Bologna 31 ottobre 1926, la città è
in festa dopo l’inaugurazione del nuovo stadio di calcio ad opera
nientedimeno che del Duce.
Ma proprio quando Mussolini sta
rientrando a bordo di una vettura scoperta, viene colpito da un
proiettile che incredibilmente perfora il bavero, trapassa il
cappello che il sindaco Puppini teneva sulle ginocchia, per andare ad
arrestarsi nell’imbotittura della macchina.
Il protagonista dell’attentato viene
subito individuato da camicie nere ed esagitati pronti a menare le
mani in Anteo Zamboni, un ragazzo non troppo a posto con la testa, il
quale viene accerchiato e linciato prima che qualcuno possa
ristabilire l’ordine e iniziare le indagini vere e proprie.
Anni dopo saranno molti i sospetti
sulla sorte di capro espiatorio riservata a Zamboni e sulla sua
subitanea uccisione, forse un diversivo creato ad arte per
distogliere l’attenzione da ben altri committenti.
E’ da questo antefatto in cui sport e
politica si mescolano ad un livello allo stesso tanto profondo quanto
torbido che inizia il secondo capitolo della storia del calcio
italiano scritta da Enrico Brizzi: Vincere o morire. Gli assi del
calcio in camicia nera 1926-1938 (Laterza).
Un appassionante ritratto di come e
quando il calcio in Italia ha iniziato a diventare qualcosa di più
del «meraviglioso giuoco» (per utilizzare il titolo del primo libro
di Brizzi) delle origini. Scritto con la verve dello scrittore ma
conservando l’attenzione per le cifre e le date necessari ad un
racconto attendibile e preciso.
Dopo gli avventurosi inizi,
contrassegnati dall’arrivo in Italia dalla Gran Bretagna di quel
nuovo passatempo che poi forse un po’ forzatamente si farà
discendere direttamente dal calcio fiorentino, è proprio intorno ai
mesi segnati dall’attentato a Mussolini che il calcio italiano sta
per prendere una direzione nuova.
Uno dei protagonisti è proprio quel
Leandro Arpinati che aveva organizzato la visita di Mussolini a
Bologna per presentargli il nuovo stadio. Squadrista della prima ora
e leader del fascio bolognese, Arpinati è un convinto assertore
dello sport come strumento di «educazione nazionale».
Da lui discende l’impulso a portare
del regime cambiamenti di cui ancora oggi sono visibili le tracce: il
campionato a girone unico, nuove regole, compresa quella sul
fuorigioco, la fusione delle tante piccole squadre un po’ per caso
in quegli anni in poche grandi squadre metropolitane in grado di
rivaleggiare fra di loro.
Un caso su tutti, anche per la
rilevanza, è proprio quello della squadra della capitale, nata
l’anno successivo all’attentato a Mussolini a seguito della
fusione ordinata da un regime che in ogni altro ambito mostrava il
lato dirigistico e centralistico. Alba Roma, Roman e Fortitudo si
fondono nella Associazione sportiva Roma.
Regime a parte, anche i grandi
esponenti della finanza e dell’industria iniziano ad avvicinarsi al
calcio. La famiglia Agnelli ha giusto qualche anno prima, nel 1923,
preso in mano le sorti della Juventus, siamo alle soglie del
quinquennio d’oro, quello dei cinque scudetti di fila vinti da una
compagine che come da tradizione d’ora in avanti fornirà
l’ossatura della nazionale.
È nel 1934 infatti che culmina questo
secondo libro di Brizzi, con i mondiali ospitati e vinti dall’Italia
e dal regime fascista. Un’occasione unica per la propaganda, alle
soglie dell’inizio dell’avventura coloniale in Etiopia, per
consolidare attraverso una passione che oramai aveva contagiato
decine di migliaia di italiani.
“alias il manifesto”, 14 gennaio
2017
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