Maliundi (Kenya), L'approdo di Vasco deGama e il monumento che lo ricorda |
Cantato come un mitico
eroe antico nei Lusiadi di Luis de Camões, il poema nazionale
cinquecentesco, Vasco da Gama ha nutrito per secoli l’epopea
portoghese della conquista dell’oceano Indiano e del lucroso
commercio delle spezie, sottratto al secolare monopolio veneziano; e
con lui i grandi navigatori che lo precedettero e lo seguirono, come
Bartolomeu Dias che nel 1487-88 doppiò il capo di Buona speranza, o
Pedro Alvares Cabral che per primo nel 1500 sbarcò sulle coste del
Brasile. E poi i grandi principi e sovrani che seppero intuire il
destino del Portogallo sui mari, come Enrico il Navigatore che spedì
le sue navi fino alle Azzorre, al golfo di Guinea e oltre, e
soprattutto don Manuel, o venturoso, orgogliosamente intitolatosi «re
di Portogallo e dell’Algarve, di qua e di là dal mare in Africa,
signore di Guinea, della conquista, della navigazione e del commercio
di Etiopia, Persia, India». Un’epopea forgiata già dai primi
cronisti di quelle imprese, che dopo la decadenza portoghese avrebbe
alimentato il nazionalismo nostalgico e reazionario che si riflette
nel Monumento a los descubrimientos di Belem, sul porto di
Lisbona, inaugurato in piena età salazarista nel 1960: la possente
prua lanciata sugli oceani di una nave di pietra su cui si affolla un
popolo guidato dal suo re. Un nazionalismo per cui Vasco da Gama
rappresenta al tempo stesso l’anima, il destino, l’incarnazione
del Portogallo, la cui figura non può quindi essere in alcun modo
discussa.
Di poco successiva alla
scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, la
circumnavigazione dell’Africa dell’ammiraglio portoghese allargò
a dismisura i confini del mondo e aprì all’espansione europea una
nuova era di traffici mercantili e conquiste coloniali, segnata da
conflitti e violenze, da incontri e scontri di culture, da spirito
missionario che i gesuiti avrebbero cercato di adattare alle
religioni asiatiche. Fu la prima globalizzazione, frutto della spinta
verso Est e verso Ovest alla ricerca delle isole delle spezie
promossa dai re di Castiglia e di Portogallo, ultima propaggine della
reconquista, del tentativo di trasferirla anche in Africa, di un
tenace spirito crociato e di attese messianiche che guardavano alle
esili comunità cristiane d’Oriente e al leggendario regno etiope
di prete Giovanni per prendere alle spalle la potenza ottomana e
sbaragliare i mamelucchi d’Egitto, padroni del mar Rosso e di Suez.
Del resto, così come i cristiani definivano come “mori” i
diversi popoli che si affacciavano su quel lontano oceano, ne erano a
loro volta definiti come “franchi”, eredi degli antichi seguaci
di Goffredo di Buglione.
Su tali vicende e su tale
epopea Subrahmanyan getta lo sguardo nuovo e diverso che gli proviene
non solo da una profonda conoscenza di quella galassia di etnie,
lingue, religioni di ogni parte dell’Asia, di piccoli potentati
arabi o indiani, di città Stato governate da re-mercanti, ma anche
dall’essere nato in India, sull’altra sponda di quello che i re
di Spagna e Portogallo definivano «questo nostro mare Oceano», e
dal guardare quindi ad esso in una prospettiva diversa da quella
europea. Altrettanto diversa da quella codificata dalla tradizionale
storiografia portoghese (che non a caso reagì negativamente a questo
libro, giudicandolo un attacco al cuore dell’identità portoghese)
è la ricostruzione dei diversi orientamenti assunti via via dalla
corona, dai conflitti tra le fazioni familiari e politiche, e con
essi delle divergenti posizioni sul promuovere e poi proseguire la
costosissima e rischiosa politica espansiva in Asia. E lo stesso
dicasi per la mutevole collocazione dello stesso Vasco da Gama in
questa fitta trama di poteri e orientamenti prima e dopo il suo
viaggio, per la sua capacità di accumulare ricchezze e garantire
l’ascesa sociale della famiglia, originariamente appartenente alla
piccola nobiltà di servizio e con lui faticosamente approdata al
titolo comitale.
Particolarmente
interessante, naturalmente è la ricostruzione della lunga e
difficile navigazione di quelle tre piccole navi, meno di 200 marinai
in tutto partite da Lisbona l’8 luglio 1497, dirette verso le isole
del Capo verde alla ricerca degli alisei meridionali e poi verso il
capo di Buona speranza, doppiato a fatica alla fine di novembre, per
risalire lungo la costa africana tra Mozambico e Kenya dominata da
principati islamici, con continui incidenti e scaramucce, mentre lo
scorbuto dilagava tra i marinai. Precoce fu la decisione di non
scendere a terra se non per gli approvvigionamenti, nell’intento di
mascherare l’identità cristiana, e per cercare piloti affidabili
in grado di guidare le navi tra le insidie di quei mari sconosciuti.
Il 7 aprile Vasco da Gama raggiunse Mombasa e poi Malindi, donde il
24 fece rotta alla volta della costa indiana, dove il 20 maggio gettò
le ancore al largo di Calicut, la meta agognata. Qui si fermò fino
al 29 agosto, per prendere poi la via del ritorno, tra continui
scontri e conflitti con il raja Samudri, poco disposto a insediare in
casa sua quello che Subrhamanyan definice un «commercio ostile». Ma
ci vollero 3 mesi e altri 30 morti di stenti e malattie per far
ritorno sulla costa africana, dove un’imbarcazione fu data alle
fiamme per concentrare sulle altre i marinai superstiti. Solo nel
luglio del 1499 una nave potè rientare nel porto di Lisbona, due
anni dopo esserne partita.
Nell’ultima parte del
libro si ricostruiscono i difficili tentativi di consolidamento di
quella grande impresa grazie a nuove spedizioni, alle vittorie della
flotta di don Alfonso de Albuquerque sulla marineria araba, alla sua
conquista di Goa, Hormuz, Malacca. Un’impresa che solo la maligna
rivalità di Amerigo Vespucci poté denigrare con taglienti parole di
scherno: «Tal viagio come quello non lo chiamo io discoprire, ma
andare pel discoperto, perché […] la loro navicazione è di
continovo a vista di tere: volgono tutta la terra de l’Africa per
la parte dell’austro, che è provincia della quale parlano tutti li
altori della cosmografia». Quanto a Vasco da Gama, sarebbe
nuovamente partito per l’India nel 1502, senza riuscire a
insediarsi a Calicut nonostante il crescente ricorso alla violenza, e
infine nel ’24, questa volta con il titolo di «ammiraglio dei mari
dell’India» e di viceré, per morire a Cochin pochi mesi dopo,
alla vigilia di Natale del 1525.
“Il Sole 24 ore –
Domenica”, 9 maggio 2016
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