20.6.12

Il calcio fascistissimo e lo squadrone rossoblu (di Massimo Raffaeli)

Primi anni 30.
Quaderno scolastico con immagini
di calciatori del Bologna
e dello stadio Littoriale 
“Il Bologna è uno squadrone che tremare il mondo fa”: lo slogan dev'essere ancora leggibile nel ritrovo storico dei tifosi, il Bar Otello, in via degli Orefici, una stradina dietro il Pavaglione a pochi metri dal negozio di stoffe di proprietà della famiglia di Angelo Schiavio, il centravanti che diede in extremis la vittoria all'Italia nei Mondiali di Roma del 1934.
Schiavio era a fine carriera e non fece a tempo, se non per un attimo, a condividere le gesta di una squadra che nei tardi anni trenta vinse ben 4 scudetti nonché edizioni della Mitropa Cup unitamente al Torneo dell'Esposizione di Parigi (giugno 1937), la più grande competizione europea dell'epoca. (Né fece a tempo a goderne Leandro Arpinati, il cosiddetto ras dei ras, camerata antemarcia del Duce, potente gerarca della Federazione e del Coni, mallevadore della squadra e dello stadio inaugurato nel '26, il «Littoriale», che intendeva rinverdire i fasti di Roma antica con tanto di torre di Maratona e, alla base, il monumento equestre di Mussolini medesimo: Arpinati, caduto in disgrazia, era stato da tempo esautorato e spedito al confino).
Fascistissimo emblema del calcio italiano, fiore all'occhiello di un regime al suo apogeo, il gioco del Bologna che stravince a Parigi in realtà non ha nulla dell'epica gladiatoria e della purezza etnica che la propaganda ufficiale va intanto sbandierando. Classica squadra da contropiede, in effetti gioca al risparmio, adottando una variante particolarmente cauta del «Metodo» danubiano impostole dall'allenatore Arpad Weisz, un ebreo ungherese costretto a lasciare la panchina nel '39, dopo le leggi razziali, poi deportato e finito in un campo di sterminio. Tra i pali, c'è uno dei più grandi portieri italiani di tutti i tempi, Carlo Ceresoli; sulle ali, il veloce Biavati, quello del «passo doppio», la finta che anticipa di anni Garrincha, e Reguzzoni, quello pure molto bravo ma ignorato in nazionale da Vittorio Pozzo perché ostile alla retorica patriottarda e dichiaratamente antifascista; in avanti, al posto di Schiavio, sta il giovane ariete Busoni in attesa che dall'Uruguay arrivi Puricelli, grande nel gioco aereo e nelle stoccate sotto porta; ma è a centrocampo, tuttavia, che il Bologna eccelle grazie all'apporto di tre oriundi uruguayani, gli interni Fedullo e Sansone vigilati, alle spalle, dal centrosostegno Andreolo. Di costoro scrive Brera nella Storia critica del calcio italiano (1978): «Il punto debole del vivaio italiano era sempre stato il centrocampo: generalmente chi vi si specializzava non aveva sufficiente stile o, se ne aveva, non era in condizioni di reggere sul piano atletico. Fedullo e Sansone erano due abili ruminanti della palla: correvano, al loro ritmo ottimo, cioè piano, dal primo all'ultimo istante, tenevano a piacimento la palla duettando dalle soglie della propria area all'area avversaria: aspettavano le ali e corricchiando sullo slancio andavano ad aspettare che l'azione si svolgesse con l'immancabile cross, magari per rientrarvi a loro volta e concludere da poco fuori. Alle spalle di Fedullo e Sansone giganteggiava Andreolo, ottimo negli stacchi acrobatici, puntuale negli incontri e quasi in tutto degno di Luis Monti nei lunghi rilanci».
La realtà contraddiceva dunque e clamorosamente l'ideologia, però il Bologna rimaneva un mito cui era difficile non soggiacere: tifava Bologna il quindicenne Pier Paolo Pasolini, nato in via Nosadella, studente al Liceo «Galvani», così come Paolo Volponi, da Urbino, l'orecchio incollato alla radio a galena, ma tifava Bologna soprattutto il loro coetaneo e futuro sodale nella rivista «Officina» Roberto Roversi, colui che scriverà il poema La partita di calcio, figlio di un radiologo nel cui ambulatorio, il lunedì mattina, spesso transitavano per una lastra gli acciaccati Andreolo e compagni.
A quel Bologna che l'enfasi del tifo associava a un terremoto e più generalmente a Calcio e Fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini (trad. di G. Garbellini, Oscar Mondadori, pp. 339, € 10.40) è adesso dedicato l'utile lavoro di un giovane ricercatore inglese, Simon Martin, più una ricerca collocabile all'interno dei cultural studies che non una tradizionale monografia storica, sostenuta comunque da un contatto diretto con le fonti e da un buon lavoro sui documenti, nonostante qualche svista e disinvoltura filologica. (Ad esempio, e a proposito della vittoria ai Mondiali parigini del '38, Martin scrive, a pag. 247: «A Roma, i festeggiamenti di massa allo stadio Olimpico richiamarono una folla di cinquantamila persone le quali, insieme al Duce, cantarono una serie di inni fascisti». Impossibile, perché magari sarà stato lo Stadio del Partito, quello dei precedenti Mondiali di Roma: lo stadio Olimpico venne infatti inaugurato dieci anni dopo la caduta del fascismo. A pag. 251, si parla di Raimondo Orsi, leggendaria ala sinistra della Juventus e della nazionale, però si chiamava Raimundo con la u: infatti non solo era oriundo e aveva passaporto argentino ma con la maglia biancoceleste aveva persino giocato alle Olimpiadi del '28, mettendo pertanto in grave imbarazzo le autorità fasciste desiderose di naturalizzarlo seduta stante).
Martin muove dalla chiara intenzione del regime di fare del calcio ciò che non era riuscito con il teatro e neanche, se non parzialmente, col cinema; di trasformare cioè il calcio tanto in un'autentica cultura di massa quanto in un dichiarato culto fascista, come si evince dalla complessa e diametrale vicenda della costruzione degli stadi di Bologna e Firenze, l'uno di stile solenne e classicista, l'altro invece, firmato da Pier Luigi Nervi, di segno marcatamente modernista. Fu perciò un progetto di regime vittorioso a metà: infatti, così come non è esistita un'architettura che possa dirsi univocamente fascista, allo stesso modo, e per fortuna, non è mai esistito, se non nei travestimenti della propaganda, un calcio di matrice littoria.
Ne conclude Martin: «Se il calcio era la perfetta allegoria dei meriti di un' ideale società fascista, d'altra parte non riusciva a risolvere - e anzi sottolineava - molte delle contraddizioni esistenti all'interno della costruzione di un'identità italiana fascista. (...) Anche se l'impiego degli oriundi non andava in alcun modo a detrimento delle vittorie degli azzurri, la loro presenza costringeva i dirigenti dell'Italia fascista e coloro che si occupavano di formare il consenso a riconsiderare con attenzione cosa significasse il loro ruolo, così importante per la formazione di punta dello sport nazionale e per l'identità italiana».
Ai recenti Mondiali di Berlino, Mauro German Camoranesi, a quanti gli chiedevano perché, unico degli undici nostri calciatori, non cantasse l'Inno di Mameli, ha candidamente ribattuto di non ricordare neanche il suo, cioè l'inno nazionale dell'Argentina. Per questo c'è da scommettere che nemmeno Michele Andreolo, ai bei tempi, sapesse a memoria le parole di Giovinezza.

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