1.8.17

Witold Gombrowicz, il romanziere dello Spirito Santo (Enrico Filippini)

Una delle cose utili e dilettevoli che si potevano fare nell'ultimo decennio in cui ci fu una letteratura - gli anni Sessanta - era la conoscenza dell'opera e della persona di Witold. Per me la cosa andò pressapoco come ora cercherò di raccontare. C'era allora il Premio Internazionale di Letteratura, conferito dai maggiori editori europei, e per coloro che lavoravano in quell'ambiente era abbastanza naturale andarci a curiosare. Nel 1966, il premio veniva conferito a Saint Raphael, ed io ci andai, insieme col mio collega di lavoro Valerio Riva. A Saint Raphael trovammo Edoardo Sanguineti, che era in giuria, e sotto il cielo bigio della primavera provenzale fummo subito d'accordo: il premio (di 10.000 dollari) doveva andare a Gombrowicz. Invece non andò a lui: andò, credo, a Saul Bellow. Ma Sanguineti, Riva ed io utilizzammo il soggiorno per far visita al maestro polacco, che viveva in una palazzina assolutamente desolata nella Place du Grand Jardin di Vence, sempre in Provenza.
In Italia non era del tutto sconosciuto perchè nel 1961, auspice Angelo Maria Ripellino, Einaudi aveva pubblicato il suo primo grande romanzo, Ferdydurke, che era uscito in polacco nel 1937 e che ora, a distanza, ci entusiasmava. Non era del tutto sconosciuto ma era stato dimenticato. Gombrowicz, che aveva allora sessantadue anni, ci invitò a cena con grandiosa signorilità. Una signorilità sottolineata dalla palese indigenza in cui viveva. Noi ne approfittammo per farci raccontare la sua vita e per informarci sulle altre opere che non erano mai state pubblicate in italiano. Lui raccontò paziente e con suprema eleganza, succhiando una pipetta: non poteva fumare sigarette perché soffriva d'asma. A un certo punto si fermò e ci guardò come allarmato: "Ma voi fate politica", domandò, "come i francesi?". E aggiunse nel suo splendido francese: "Il n'y a pas de politique dans la maison du Saint Esprit". Lo Spirito Santo era naturalmente la letteratura, e noi fummo un po' sorpresi che uno scrittore così anti-letterario la collocasse tanto in alto.
Ma la sorpresa cessò quando leggemmo, in francese, il suo ultimo romanzo, che era Cosmo, e che è certo una delle grandi opere dello Spirito Santo contemporaneo. Del resto, anche il personaggio ci aveva affascinati: nessuno come lui impersonava l'Avanguardia; nessuno come lui era conforme all'immagine profondamente e sanamente sovversiva che veniva dai suoi libri; nessuno come lui era capace di incarnare senza stonature una forma speciale e deliziosa di stravaganza; nessuno come lui era così serio...
Aveva vissuto ventiquattro anni in Argentina, e confessava di non sapere il perché. Aveva lavorato otto anni in una banca, e ammetteva soavemente (e certo sinceramente) di non capire bene cosa fosse un assegno... Quando la traduzione di Cosmo fu pronta (durissima fatica di Riccardo Landau), l'editore mi chiese di scrivere una noticina in appendice per rammentare un po' chi era l'autore. All'autore la noticina piacque; s'informò su chi l'aveva scritta, perché era solo siglata, e poi mi scrisse per ringraziarmi. Io ringraziai dei ringraziamenti, e così nacque un piccolo epistolario, che sfortunatamente non ritrovo, ma di cui ricordo l'interesse umano e letterario e un piccolo fatto: le lettere di Gombrowicz erano tutte datate "1867". Per elegante distrazione, si sbagliava di un secolo: non era uno scrittore politico ed era uno scrittore "inattuale".
Tuttavia, un secolo dopo, nel 1967, ebbe finalmente il Premio Internazionale di Letteratura e, per quanto ne so, ne fu contento. A poco a poco, gli editori italiani pubblicarono quasi tutti i suoi lavori: da Feltrinelli uscirono, oltre a Cosmo, le splendide novelle raccolte in Bacacay, il romanzo Transatlantico, i tre volumi del Diario; da Bompiani uscì Pornografia nonché Schiavi delle tenebre; da Einaudi il teatro: Operetta e Iwona principessa di Borgogna. Non un'opera immensa ma un'opera tenace, che dopotutto occupa dieci volumi nell'edizione integrale in polacco pubblicata a Parigi. Eppure, nonostante la solerzia editoriale, e nonostante l'esistenza di un gruppo sicuro di fans, l'impressione è che Gombrowicz sia di nuovo dimenticato. Se così fosse sarebbe un gran peccato: basta leggere una sua pagina per percepire un supplemento di vitalità. Forse la tendenza di Gombrowicz a farsi dimenticare è dovuta alla biografia: quando aveva trentacinque anni, e in patria era già uno scrittore abbastanza conosciuto, se ne andò. Per l'esattezza: accettò l'invito da parte della Compagnia di Navigazione Polacca a partecipare al viaggio inaugurale del transatlantico Chrobry sulla rotta Danzica-Buenos Aires. Così si trovò nella capitale argentina allo scoppio della guerra (primo settembre 1939), e non ebbe voglia di tornare. In Argentina rimase, come per sbaglio, fino al 1963, anno in cui la Fondazione Ford gli offrì un soggiorno di un anno a Berlino. Nel frattempo, le edizioni Kultura a Parigi avevano pubblicato molte opere sue. Ma Kultura e Ford non erano nomi indicati ad accreditarlo in Europa, dove gli affari letterari erano ancora molto politicizzati: uno che bazzicava quei nomi come minimo era un agente della Cia, e non dello Spirito Santo.
Adesso un piccolo editore, "e/o" ci propone di leggere le pagine di Parigi-Berlino, un frammento del Diario curato da Francesco Cataluccio (pagg. 140, lire 16.000). Eccolo qui, il Witold: ad apertura di pagina è subito lui e insieme tutti i suoi personaggi. Si rifugia in Uruguay per finire Cosmo, e tuttavia una lettera che molte volte si è smarrita lo invita a Berlino per un anno; il dado è tratto. Ma un dado tratto non esime dai problemi: la cerimonia degli addii all' Argentina è molto affannosa e complicata. Avviene non nel cosmo ma nel caos, e come sempre quando il caos riguarda Witold, si tratta di un caos che è al tempo stesso tragico e supremamente buffo. La sua insegna potrebbe essere questa, che infatti è una citazione: "No. Nulla. Deserto. Vuoto. Passai ancora da un'altra casa...". Il passeggero Witold sta, radicalmente frastornato, su un transatlantico che in mezzo alle tempeste viaggia verso l'Europa, e mentre si aggira sul ponte "aggrappato ai parapetti, costretto allo sbandamento, al caos, stordito dal vento", ecco che ai piedi della scala compare un occhio umano abbandonato. Witold interpella un marinaio: "Di chi è quell'occhio?". "Non lo so, sir". "Qualcuno l'ha perduto, o gli è stato cavato?". "Non saprei, sir. È qui da stamattina. L'avrei raccolto e messo in una scatola, ma non mi è permesso di allontanarmi dalle scale...". Il passeggero Witold viaggia in una realissima irrealtà. A un certo punto, quando la costa dell'America (di quella che più tardi chiamerà "l' Abbandonata") sta sparendo all' orizzonte, il passeggero diventa inquieto: si domanda che cosa capiterà quando questo Witold, che va verso l'Europa, incontrerà a metà oceano quell'altro, che ventiquattro anni prima viaggiava in opposta direzione. Problema altamente filosofico, che riguarda la natura del tempo e della storia. Ma in mezzo all'oceano, nulla, deserto, vuoto: la storia non risponde.
Ed eccolo a Parigi, che naturalmente considera la capitale della cultura e in cui ha vari amici, ma che inevitabilmente gli appare come una "città dei cani che sbavano al suono della trombetta". Verso Parigi concepisce subito un programma di assoluta ostilità: che fare di fronte a tutta quella chiacchiera culturale, di fronte a tutti quei "cilindri" (per lui è un "cilindro" anche Proust), di fronte a tutti quei salamelecchi? Togliersi i pantaloni: "Quando cominciai a togliermi i pantaloni si diffuse il panico, un fuggifuggi attraverso le porte e le finestre. Rimasi solo. Non c'era più nessuno nel ristorante...". Togliersi i pantaloni vuol dire formulare un programma, e il programma di Gombrowicz è la nudità. E la nudità è l'abbattimento di tutti gli orpelli culturali... Poi eccolo a Berlino, città del tutto artificiale, fatta di "tubi rettangolari di palazzi di quindici piani immersi nel verde, una città giardino". Lì, in questo delirio delle combinazioni politiche, risorge l'Abbandonata, la vacanza dalla storia, la grande assenza che ha consumato metà di una vita, e, attraverso "certi odori, un miscuglio di erbe, di acqua, di pietre, di corteccia, non saprei dire di che...", ritorna la vicina Polonia: vicina e perduta per sempre. Quei lontani odori rendono presente e definitiva una lugubre imminenza: l'inevitabilità della morte, la fine del turbolento adolescente Witold. Per chi conosca un po' Parigi e Berlino sono deliziose le descrizioni dei rapporti del maestro con gli scrittori di quelle parti: a Parigi il non incontro con i venerati Sartre e Genet, e a Berlino gli incontri con Gunter Grass, con Uwe Johnson, con Peter Weiss e con Ingeborg Bachmann, per non dire di un'esilarante esibizione alla Freie Universitt. Ma ciò che rimane più impresso di questo libriccino è il suo tacito messaggio: un incondizionato disprezzo delle convenienze e un'incondizionata adesione all'immaturità.


“la Repubblica”, 2 giugno 1985  

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