La maschera funebre nota come "Maschera di Agamennone", oggi al Miseo archeologico di Atene |
Quando arrivai sotto le mura di Micene,
cinquant'anni fa, il cielo era nero e solcato da lampi. La Porta dei
Leoni si apriva bassa e squadrata tra enormi pietre grigie. Il vento
soffiava furibondo e faceva freddo. Immaginavo le fiaccole accese
che, da Troia, di monte in monte, avevano segnalato la partenza del
Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse fermato il carro che
portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per camminare verso casa
sul tappeto purpureo.
Qualche giorno prima, ad Atene, avevo
contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro: dopo averla
ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho visto
il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con
una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza,
disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello
lì: anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva
benissimo che il mito è molto più forte dell'evidenza materiale,
che l'Iliade e l'Orestea vinceranno sempre l'archeologia e la
storia.
Lo sa anche Giulio Guidorizzi, che pure
è grecista serio e agguerrito, il quale s'è occupato a fondo del
mito greco (ha curato sull'argomento due splendidi Meridiani), di
Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia nell'antichità, e
che sta traducendo proprio l'Iliade, e dirigendo una squadra
internazionale di studiosi per l'edizione Valla in sei volumi del
poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha studiato
anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio Guidorizzi ne
aggiunge ora un'altra: quella, in sostanza, di riscrivere l'Iliade,
con qualche frammento di Eschilo e dell'Odissea per sfidare Apollo e
le Muse sino in fondo. (Io, Agamennone. Gli eroi di Omero , Einaudi).
Ogni anno, da almeno dieci, tengo ben
due serie di lezioni sull'Iliade e l'Odissea. Perciò, ho cominciato
a leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch'io
tra questi furori, per l'oggettiva difficoltà di gareggiare con
Omero, per scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma
come, pensavo, proprio quell'antipatico, insopportabile borioso che
ruba Briseide ad Achille e si considera a tutti superiore non si sa
bene perché? Ma Io, Agamennone vale come la Cassandra di Christa
Wolf. Dopo due pagine, il tempo di passare dal Prologo al primo
capitolo, Mýthos, non riuscivo più a metterlo giù. Perché
Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al quale Alcinoo dice che
narra con sapienza e con arte, come un aedo. E sa, al momento giusto
inserire nel discorso i concetti fondamentali che lo guidano e danno
il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos, appunto, e poi timé
(l'onore), eros, dóra (dono), dólos (l'inganno), pólemos (guerra),
psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno). Quando, nel primo
capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e Pelope – gli
antenati di Agamennone – rende la storia così avvincente che sino
alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma al
tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le
complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e
i suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la
memoria e il canto per una civiltà giovane.
L'Iliade consiste per buona parte di
battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si comprende che
combattere per l'onore e la gloria significa, nell'ethos greco di
tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima traccia
di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce
l'estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del
poema. L'Iliade è tutta “agonistica”, diceva l'anonimo del
Sublime: è il poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos,
lotta, lance spade scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue,
vittorie e sconfitte. Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso
conto di quanto avesse ragione William Golding, l'autore de Il
Signore delle mosche, quando, molti anni fa, mi disse che il
carattere “virile” del poema – per lui, una delle sue virtù
supreme – sta nel suo essere una guerra di ciascuno contro la
moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può nulla.
Quando Guidorizzi si tuffa nella
mischia e racconta l'avanzata dei Troiani – l'incursione di Diomede
e Ulisse, e poi, in crescendo di ritmo, l'attacco e la ritirata di
Agamennone, Diomede ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco
alle navi e sfonda il muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che,
rivestito delle armi di Achille, esce sul campo di battaglia e viene
ucciso da Ettore, poi il duello di quest'ultimo con Achille, lo
scempio furibondo – la sequenza che costruisce è di una rapidità
sconvolgente. Dominano, in essa, il thymós e l'ombra della psyché:
l'uno, «l'energia sempre in movimento» degli eroi, il «groppo di
impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo stagliarsi perenne
dell'altra, la psyché, «l'ultimo respiro di vita che abbandona un
uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il gran
lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli esseri
umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio che
svapora dell'aria».
Tuttavia, ci sono anche nel libro
l'ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che
tesse la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani
di Troia per la sua bellezza tremenda – una di quelle pause
straordinarie nelle quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire
tumultuoso della guerra si coagula in essere –, il deflagrare
dell'eros negli incontri di lei e Paride e di Zeus ed Era, l'affetto
doloroso di Ettore e Andromaca, la philía tra Achille e Patroclo,
l'incontro civile di Glauco e Diomede. E infine l'ingresso di Priamo
nella tenda di Achille, la preghiera in nome del padre, la grande
pietà dell'eroe dell'ira, la cena, lo sguardo d'ammirazione che il
vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore del mondo» che
sempre ti prende.
Al contrario che nell'Iliade, qui la
guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere
scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l'inganno,
saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in
schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull'Egeo con la
propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo,
il ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia,
Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale
rivive l'inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone,
Atreo. Le fiaccole segnalano l'arrivo di Agamennone a Micene.
Cassandra, come in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere.
E che, inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei
Leoni, entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso
all'Ade, racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non
gli ha neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse:
l'eroe del ragionare, del pazientare, dell'errare: del sopravvivere e
del narrare.
"Il Sole 24 Ore - Domenica", 9 maggio 2016
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