26.8.10

Rivoluzione, che gusto. Taverne, vino e cibo nella cultura anarchica e socialista (di Sara Menafra)

Luigi Veronelli
L'articolo di Sara Menafra è una corrispondenza da Messenzatico in provincia di Reggio Emilia e risale al 13 giugno 2006. Racconta motivazioni, precedenti e svolgimento di un iteressante convegno anarchico su "Le cucine del popolo", dedicato in quell'anno al nesso tra tavola, cultura, anarchia e socialismo. E' pieno di curiosità e suggestioni.
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La rivoluzione mangia
Ospiti dell'osteria «Le tre zucchette», i membri della Federazione internazionale italiana riuniti a Bologna nel 1872 mangiarono pasta all'uovo. Chi pensa che il dettaglio sia tutt'altro che secondario è il benvenuto al convegno Cucine del popolo, dove un gruppetto di anarchici reggiani, con il pallino dei legami tra cucina e rivoluzione, spiega che il nesso tra pancia e politica è antico. E che la rivolta non solo è spesso per il pane, ma frequentemente si pianifica a tavola.
L'ultima puntata dell'iniziativa, dedicata in particolare a quel che mangiavano i poeti della rivolta, si è chiusa domenica scorsa a Massenzatico, frazione alle porte di Reggio Emilia, luogo natale di
Camillo Prampolini e sede della più antica casa del popolo d'Italia, fondata nel 1893 un anno dopo la creazione del partito socialista a Genova.
Basta arrivarci, sedersi in un bar sul limitare emiliano della pianura padana, farsi raccontare che da queste parti la prima rivolta rivoluzionaria data 1796 per cominciare a capire come mai i militanti
della Federazione anarchica italiana di Reggio Emilia considerino normale sistemare mezzo convegno in un circolo Arci zeppo di diessini e piazzare tra i banchetti di degustazione che circondano la sala del dibattito pure il gruppo di poeti che si finanzia producendo i vini «Rosso Stalin» e «Rossissimo Lenin».
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Un vinaccio pari alla gazzosa.
L'interrogativo su cosa mangiassero i rivoluzionari è nato tre anni fa, quando a una riunione su tutt'altri temi il gastronomo anarchico Luigi Veronelli si azzardò a dire a Gianandrea Ferrari che il lambrusco è un vinaccio, pari alla gassosa. «Gli ho ricordato che dalle nostre parti i bambini venivano battezzati col lambrusco, il vino dei braccianti rivoluzionari», ricorda ridendo il libraio antiquario che quando parla di Veronelli si emoziona sempre un po'. La discussione era gravida di
conseguenze perché in fondo, convennero i due, dei ribelli, specie italiani, si sa poco di quel che dicevano o scrivevano e ancor meno di cosa mettessero in tavola per corroborare le discussioni sui massimi sistemi. In poco tempo, alla fine del 2004, è nato il primo convegno dal titolo Le Cucine del popolo. L'approccio era generale, si parlava delle ricette proletarie più diffuse e delle grandi tavolate attorno a cui nacquero le prime idee socialiste e Veronelli per l'occasione pronunciò persino un brindisi dedicato al lambrusco: «Ciascuno di noi sa che nei momenti di lotta si alzava il bicchiere carico di lambrusco, il più nero possibile forse segno di rigore, risolutezza e condivisione del destino. Volevano, così come noi oggi vogliamo, l'anarchia».
Un anno e mezzo di ricerche dopo, i dettagli sono aumentati. La maestra non ce l'ha mai confessato, eppure Carducci, Pascoli e De Amicis, per dire solo dei più noti, non solo simpatizzavano per gli ideali di riscatto sociale, ma non disdegnavano la buona tavola. Soprattutto le corrispondenze personali di Carducci, repubblicano convinto, erano ricche di dettagli gastronomici. Della Toscana ricordava prima di tutto il «panin gravido» e di Follonica il «fiaschetto di aleatico che vuotai ben presto». Da Lenindara, già cinquantenne, scriveva alla moglie: «Sto bene e mangio troppo. Dimani mangerò dei pavoni. Tu hai mai mangiato pavoni? Io no. Dicono che son buoni. Sentirò». E quando, ormai anziano, doveva limitare la gola, dalle vacanze scriveva a un amico: «Non manchi che tu a fare sciarade e dire freddure e cucinare camoscio e bevere tant'...acqua».
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Manicaretti pascoliani
Pure Giovanni Pascoli, socialista ed amico personale di Andrea Costa, almeno da giovane non disdegnava qualche buon manicaretto specie se preparato dalla sorella Mariù, abile cuoca. Giovanni Biancardi, bibliofilo, docente all'Università di Reggio e professore d'italiano che ha scartabellato lettere e appunti privati fino a scoprire tanti dettagli, scrolla la testa contrariato: «Nella maturità poetica, come altri dell'epoca, decise che per stare davvero dalla parte del popolo bisognava essere pauperisti e non azzardare discorsi sul cibo. Al massimo si poteva parlare di pane, ma nulla più». Un poemetto giovanile che ci racconti della passione profana del poeta però c'è ed è una gara sui risotti, in punta di rima l'amico Augusto Guido Bianchi parlava a Pascoli di risotto alla milanese e lui rispondeva con un'ode al risotto romagnolo: «Soltanto allora ella v'ha dentro cotto/ il riso crudo, come dici tu./ Già suona mezzogiorno... Ecco il risotto/ romagnolesco, che mi fa Mariù».
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I primi ricettari futuristi
A discutere dei legami tra letteratura, cucina e ribellione, gli anarchici reggiani hanno chiamato pure scrittori in carne ed ossa, come Carlo Lucarelli che ipnotizza la platea esattamente come fa quand'è dall'altra parte dello schermo, ed Edoardo Sanguineti, poeta e anarchico che si mimetizza nelle tavolate reggiane come se non avesse frequentato altro posto in vita sua e quando prende la parola salva solo i primi ricettari futuristi, i cui autori erano inizialmente legati al socialismo ma poi quasi tutti si buttarono senza remore appresso al fascismo. Solo a quel punto scriveranno il Manifesto della cucina futurista e la conseguente invettiva contro la pastasciutta definita «assurda religione gastronomica» che sviluppa lo «scetticismo ironico e sentimentale» producendo «fiacchezza, inattività nostalgica e neutralismo». «L'abolizione della pastasciutta - era l'auspicio - libererà l'Italia dal costoso grano straniero e favorirà l'industria italiana del riso». Pure Mussolini ci mise del suo, nota lo storico Alberto Ciampi, esperto del tema, e nella foga autarchica non dimenticò di coniare molti nomi attinenti al culinario. Polibibita, quisibeve, traidue, peralzarsi, pranzoalsole, altro non sono che cocktail, bar, sandwich, dessert, picnic.
Attorno al dibattito, in attesa degli spuntini, racconti e ricerche si incrociano veloci. Arturo Bertoldi ha scovato un libello di Edmondo De Amicis, che pur giunto in vita oltre la centesima edizione del libro Cuore, si vide praticamente censurare l'operetta Il vino nata da una conferenza sugli effetti psicologici della bevanda. Dentro, racconta Bertoldi, c'era l'introduzione perfetta ad una ideale carta dei vini: «Tutto è mutato dentro e intorno a noi, ci vediamo di fronte a un avvenire sconfinato, ci sentiamo ancora giovani per l'amore, per la gloria e per la ricchezza, e quando s'urtano tutti i bicchieri, in quell'incrociamenti di evviva e di saluti, par che cominci un'epoca nuova per il genere umano».
Spulciando spulciando, gli anarchici reggiani hanno trovato pure i consigli di Luigi Molinari, l'autore dell'Inno della rivolta, canzone anarchica piuttosto famosa sulla cui falsa riga è stato scritto pure I comunisti della capitale, il quale oltre a fare l'avvocato, ad essersi fatto arrestare nel 1894 come istigatore dei moti della Lunigiana, era pure un discreto cuoco e consigliava ad amici e compagni un ottimo «Riso proletario alle erbe». Oppure la ricetta delle «Alici alla Svizzera» (seconda patria degli esuli anarchici) di Giovanna Caleffi, moglie di Camillo Berneri, ma ella stessa leader del movimento anarchico. O, ancora, i consigli dei rivoluzionari esuli come Mario Mariani, autore di romanzi parecchio popolari sul finire del diciannovesimo secolo, che scrisse ai compagni un «Menù dell'esilio», in cui spiegava per filo e per segno come aggiustare una minestra troppo salata - «Aggiungete qualche patata cruda e fate bollire ancora un po'» - o evitare che l'olio si inacidisca - «Metteteci un po' di sale grosso». Insomma - sorridono gli studiosi di cucina e rivoluzione - il rapporto tra i due argomenti esiste almeno da quando i socialisti scelsero di chiamarsi tra loro compagni: «Compagno - detta alla sala attenta, il giornalista Luigi Bolognini - è un termine medioevale e viene da cum panem, ovvero commensale».
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Chissà cosa mangiava Marx
La curiosità sfrigola come lo gnocco fritto, ma per sapere quel che mangiavano Marx e i primi internazionalisti bisognerà aspettare almeno fino all'anno prossimo. «Bisogna fare ricerche accurate, avere le prove di tutto, sennò che senso ha? - dice Gianandrea -. Intanto però posso dirti che abbiamo scoperto che con lo scarso successo di Bakunin in Italia c'entra anche il cibo: quando videro arrivare questo pancione che mangiava e beveva, proletari e intellettuali, un po' poveri e un po' pauperisti, cominciarono a dubitare pure di quel che diceva».
Aspettare le ricerche dunque. E sperare che il dettaglio sia preciso come quelli su cui si è basato il menù del Veglionissimo di domenica, lo stesso realizzato nel 1906 durante una festa socialista per sostenere il settimanale “La Giustizia”: tortelloni, arrosti, salse di campagna e lambrusco «a sfare», riproposto, si legge nel volantino, «con la variante dei tortelloni multicolori, per evidenziare i vari colori del socialismo che posson unirsi nelle rispettive e rispettose differenze, nella solidarietà e della giustizia sociale». La rivoluzione non russa, scrivevamo una volta. Ma di certo mangia.

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