i loro risparmi vivranno il loro “battesimo del fuoco” fin dal primo giorno di possesso delle azioni, scoprendo che il concambio non li ha protetti: una sorta di imprinting sul funzionamento del mercato.
Appare maldestro che, in contemporanea a una vicenda destinata ad essere tormentata e protagonista delle cronache finanziarie, ci sia qualcun altro che medita di lanciare un aumento di capitale corposo da realizzare in parte con la conversione di bond subordinati. Questo qualcuno è Unicredit, l’unica banca italiana considerata sistemica in Europa.
Quanto tempo occorrerà prima che la similitudine, grossolana, fra Mps ed Unicredit provochi un danno d’immagine ingente all’istituto di piazza Gae Aulenti? Il management deve avere qualche coniglio nel cappello, considerando che i principali azionisti della banca hanno espresso malumore o indisponibilità a sottoscrivere un aumento di capitale, che era atteso – stimato – per 10 miliardi di euro e che invece parrebbe verrà annunciato di 13 miliardi.
La velocità con cui si distrugge il capitale nel sistema bancario italiano è allarmante: dalla neonata Banco-Bpm, frutto della fusione fra Banco Popolare e Popolare di Milano, spuntano problemi imprevisti. Le recenti verifiche fatte per organizzare la fusione avrebbero tralasciato una quota di crediti deteriorati che necessita di copertura, serve una cifra ancora non definita ma che pare sia prossima a 2 miliardi. Infine le disastrate Veneto Banca e Popolare di Vicenza, appena ricapitalizzate dal fondo Atlante, appositamente creato, sono già alla ricerca di altri 600 milioni attraverso una nuova ricapitalizzazione.
Attendiamo di scoprire gli eventi, che si dipaneranno in uno scenario politico che al momento è incerto: il 4 dicembre il referendum costituzionale sarà decisivo per il destino del governo Renzi; tra le altre, una delle ragioni del Sì è quella di garantire stabilità politica per la gestione delle turbolenze finanziarie. Parimenti il No potrebbe portare ad un governo tecnico, secondo alcuni guidato dall’attuale ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan, e chi meglio di un governo tecnico potrebbe tenere le redini nel pieno di una crisi bancaria?
È chiaro che, quale che sia l’esito referendario, la possibile tensione su una o forse due tra le più grandi banche del Paese potrebbe mettere nuovamente alla prova dei mercati – attraverso lo spread Btp-Bund – la tenuta del sistema Italia.[...]


Pagina 99, 26 novembre 2016

Il futuro del Pd (S.L.L.)

Su “Famiglia cristiana” del 13 novembre leggo in ritardo un breve commento politico di Francesco Anfossi, dal titolo Il cinque dicembre finisce il vecchio Pd, che qui riporto integralmente:
“Sta per nascere 'il partito del premier' al posto del Pd, come tutto lascia immaginare dall'ultima Leopolda renziana, il congresso di corrente trasformato nel luogo delle invettive alla minoranza dem, con tanto di sfratto esecutivo decretato dal segretario Matteo Renzi al grido di "fuori-fuori"? In politica tutto è possibile, ma è difficile che il Partito democratico resti come prima dopo la fatale data del referendum del 4 dicembre. Questo non significa che il 5 dicembre ci sarà una scissione immediata, ma certamente si innesterà un processo di disarticolazione: da una parte il segretario-premier Renzi e i suoi, dall'altra Bersani, D'Alema, Cuperlo e tutti coloro che sono stati messi nell'angolo dalla componente maggioritaria del partito. Come spartiacque il referendum sulle riforme costituzionali, sempre meno tecnico e sempre più politico, man mano che ci si avvicina alla data fatidica”.
Il commentatore sembra dare per scontato che il referendum del 4 dicembre approverà la messa in soffitta della Carta del 1948 e la scelta di un assetto istituzionale che si pretende più dinamico, veloce e adeguato ai tempi. In questo caso è del tutto evidente che si scatenerebbe un'ampia epurazione contro quella parte del Pd che ha manifestato la sua contrarietà alla riforma considerata sbagliata politicamente e tecnicamente malfatta, in alcuni casi giungendo a impegnarsi nella campagna per il No (“i traditori” - li chiamano i fans del presidente del Consiglio).
Ne conseguirebbe una scissione (immediata o diluita nel tempo)? l'espulsione dei reprobi? la riduzione all'insignificanza? Non so dirlo, ma a me la trasformazione del Pd nel “partito del premier” di cui Anfossi scrive pare - in caso di vittoria del Sì - più che certa; a maggior ragione se a rimpinguarlo venissero gli apporti degli “alfaniani” e dei “verdiniani”, per rafforzarne le file in vista di una campagna elettorale politica, imminente e non scontatamente trionfale.
Ma la vittoria del Sì, per quanto resa probabile dall'impegno nel referendum – forse al di là del galateo politico e perfino del lecito – di tutte le risorse governative e di tutte le possibili pressioni ricattatorie, non si può considerare certa. Nell'ipotesi contraria la scelta per il No di non pochi esponenti del Pd e di dirigenti piddini della Cgil da “tradimento” potrebbe diventare una risorsa per l'intero partito e salvarlo dalla disfatta connessa alla inevitabile crisi di leadership di Matteo Renzi, che ha impegnato in questa sfida tutta la sua credibilità. La presenza nel Pd di una componente contraria alla riforma Boschi gli restituirebbe, infatti, il carattere di partito aperto, plurale e inclusivo che era nelle intenzioni originarie, favorirebbe il dibattito interno e la individuazione di un nuovo indirizzo politico e programmatico, prima ancora che di una nuova leadership, in vista di confronti assai difficili.
Ci sono vecchi militanti, che, a malincuore e non del tutto convinti, hanno scelto il Sì per spirito di partito, in nome di una disciplina che era normale in partiti centralisti come il vecchio Pci, ma è una richiesta assurda in un partito come il Pd, soprattutto in caso di referendum. Se vincesse il No dovranno erigere un monumento a Pierluigi Bersani e a Massimo D'Alema come salvatori della patria.

La Germania non sa più fare le grandi opere (Stefano Casertano)

Un'immagine del Pergamon Museum, ora in ristrutturazione
Berlino
Farebbero diradare la Nuvola di Fuksas in confronto: i costi dei grandi progetti in Germania sono fuori controllo. Tutti i settori sono coinvolti: dalle infrastrutture agli uffici pubblici alla cultura. Progetti ambiziosi di nuove costruzioni o di ristrutturazione – nulla si salva dal vortice nazionale che risucchia i budget e li proietta verso dimensioni siderali.
L’ultimo progetto a passare per il terribile percorso è la rimessa a nuovo del Museo di Pergamo a Berlino. L’idea: creare un polo museale all’altezza dei grandi centri mondiali, collegando tutte le istituzioni presenti sull’“Isola dei Musei” della capitale tedesca. Si è incominciato con gli spazi che ospitano l’altare di Pergamo, la meta museale più ambita per chi vola a Berlino. Porte chiuse nel 2014 con l’idea di riaprirle nel 2019, per un costo complessivo di 261 milioni. Poi la mazzata: quattro anni di ritardo previsti e costi a 477 milioni.
C’è di mezzo un po’ di sfiga. Il cantiere prevedeva di piantare nel suolo nuove “micro-fondamenta” per puntellare il pesante edificio del museo sul terreno instabile dell’isola. Dopo qualche perforazione sono stati “scoperti” però dei vecchi locali con macchinari per il drenaggio dell’acqua, mai smantellati, che hanno richiesto di rivedere il tutto. I treni ICE passano a pochi metri, e per tutelare i manufatti occorre procedere in punta di piedi e con piccole macchine da lavoro.
Questa della combinata “costi esplosi e consegna in ritardo” sembra però essere una costante nella grande cantieristica tedesca. Il principe del limbo architettonico è senza dubbio il nuovo aeroporto “Willy Brandt” a sud di Berlino, che avrebbe dovuto aprire i battenti nel 2011 e – forse – sarà operativo solo nel 2017, con costi passati da 2 a 5,4 miliardi (+170%). Qui la sequela di errori rasenta l’assurdo. L’impianto antincendio prevedeva che il fumo venisse risucchiato verso il sottosuolo e poi pompato fuori, noncurante del fatto fisico in base al quale il fumo caldo abbia poca voglia di andare verso il basso. Poi l’edificio in sé è così pesante che in alcune zone è sprofondato, spezzando le mattonelle. Inoltre, le guide per i cavi sono risultate troppo strette per contenere tutte le cablature – da qui, si è dovuto rivedere il tutto. Ops – si è scoperto anche che era impossibile spegnere la luce.
Che poi già all’apertura sarà troppo piccolo per il traffico passeggeri è un particolare. Alle ultime comunali si è fatta campagna promettendo di mantenere aperto l’amato aeroporto di “Tegel” (tipo Linate confrontato a Malpensa). Gustoso il particolare per cui le scale mobili sono troppo corte (e sono stati aggiunti un paio di scalini alla fine), oltre al fatto che un terzo delle 4.000 porte aveva una numerazione sbagliata.
Nell’immaginario tedesco svetta anche un progetto architettonicamente mirabile quanto finanziariamente disastroso: la nuova filarmonica di Amburgo, l’“Elbphilharmonie”. Sei anni di ritardo nella consegna, che nell’ottobre 2016 è stata celebrata con una scritta illuminata sulla facciata «Finito!». Costi: +324%, a 789 milioni di euro. Il problema principale: complessità dell’opera, costi sottostimati (ovviamente) e «migliaia di difetti costruttivi» rilevati da un report di 800 pagine, quando ci si stava accorgendo che il cantiere stava sfuggendo di mano. La filarmonica ha ora due sale concerti, spazi commerciali e un albergo di lusso. È un gioiello di cristallo sul fiume – ma l’albergo di lusso l’ha pagato la città. La direzione della costruzione a guida politica si era fidata troppo delle promesse degli architetti.
Su questa rotta si sta dirigendo anche la ristrutturazione della Staatsoper Unter den Linden di Berlino, la quale forse riaprirà nel 2017 con costi che sono passati da 239 a 389 milioni di euro. Segue l’opera di Colonia, i cui programmi per la riapertura nel 2015 erano stati già stampati, ma si riaprirà forse nel 2019. I problemi sono sempre gli stessi: complessità costruttiva e direzione dei consorzi affidata a politici e manager, senza una reale possibilità di controllare i cantieri.
Menzione d’onore anche per la nuova centrale dei servizi segreti, sempre nella capitale. Edificio dal chiaro sapore post-razionalista, a sprezzo del cattivo gusto diremo che dall’alto ricorda una forma uncinata svolta. Il colore dominante è il grigio con un totale di 14.000 finestre tutte uguali. Sfiga: qualcuno ha rubato parte dei progetti e per ovvi motivi si è dovuto rivedere il tutto. Cattiveria: qualcuno si è introdotto nottetempo nel cantiere e ha rubato sei rubinetti, provocando un allagamento generale con danni per milioni. Conseguenze: consegna passata dal 2012 al 2017 e costi passati da 720 milioni a una cifra imprecisata tra 1,5 e 2 miliardi di euro.
Trait d’union tra le varie questioni? Diversi. Il primo: un’ambizione non rapportata alla capacità progettuale e cantieristica. L’entusiasmo costruttivo della rinata Germania non può contare su un sistema all’altezza delle iniziative. A margine, un gusto architettonico che va dall’eccelso (Filarmonica di Amburgo) ai postumi dell’espressionismo tedesco (centrale dei servizi segreti).
Poi – lezione per i programmi italiani – non dimentichiamo che quasi tutti i cantieri-matusalemme sono voluti e finanziati dai Länder tedeschi. Ciò presuppone che ogni Land disponga di politici in grado di guidare progetti da centinaia di migliaia di euro, e ovviamente questo non è possibile. Se poi detti politici non rispondono di tasca loro se i costi esplodono, la frittata è fatta – il cantiere meno.
Ma non possiamo trascurare l’insita difficoltà nel rimettere in piedi strutture che non hanno visto cantieri significativi per mezzo secolo. Se sotto un museo si trovano infrastrutture dimenticate ci può anche stare. La sfida è farlo capire agli elettori. La ristrutturazione del Museo di Pergamo pesca dal borsello della città, a governo socialdemocratico. Per un gioioso caso del destino, dirimpetto al cantiere staziona fissa una guardia di poliziotti a proteggere l’abitazione privata di una cittadina molto in vista: Angela Merkel. Possiamo solo immaginare il sapore speciale del suo tè sorseggiato guardando fuori dalla finestra.


Pagina 99, 26 novembre 2016

La poesia del lunedì. Óscar Hahn (Cile, 1938)

In una stazione del metrò

Sventurati quelli che hanno scorto
una ragazza nel metrò

e si sono innamorati di colpo
e l’hanno seguita impazziti

e l’hanno persa per sempre tra la folla

Perché saranno condannati
a vagare senza meta per le stazioni

e a piangere sulle canzoni d’amore
che i musicisti ambulanti intonano nei tunnel

E forse l’amore non è che questo:

una donna o un uomo che scende da un vagone
in una stazione del metrò

e brilla per pochi secondi
e si perde senza nome nella sera


Dal sito “Il canto delle Sirene” ( http://cantosirene.blogspot.it/ ), 21 aprile 2012

Oscar Hahn, l’umanità del poeta (Diego Rivera, Luca Aristodemo Gentile)

«La poesia non scomparirà mai perché è ciò che connota davvero l'essere umano». Oscar Hahn, poeta e saggista cileno di fama internazionale, uno degli intellettuali della "generazione ‘70", conosciuta anche come "generazione decimata", ha tenuto lezione agli studenti della cattedra di Letteratura ispanoamericana del professor Dante Liano, parlando delle sue opere e della sua esperienza di esule a causa del regime di Pinochet. Nato a Iquique, nel nord del Cile, nel 1938, Hahn nel suo Mal de amor del 1981, subì la censura. Il libro fu bandito dopo la sua pubblicazione: «Nessuno ha mai capito perché una raccolta di poesia d'amore potesse essere pericolosa per il regime. Una delle storie che circolavano al tempo era che il suo autore avesse una relazione clandestina con la moglie di un ammiraglio. Al tempo la trovai molto divertente, ma credo che se fosse stata vera oggi non sarei qui a leggere poesie».
L'opera di Hahn è intrisa di sentimenti forti, che coinvolgono, e l'amore ricorre spesso, come parte della vita quotidiana di ogni uomo: «Io stesso ho mosso i primi passi nella poesia amorosa. All'età di 16 anni la mia ragazza mi chiese, come prova d'amore, di comporle un acrostico. Corsi da un giovane poeta, mio vicino di casa, che ne compose uno per me. Il giorno dopo glielo portai e lei, incredula, mi costrinse a comporne uno davanti ai suoi occhi per essere sicura che fosse opera mia. Totalmente digiuno di poesia o letteratura, mi cimentai nell'operazione. Inaspettatamente riuscii a convincerla. Poi un bel giorno, quando avevo già dimenticato le mie precoci ambizioni letterarie, mi venne in mente un verso, e poi un altro ed un altro ancora. Poi divenne una poesia e così fu per le altre".
Hahn, Premio nazionale di letteratura del Cile nel 2012 e Premio Pablo Neruda nel 2011, fu costretto, nel 1973, ad abbandonare la sua cattedra all'Università del Cile dal regime del generale Pinochet e l'anno dopo lasciò definitivamente il paese per stabilirsi negli Stati Uniti dove ha insegnato letteratura ispano-americane all'Università dello Iowa. Oggi, dopo quasi 40 anni negli Stati Uniti, è tornato stabilmente nel suo paese di origine.
Ospite del dipartimento di Lingue e letterature straniere dell'ateneo, Hahn è stato invitato a leggere alcune delle sue poesie di grande successo e ha parlato del suo rapporto con la poesia italiana: «Negli anni sono stato un grande lettore di Petrarca, ho amato la sua poesia. Io stesso nel dedicarmi al sonetto ho seguito la sua strada. Del XX secolo, invece, ho molto amato poeti come Ungaretti, Quasimodo e Montale. Credo che la poesia italiana abbia un'identità non tanto nei temi, quanto nel modo di fare poesia, nel ritmo, nel movimento del linguaggio. Se dovessi fare una comparazione con la musica, sarebbe una tendenza all'adagio, all'andante. Per questo non mi piace particolarmente la poesia del secolo XIX perché è molto eloquente; invece, quella del secolo XX e più riposata, riflessiva, introspettiva, basti pensare a Ungaretti. Anche Montale quando parla del paesaggio fa una poesia di riflessione, mai esplicita o futile».
Ma se l'Italia ha avuto un grande ruolo nella sua formazione, la poesia di Hahn è figlia delle sue origini: «La poesia cilena, in generale, ha due linee-guida: una che è frutto dell'eredità di Walt Withman, ricca di magniloquenze - come quella di Neruda o De Rocka nel Cile che è intrisa dell'identità nazionale e latinoamericana - e l'altra, parallela, che sta al fianco di Nicanor Parra, Gonzalo Rojas, Enrique Linh che, invece, vanno verso la modernità, verso il XX e XXI secolo».
Come per molti intellettuali che hanno avuto un rapporto difficile con il potere Oscar Hahn ha un'idea precisa del rapporto tra poesia e potere. «Quando sono stato in visita a Bologna, ho visto la poltrona che Carducci aveva usato da consigliere e che porta ancora l'iscrizione. Quasi a dire un ruolo importante del poeta nella società. Credo che spesso si tratti, invece, di un falso mito. Il poeta è sempre stato uno tra tanti: non ha un ruolo diverso da qualsiasi altro cittadino; non condivido l'idea di dovergli assegnare un ruolo politico particolare. I lettori di poesia sono pochi e la poesia se la vanno a cercare dove sta. Internet, ad esempio, oggi, è un grande veicolo della poesia. E non penso che la società possa essere cambiata da due o tre versi scritti da un poeta».


“CattolicaNews” (Newsletter dell'Università Cattolica del Sacro Cuore), 8 maggio 2013

Trump, Faulkner, Tacito. Non sbeffeggiamo il “politicamente corretto” (Romano Luperini)

«Mi venga un accidente se non siamo in una bella situazione quando un qualsiasi sporco forestiero incapace di guadagnarsi la vita nel paese dove Dio l’ha fatto nascere può venire in questo a portare via i quattrini dalle tasche di un americano».
Di chi è questa frase? Si direbbe di Trump durante la campagna presidenziale di questo 2016.
Nella terza parte di L’urlo e il furore uno dei protagonisti, Jason, svolge un lungo monologo che serve a Faulkner per caratterizzare in modo deteriore questo personaggio, il più spregevole dei fratelli Compson, sadico e truffatore. La frase è sua, siamo nel 1928, agli inizi della grande depressione. La crisi economica contribuiva allora, come accade anche oggi, novanta anni dopo, a incrementare la xenofobia e lo squallore morale (Jason è anche razzista, odia i neri e gli ebrei). Che questa frase che Faulkner riteneva degradante possa essere attribuita non a un figlio degenere della decaduta classe rurale americana degli anni venti, come Jason, ma a un presidente dello stato più potente dell’Occidente fa pensare in quale abisso siamo caduti.
Fra il 113 e il 116 d. C. Tacito scrive gli Annali. Tacito era parte della classe dirigente romana, fece carriera politica, ma soprattutto fu abile oratore e infine uno dei maggiori storici dell’età antica e un grandissimo scrittore, che per molti versi sembra anticipare lo stile sintetico e la cattiveria espressiva di Machiavelli. Nel capitolo 44 del Libro XV descrive l’incendio di Roma provocato, secondo la voce popolare, da Nerone e da lui attribuito ai cristiani, che per questo furono perseguitati, crocifissi, arsi vivi per illuminare le strade di notte e offerti alle belve nel circo, col consenso della maggior parte del popolo romano che già odiava i seguaci di Cristo vedendo in loro una misteriosa e pericolosa setta orientale, ma poi anche, osserva Tacito, con un certo disagio di fronte alla crudeltà eccessiva dei supplizi. Secondo Tacito, i cristiani nell’incendio non c’entravano affatto e tuttavia, a suo parere, essi erano comunque «rei meritevoli di pene severissime», in quanto gente spregevole, dedita a ogni tipo di nefandezze («flagitia»). D’altronde il cristianesimo è un «morbo» proveniente dalla Giudea, commenta, e tutto ciò che di peggiore c’è in ogni parte del mondo confluisce su Roma.
Trump, Faulkner, Tacito documentano la continuità nel tempo degli atteggiamenti xenofobi. Passano i secoli ma la paura e l’odio per lo straniero sembrano restare inalterati. Eppure è possibile cogliere una differenza importante fra Faulkner e Tacito. Il primo condanna la xenofobia vedendovi il segno della degradazione morale e civile del suo personaggio, il secondo non solo la ritiene naturale e normale ma la condivide, come del resto la classe dirigente di cui faceva parte e che rispettava le religioni degli altri popoli solo nella misura in cui non interferivano col culto dell’imperatore. Tacito esprime la posizione egemone nella classe dirigente di allora, il “politicamente corretto” dei suoi tempi, Faulkner quello delle élites culturali del proprio.
Cosa è accaduto nel frattempo nella storia della cultura e della civiltà occidentale? Il successo del cristianesimo, l’avvento dell’umanesimo e dell’illuminismo, la rivoluzione francese e quella americana hanno progressivamente affermato nel corso dei secoli e soprattutto del Novecento, a prezzo di immani catastrofi, i valori della tolleranza, della democrazia e della uguaglianza fra gli uomini, e ciò è accaduto prevalentemente all’interno degli strati intellettuali, del ceto medio e, finché è esistito, del popolo dei lavoratori. Il “politicamente corretto” che oggi è di moda sbeffeggiare non è che un residuo di questo fenomeno culturale, e anche se può talora coprire ipocritamente i guasti di una classe dirigente è pur sempre il segno di una evoluzione culturale e civile e comunque esprime, anche inconsapevolmente, il ricordo, e il bisogno, di quei valori.
Ma in questo campo ogni successo è provvisorio. L’animale-uomo è una creatura ferina («l’inconscio è Hitler», scriveva Saba lettore di Freud) e la sua inclinazione alla xenofobia si riaffaccia continuamente soprattutto quando il disagio economico è tanto forte da far scoppiare, come sta accadendo anche oggi, le guerre fra i poveri. Il cristianesimo è consapevole di questa spontanea inclinazione al male e col battesimo cerca di cancellare tale macchia originaria. Ma la spinta a mettere in pratica la ferinità fa parte poi anche della storia dello stesso cristianesimo, dalla strage degli Albigesi alla caccia alle streghe e ai genocidi commessi in America Latina dagli spagnoli cattolicissimi. Fa parte anche della storia di paesi cristiani che hanno conosciuto e praticato, in Germania anche recentemente, l’odio razzista.

E dunque? Non ci sono risposte facili. Comunque la strada è lunga e difficile. Ma forse solo attraverso la lotta contro l’ignoranza e una estensione della cultura, della educazione civile e democratica, e attraverso un miglioramento delle condizione di vita delle masse (la degradazione economica è sempre l’anticamera di ogni degradazione), forse un giorno si renderà possibile che quanto ancor oggi appartiene alla maggior parte degli intellettuali e a una parte consistente del ceto medio divenga patrimonio dell’umanità. Ma intanto, per favore, non sbeffeggiamo il “politicamente corretto”. Jason che senza vergognarsi pronuncia frasi come quella riportata all’inizio non era “politicamente corretto”. Se l’alternativa al cosiddetto “snobismo” dei ceti colti è rappresentata dalla cialtronaggine di Jason e dalla bestialità di massa non c‘è da stare allegri.

dal sito "La letteratura e noi", 13 novembre 2016