27.6.11

La cucina nell'enclave valdese (di Loris campetti)


Walter Aynard
Non è “il mondo dei vinti” di Nuto Revelli quello che ci racconta il libro La cucina valdese, di Gisella Pizzardi e Walter Eynard, edito da Claudiana. Semmai, come spiega Gianni Genre nella prefazione, è un “mondo sconfitto dal passare del tempo e da ciò che il tempo ha portato con sé: il ‘progresso’, i cambiamenti radicali dello stile di vita introdotti dalla rivoluzione industriale, la globalizzazione del cibo e la omologazione delle abitudini, delle culture, degli approcci alla vita”.
Dove sta la differenza? Sta nel fatto, prosegue Genre, che “vinto è chi non ha più voce per insegnare nulla, chi non merita di essere ripreso in considerazione, chi viene archiviato senza che nessuno se ne accorga. Il mondo evocato in questo libro, invece, parla il linguaggio dell’attualità, dell’ecologia,
dell’attenzione per il creato e le sue leggi. Insegna… il rispetto delle stagioni, delle catene che dovrebbero regolare l’esistenza umana, della terra e dell’acqua, degli animali e delle piante che Dio ci ha messo a disposizione”.
Scusate, ma non dovevate parlare di cucina? E poi, che razza di mondo è quello di cui si sta sproloquiando? Andiamo per ordine, partendo da un concetto che ormai dovrebbe essere acquisito: la cucina è, più che un assemblaggio di ingredienti, una metafora, un grimaldello per aprire la cassaforte della cultura dentro cui sono racchiuse la memoria del passato – le radici – e le tendenze del futuro. In cui s’impastano tradizioni e rotture, identità e meticciato. Ciò detto, questo piccolo mondo antico è l’enclave valdese radicata da secoli in tre valli del torinese difese con le unghie e con i denti da montanari coraggiosi armati di pentoloni di olio bollente rovesciati sui crociati a caccia di scalpi eretici. Valli abbandonate quando diventavano indifendibili, dentro una storia fatta di grandi fughe in Francia e gloriosi rimpatri, fino all’editto del 1848 di Carlo Alberto che riconosce anche ai protestanti di casa nostra la libertà religiosa.
Ristretto di coniglio
La cucina valdese è uno strumento utile per imparare a conoscere uno strano popolo-comunità ricco di cultura, tutt’ora insediato in Val Pellice, Val Chisone e Val Germanasca, di cui si sa pochissimo. Il territorio è situato a un tiro di schioppo dalle Langhe di cui ormai tutti sanno tutto: basterebbe
fare una piccola deviazione, archiviare per un po’ tartufi d’Alba e crema di gianduia, per immergersi in una realtà curiosa, riservata quanto rudemente orgogliosa delle proprie differenze. Ci si troverà immersi in un intreccio inedito di locale e globale, dove il locale ha vizi e virtù della tradizione comunitaria, che però si impasta con altri mondi e culture. Da quasi tre secoli pastori e dotti valdesi inviano le figlie a servizio presso famiglie inglesi “in qualità di governanti”, cosicché
tutt’oggi, a metà pomeriggio, nelle famiglie protestanti si beve il tè, magari accompagnato da gelatine di more e sambuco, di marmellate di lamponi, scodelle di mirtilli. Perciò l’inglese è una lingua nota, mai però come il francese che nelle valli è quasi lingua madre, quasi, perché quassù, tra i bricchi impervi e le montagne terrazzate con muretti a secco per consentire faticose coltivazioni di patate e improbabili orti, vigne d’altura, si parla l’antico patuà. Il tedesco non è un lingua straniera:
gli uomini, spaccatori di pietra – la losa azzurra di Luserna San Giovanni – spesso andavano a lavorare in Svizzera per poi tornare a casa con un carico di silicosi e una moglie di fatture e cucina germanica. Provate a immaginare come questa mescola di lingue possa arricchire la cucina tradizionalmente povera di un popolo montanaro, per quanto colto e aperto al mondo. Il rabarbaro che cresce nell’orto viene cotto e posato su un letto di custard, la cremina inglese importata dalle figlie dei pastori di cui sopra.
Erbe profumate, frutti di bosco, verdure dell’orto, animali da cortile sono gli ingredienti di base della cucina valdese. La raffinatezza del racconto fatto dai due autori, accompagnato da un’ottima ricerca iconografica, sono invece gli ingredienti di La cucina valdese. Le ricette sono antiche, tutte però rivisitate con cura e un pizzico di contaminazione (la difesa dalla globalizzazione che omologa gusti, sapori e abitudini non passa attraverso l’arroccamento stantio nei monti della tradizione).
Gli autori del libro sono i titolari di uno dei più straordinari ristoranti italiani, Flipot di Torre Pellice, sommelier lei e cuoco lui. I cibi di base che propongono nascono poveri e si arricchiscono nel processo di lavorazione lento e accurato (del resto, se avete fretta in cucina e a tavola, non abbiamo altro da dirci).
Ricette non ve ne raccontiamo: con 25 euro le potete consultare da soli. E poi occorre viaggiare per conoscere, perché non è facile trovare altrove trote di torrente come quelle che ancora si nascondono nelle valli valdesi. Valli segnate da fiumi, cascatelle di montagna, laghetti alpini. E tante leggende che danno il nome ai luoghi. Le fate abbondano, da quelle parti, generalmente
hanno buoni sentimenti ma “quelle dei laghi erano fate temibili, poiché attiravano gli uomini sul fondo per godere della loro compagnia”: “A un’ora di strada al di sopra del ridente pianoro del Prà, sulle alture di Bobbio, un bel lago nasconde la sua superficie d’un azzurro profondo ai piedi del Manzol, sul fianco destro della valle. Un pastorello si trovava sulla riva quando scorse, dall’altra parte del lago, una ragazza dalla bellezza raggiante, che lo invitava a raggiungerlo. Stava per farlo, attraverso l’inestricabile dedalo di grosse rocce che circondano il lago, quando, di colpo, la superficie ondeggiante dell’acqua gli apparve liscia come il cristallo e solida come la roccia. Era gelato, e la vergine incantatrice gli faceva segno di avventurarsi con coraggio. Il giovane, impaziente, perdutamente innamorato vi si lanciò: era giunto in mezzo al lago quando il ghiaccio si aprì ed egli scomparve nell’onda scura. Scomparve pure la fata, e scese senza dubbio a introdurlo nella sua umida dimora”. Al lago, “incassato tra grandi pietraie, è rimasto il nome di Mal Counseil, vale a dire ‘cattivo consiglio’”.


Da Cestini d’autore supplemento alimentazione a “il manifesto” dicembre 2006

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