Lo psicanalista francese Christophe Dejours |
In un recente convegno
sulla crisi del lavoro e le sue ripercussioni nel campo della cura
psichica, organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi, lo
psicoanalista francese Christophe Dejours ha descritto il declino di
un ospedale psichiatrico parigino per via del neoliberismo.
Il lavoro
psicoterapeutico che aveva dato prestigio all’ospedale, è stato
sostituito dal trattamento farmacologico, più economico e
sbrigativo. La mentalità neoliberista che ha espugnato il luogo di
cura, può essere sintetizzata nella risposta di un dirigente alle
proteste del personale: «Noi abbiamo a che fare con persone rozze, a
cui i farmaci vanno bene, e voi volete offrire sovra-qualità».
Come se la passa la
psicoanalisi in questi tempi di grande incertezza lavorativa e di
marginalizzazione sociale di vasti strati della popolazione?
In realtà la domanda di
trattamento analitico resta alta (anche per la crescente difficoltà
delle strutture pubbliche di offrire un sostegno adeguato), ma è più
generica e meno consapevole.
Il lavoro degli
psicoanalisti è più faticoso perché si svolge in condizioni
lontane da quelle ottimali e controcorrente. L’adesione collettiva
a modelli «pratici» dell’esistenza, la prevalenza del supporto
materiale sulla «carne viva» dell’esistenza, la ricerca ossessiva
della stabilità e della sicurezza come valori in sé, conferiscono
al lavoro analitico il carattere di un’(auto)educazione
«sentimentale» dell’analizzando verso la riappropriazione della
sua capacità di esposizione alla vita, del piacere di perdere i
confini prestabiliti tra sé e l’altro da sé.
L’uso dell’analisi da
parte di chi soffre, è insieme più «spietato» e più distratto,
più difficile da gestire per l’analista preso tra due richieste
contraddittorie: reggere la pressione, senza respingere il desiderio
che la sottende, e combattere la distrazione e il disimpegno.
La difficoltà cresciuta
del lavoro con i pazienti, non si traduce in crisi degli
psicoanalisti, almeno per coloro sufficientemente preparati a
lavorare in condizioni avverse, dalle quali traggono maggiore
ispirazione. La psicoanalisi stenta, invece, nell’evoluzione del
suo paradigma. A un’espansione dei campi della sua applicazione e a
un consolidamento e affinamento dei suoi strumenti teorico-clinici,
corrisponde un rallentamento evidente del loro rinnovamento.
Tuttavia, questo rallentamento non è un dato specifico del campo
psicoanalitico: andrebbe ascritto a una crisi del campo della cura, e
più in generale della scienza, che ha la sua causa in una
involuzione del nostro modo di vedere, interpretare e rappresentare
il mondo.
La produzione di una
costante agitazione in superficie che contrasta lo sviluppo di un
movimento di cambiamento in profondità, tiene il pensiero e i
sentimenti nel campo del già saputo e sperimentato, lontano
dall’incertezza e dal presentimento del non ancora pensato.
Ne consegue un dominio
della tecnologia – la sempre più sofisticata applicazione di
quello che si sa – su quello che si potrebbe sapere.
Einstein ha rivoluzionato
la fisica usando carta e penna. Oggi costruiamo dispositivi
cattura-particelle che allargano il campo della visibilità, ma
smarriamo ciò che non si vede. Nel creare una prova di «verità»,
produciamo anche una cecità iper-vedente. La qualità, legata
all’intuizione e alla potenzialità, è fagocitata dalla quantità,
legata alla concretezza.
La psicoanalisi ha il suo
bel da fare in una società in cui dietro l’idea che la qualità
sia roba per palati fini – e non per una moltitudine di persone
rozze – si produce, in realtà, solo quantità, «fine» o «rozza»,
per tutti.
“il manifesto”, 29
ottobre 2016
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