6.12.17

Introduzione ai “Mimi Siciliani” di Francesco Lanza (Italo Calvino)

Due movimenti opposti animano la scrittura dei Mimi di Francesco Lanza: quello lieve e attento di una prosa limpida ed evocativa, e quello astioso e tristo del lazzo paesano, del feroce dileggio. Il genere di narrazione popolare orale alla cui trascrizione egli applicò la sua arte e il suo gusto — in un'epoca in cui le coordinate culturali d'un simile esercizio erano stilistiche e morali, non più e non ancora «scienti­fiche», «demopsicologiche», «sociologiche», «se­miotiche», come sarebbe stato quarant'anni prima o quarant'anni dopo — è il più elementare e labile: la facezia rustica, la barzelletta contadina, la storiella di sciocchi e di cornuti.
Per l'etnologo o il psicosociologo o il semiologo (o per il letterato intinto in questa bagna) un campione d'un centinaio di storielle, molte delle quali salaci, tutte provenienti da un'area culturale delimi­tata, costituiscono una ricca e rara ghiottoneria. (Ricco e raro oggetto di studio è già stata e merita d'esserlo ancora tutta l'opera di Lanza, per il critico stili­stico e lo storico del gusto letterario italiano tra «Voce» e «Ronda», ed è strano non lo sia stato ancora quanto merita per il critico e lo storico inte­ressati ai rapporti tra «letteratura e popolo», tra modello estetico e impegno illuministico, magari svi­luppando il confronto con Jahier, già proposto, viven­te l'autore, da Ceccbi). Io mi limiterò a qualche ri­flessione su queste storielle, come istituzioni del mondo culturale contadino e come scelta espressiva dello scrittore Lanza.
I Mimi siciliani sono una raccolta di storielle tutte d'una varietà assai peculiare: alla comicità «disinteressata» della barzelletta si sovrappone in esse la carica d'aggressività delle contese di campanile. Ogni storiella fa perno su un protagonista comico — colui del quale si ride, — che è designato con un toponimico: il calascibettese, il raddusano, il mistrettese. Su quell'articolo determinativo gravita la violenza denigratoria che fa d'ogni storiella un atto di sopraf­fazione, lo strumento d'una interminabile faida di poveri. I nomi dei paesi sono, credo, in larghissima parte intercambiabili; vano è cercare di dedurne una tipologia, un repertorio di caratteri: voler definire, per esempio, in base alle ricorrenze dei comportamen­ti narrati, gli aidonesi come testardi, o i mazzarinesi come pigri. I « caratteri », in verità, non sussistono che in misura minima; la varietà dei vizi s'impasta nel gran calderone della stoltezza umana: le storie che in ogni regione s'attribuiscono tradizionalmente a un « paese degli sciocchi », a un luogo deputato dalla tradizione a quel ruolo, qui sembra che si distri­buiscano quasi equamente alle spese del barrafranchese e del brontese, del modicano e del caltagironese. Per il lettore che (come io ora) riceve il libro avulso da tutti i suoi contesti, i nomi dei paesi sfuma­no in una geografia fluida e arbitraria: il solo luogo che possono evocare è qualcosa come un accampamento di braccianti ai margini del coltivo nell'ora della sie­sta, dove a turno il pietraperzese o il castriannese viene «messo in mezzo», escluso dalla comunità, in­chiodato alla definizione emblematica consegnata una volta per tutte alla facezia. La vittima non ha rivalsa possibile se non nel raccontare un'altra storia in cui lo scherno colpisca il nicosiano o il buterese, e ristabilisca l'equilibrio, a un grado sempre più basso.
C'è però un livello che pare il più basso di tutti ed è quello cui viene condannato il piazzese, consi­derato addirittura fuori dell'umanità, non cristiano; è questo un personaggio che più degli altri assume caratteristiche fisse, di maschera (con un suo inter­calare: ahbò); le storie che lo riguardano cominciano a bollarlo fin dal titolo e ribadiscono la sua predesti­nazione nella clausola finale: come il piazzese che era. Questo accanimento nello spregio si rivela anche dallo stile, che raggiunge — in una delle storie più feroci — punte di delirio verbale espressionista, come i versi: stronzino stronzicolo - parla piazzesicolo. È un'animosità personale di Lanza che viene a incri­nare l'equanimità del suo pessimismo universale? O è il segno che nella mutua denigrazione degli oppressi c'è sempre qualcuno più denigrato e più oppresso di tutti?
Ho detto equanime il pessimismo di queste deni­grazioni, ma subito devo annotare delle diversità o almeno delle sfumature nel trattamento riservato agli uni o agli altri. Dalla bibliografia sull'autore appren­do che quelli che egli chiama i caropipani sono i suoi compaesani (di Valguarnera, anticamente detta Caropepe), e mi vien fatto d'osservare che i caropipani ritornano nei Mimi non come sciocchi ma come ladri (in un caso come cornificatori, cioè ladri di donne) : definizione denigratoria anche questa, ma attiva an­ziché passiva.
Distinzione che qui conta molto, in quanto men­tre le «storie di sciocchi» sono la gran maggioranza, le «storie di furbi» in cui il furbo o briccone viene designato dal nome d'un paese, sono pochissime, e quasi sempre un altro nome di paese vi designa l'an­tagonista sciocco. Sono dunque questi i pochi casi in cui la storiella si firma, si dichiara come quella che l'adernese racconta per imporre la sua superiorità sopra il brontese. Pure nella sequela delle storie di corna; mentre il cornuto riceve sempre nome dal suo paese, raramente per il cornificatore s'indica il nome d'un paese rivale; più spesso questo personaggio — negativo anch'esso ma superiore all'altro per astuzia e per prestanza fisica — è indicato anonimamente co­me il compare. Ora è sottinteso che se il cornuto è il troinese o il mistrettese, il compare che lo cornifica sarà con ogni probabilità un suo compaesano; però l'intenzione infamante della storiella sta nell'identificare il paesano tipico con il gabbato e non col gab­batore.
La speciale cattiveria di queste storielle sta nel castigare quasi sempre non una colpa ma una mancanza. Vediamo che, in questo campionario d'un cen­tinaio di storielle sui vizi umani, non ce n'è nemmeno una che appartenga allo sterminato filone delle bar­zellette sugli avari. Mentre ogni area culturale ha i suoi «scozzesi» cui attribuirle, si direbbe (sempre a giudicare da questo repertorio) che i siciliani ne manchino. (A meno di considerare avaro il mazzarinese che soffia dentro un sacco volendo mettere in serbo il fiato per quando potrebbe mancargli). Dob­biamo inferirne che siamo in un mondo troppo pove­ro perché l'avarizia vi muova l'immaginazione sati­rica? O piuttosto è segno che l'intenzione di queste storielle non è moralistica ma oltraggiosa, e l'avarizia (eccesso nel senso del possesso e non della mancanza) è peccato che non comporta scherno come la stol­tezza (mancanza d'intelletto), né infamia come le corna (mancanza di onore patriarcale o di potenza sessuale), né vergogna come la lussuria (specie fem­minile, mancanza di pudore, di civiltà nei costumi), né scomunica come l'ignoranza sacrilega (mancanza di civiltà religiosa)? Se la morale cristiana, — il Di­scorso della Montagna — è trasformazione della mancanza da disvalore in valore, queste storielle (come già le «parità» e le storie raccolte dal Guastella) possono pure essere dette un «antivangelo»: segno d'una resistenza sorda del mondo dei poveri ad accettare la mancanza come un valore. Antivangelo regressivo e reazionario: alla mancanza non c'è ri­scatto, le denominazioni geografiche sanciscono una predestinazione, gli ultimi non saranno mai i primi.
Secondo l'«anatomia» di Northrop Frye potrem­mo classificare questi Mimi come «commedia ironica» in quanto rito d'esclusione del capro espiatorio dalla società, ed è naturale che in un buon numero di storielle l'escluso sia l'ignorante in fatto di religione, colui che commette balordaggini o indecenze nel suo rapporto con la chiesa e con i santi. Ma la difesa del retto comportamento cristiano che parrebbe attuarsi attraverso l'ironia riguarda solo le forme e resta estranea allo spirito. Si veda la serie dette storie sulla sacra rappresentazione paesana, basate sulle reazioni fisiologiche troppo umane del villano posto sulla Cro­ce a far da Cristo. Qui l'opposizione sacro-profano (lo scandalo) su cui si basa la comicità detta storiella, può esser detta di secondo grado rispetto all'opposi­zione sacro-profano (lo scandalo) in cui già consiste l'efficacia poetica della Passione secondo il Vangelo: il Vangelo racconta una storia di strumenti di tor­tura, soldati, folla urlante, ladroni, malefemmine e la riferisce a un significato sacro; la storiella paesana compie un'operazione simmetrica (e in fondo ridon­dante e tautologica) facendo insorgere i segni profani contro il sistema dei simboli sacri.
Non per nulla la vittima di tutte le mancanze, lo stolto, è personaggio così importante d'ogni fol­klore narrativo, e ha un posto di rilievo nella nar­rativa orale siciliana, come testimonia il ciclo di Giufà, di cui Pitré raccolse un ricco repertorio. Giufà, come il Goha arabo, è una maschera fuori dallo spazio e dal tempo cui si fa assumere tutta la stoltezza uni­versale per allontanarla dalla comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma narratore e ascoltatore netta loro superiorità sul mondo degli stolti. Tra le «storie di sciocchi» quelle della varietà raccolta da Francesco Lanza si differenziano dalla varietà «Giu­fà» in quanto rispondono a un impulso più aggres­sivo: il narratore localizza la stoltezza in un luogo, l'avvicina (può essere il paese d'uno degli ascoltatori o d'un conoscente oggetto di dileggio) per marcarne il confine e sancire non tanto la superiorità della propria etnìa quanto l'inferiorità dell'altra. Che questa funzione aggressiva si innesti sulla funzione primaria d'allontanamento della stoltezza, è testimoniato da una delle storielle di Lanza (Giufà e il mazzarinese), continuazione o contaminazione o parodia d'una no­tissima storiella di Giufà, quella delle mosche e il giudice: per provare che il mazzarinese è più sciocco ancora di Giufà.
Alla varietà «Giufà» appartengono le storielle arabe che Lanza aggiunse in appendice alle siciliane (Mimi arabi): lo sciocco vi porta nome proprio di persona e la querela tra villaggi non sussiste o non appare a noi. Il risultato è che (nonostante l'affinità — e in qualche caso identità — tematica) l'accento di violenza riottosa viene meno. (L'ultima della serie però potrebbe essere una delle storielle che gli arabi raccontano per dileggiare i negri: ma lo dico tirando a indovinare; troppi elementi mi sfuggono).
Le storielle siciliane contro i calabresi sono in questo libro gli unici casi in cui la faida campanilistica fa tregua per lasciare il campo alla faida inter­regionale. Il calabrese è imputato non solo di mador­nale stoltezza ma pure di violenza cieca e truculenta (un peccato che — a quanto risulta da questi testi — sembra che non abbia riscontro nell'isola...).
Nate da una tradizione sociale ed esistenziale in cui non resta altro sfogo alle frustrazioni dei poveri che l'umiliarsi a vicenda, queste storie ignorano il mondo dei ricchi, all'opposto di quel che avviene nelle fiabe, in cui i poveri e i principi sono due mondi con­trapposti ma di cui si tiene viva la speranza d'una miracolosa comunione. Qui, come manifestazione del remoto mondo del potere, solo appare, in alcune sto­rielle, il re; ma la derisione è sempre rivolta ai pae­sani (come in certe storielle continentali su Vittorio Emanuele II in visita a Cuneo) o al sindaco (potere non rispettato perché proveniente dal basso, come nella sola storiella politica — o meglio antipolitica — del libro, I tredici sindaci di San Cataldo). Invece troviamo una clamorosa chiamata in causa del pro­blema demografico (La chiesa di Bronte).
Il povero si consola deridendo il pezzente: la storiella a più alto potenziale di disperazione è per me Il grembiule della pierzese; una donna è tanto abi­tuata agli stracci e alle toppe che quando le regalano un grembiule nuovo lo sforbicia per rattoppare quello vecchio. In questa, come nella maggior parte delle altre storielle, la comicità nasce dall'opposizione di due ordini di conseguenze entrambi logici la cui mu­tua conferma provoca un effetto di sproporzione pa­radossale (secondo la terminologia di Violette Morin, autrice d'una delle prime analisi del meccanismo delle barzellette, le dovremmo classificare come «a disgiunzione referenziale in articolazione bloccata»), ma l'elemento specifico è che questo paradosso nasce da una situazione di mancanza, di penuria, di fame. Volendone formalizzare il meccanismo, proporrei uno schema molto semplice: La pierzese è così stracciata (1) che tutti i panni le servono per fare toppe; (2) che ha bisogno di un grembiule nuovo. Risultato: si farà le toppe col grem­biule nuovo.
Il piazzese è così improvvido e intempestivo (1) che muore d'improvviso; (2) che interrompe la mo­glie mentre scodella la pappa calda. Risultato: mo­glie e figlio prima mangeranno la pappa, poi piange­ranno il morto.
Il cesarottano, per la lunga astinenza sessuale du­rante i lavori agricoli, torna a casa così voglioso (1) che infuria sulla moglie come un toro; (2) che la moglie spaventata lo para con la mano. Risultato: E lui, tutto focoso: — Levatevi la mano vi dico, che ve la buco!
Se i rapporti tra persone si stabiliscono sotto il segno della mancanza, i rapporti con i luoghi sono al­trettanto ridotti. Più che i luoghi sono i nomi dei luoghi a muovere l'avversione o l'attrazione. (Attra­zione che è presente in una sola storiella, sulla no­stalgia dell'emigrato, che dà l'unica nota di sentimento a questo quadro spietato: la nave che riporta in pa­tria il prizzitano s'avvicina alla costa, «la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere», e lui tende le mani per scaldarsi).
Il contadino è tanto immerso nella natura che non ha bisogno di parlarne, così come nel Corano non si parla mai di cammelli (il che prova — scrisse una volta Borges — che veramente fu dettato negli accam­pamenti del deserto). L'arte di Lanza prosatore ec­celle nell'evocare un paesaggio da scarni elementi. La natura compare in queste storie come atmosfera e luce delle stagioni, ma le immagini vegetali e ani­mali che vi agiscono direttamente sono rare, e per di più ambigue, apportatrici d'insicurezza: «una ficaia mora, vasta e frondosa» con «in cima nel folto un fico come una melanzana», ma che potrebb'essere pure, visto controluce, una merla che sta per spiccare il volo; in un bosco coperto di neve, su di un olmo dai rami stecchiti si posa una civetta e gli affamati la scambiano per selvaggina commestibile; sul campo di frumento maturo, la notte il verso del chiù è scambiato dall'avido agricoltore per una pro­messa di maggior raccolto; nella tana, invece del coniglio, il furetto trova un rospo che gli piscia veleno sul muso.
La natura è il mondo dell'impreciso e del­l'incerto, che il linguaggio umano cerca di fissare come può: La pernice del raddusano era in realtà un'upupa, ma lui l'aveva cacciata e mangiata come pernice, per cui poteva raccontare in piazza: « Ho ammazzato una pernice che era anche un'upupa ». Anche la luna, che si direbbe l'oggetto più inconfutabile e patente, due volte compare in questi racconti, e una volta l'ubriaco la confonde col sole, e l'altra volta il carrettiere la perde col riflesso nell'abbeveratoio.
La natura vera, nei Mimi di Lama, non è cosmo, non è esterna all'uomo: è una parte dell'uomo, è il sesso. Mentre nelle barzellette oscene che sentiamo raccontare di solito l'atto sessuale è evocato in modo generico e spiccio, qui lo spirito sta spesso nella pre­cisione dei dettagli con cui vengono rappresentati gli organi sessuali e le fasi e posizioni dell'accoppiamen­to: come il «saluto» de Il licatese, stupratore di garbo, o il «forno» de L'adernese, che obbliga il marito a soffiare « come un ciuco in salita », o la « giusta misura » de La chiaramontana, o gli inabili maneggi de Il malpasso (« quella, che aveva prescia, lo raddrizzava, ora scansandosi ora tirandolo... »).
È difficile stabilire in che misura questi effetti provengano dall'esattezza del dettato popolare e in che misura dall'efficacia della scrittura di Lanza. Certo l'uno e l'altro elemento vi hanno parte. Nelle storie boccaccesche d'astuzie per possedere una donna, Lanza rivela la dote maggiore della sua prosa: quelli di comunicare il massimo di colore e calore con i minimi mezzi. Così nella trovata del compare che per­suade una donna incinta che il marito ha dimenticato di fare i piedini al nascituro e s'offre di completare l'opera (I piedini); o nella finta ingenuità de La nicosiana che continua a dire: «Vediamo che vuol fare il compare», finché l'atto viene portato a compimento; o nella fantasia erotica de Il riesano che nella notte di nozze, prima della giovane sposa, sente l'uzzolo di possedere la suocera.
Storie di bricconi e gabbati anche queste, ma in cui le vittime — le donne sedotte — sono probabili complici dell'inganno subito: la guerra degli inganni si rivela essa stessa un inganno per mascherare una armonia proibita, una festa delle trasgressioni.
Se la barzelletta oscena è tradizionalmente ispi­rata all'«ideologia maschile» qui vediamo peraltro che i diritti della donna alla soddisfazione sessuale vengono messi in primo piano. In realtà questa «ideologia maschile» ha sempre avuto due facce, come ben si vede nelle molte storielle dedicate alle donne vogliose: una faccia misogina e denigratoria, e l'altra di giulivo compiacimento per la forza degli istinti naturali; in Lanza è questo secondo aspetto che trionfa sul primo. Perfino nella storiella del ma­rito che, dovendo staccarsi dalla moglie a metà del­l'amplesso per correre a sparare alla lepre, prega il compare di continuare l'opera intrapresa (La lepre nei cavoli) al di là del solito dileggio del cornuto af­fiora l'evocazione d'un'età dell'oro in cui tra le leggi della natura e quelle della società si stabiliscono altre connessioni.
La storiella oscena si rivela relitto dell'orgia con­tadina come rito annuale di fertilità, da secoli cancel­lata dalla memoria e dalla coscienza collettive, e qui riaffiorante nell'intrico de Le gambe dei lercaresi, così mischiate che nessuno ritrova le proprie. L'oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei valori e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all'utopia.


In Francesco Lanza, Mimi Siciliani, Sellerio Editore, Palermo, 1971

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