Una
delle cose utili e dilettevoli che si potevano fare nell'ultimo
decennio in cui ci fu una letteratura - gli anni Sessanta - era la
conoscenza dell'opera e della persona di Witold. Per me la cosa andò
pressapoco come ora cercherò di raccontare. C'era allora il Premio
Internazionale di Letteratura, conferito dai maggiori editori
europei, e per coloro che lavoravano in quell'ambiente era abbastanza
naturale andarci a curiosare. Nel 1966, il premio veniva conferito a
Saint Raphael, ed io ci andai, insieme col mio collega di lavoro
Valerio Riva. A Saint Raphael trovammo Edoardo Sanguineti, che era in
giuria, e sotto il cielo bigio della primavera provenzale fummo
subito d'accordo: il premio (di 10.000 dollari) doveva andare a
Gombrowicz. Invece non andò a lui: andò, credo, a Saul Bellow. Ma
Sanguineti, Riva ed io utilizzammo il soggiorno per far visita al
maestro polacco, che viveva in una palazzina assolutamente desolata
nella Place du Grand Jardin di Vence, sempre in Provenza.
In
Italia non era del tutto sconosciuto perchè nel 1961, auspice Angelo
Maria Ripellino, Einaudi aveva pubblicato il suo primo grande
romanzo, Ferdydurke,
che era uscito in polacco nel 1937 e che ora, a distanza, ci
entusiasmava. Non era del tutto sconosciuto ma era stato dimenticato.
Gombrowicz, che aveva allora sessantadue anni, ci invitò a cena con
grandiosa signorilità. Una signorilità sottolineata dalla palese
indigenza in cui viveva. Noi ne approfittammo per farci raccontare la
sua vita e per informarci sulle altre opere che non erano mai state
pubblicate in italiano. Lui raccontò paziente e con suprema
eleganza, succhiando una pipetta: non poteva fumare sigarette perché
soffriva d'asma. A un certo punto si fermò e ci guardò come
allarmato: "Ma voi fate politica", domandò, "come i
francesi?". E aggiunse nel suo splendido francese: "Il n'y
a pas de politique dans la maison du Saint Esprit". Lo Spirito
Santo era naturalmente la letteratura, e noi fummo un po' sorpresi
che uno scrittore così anti-letterario la collocasse tanto in alto.
Ma
la sorpresa cessò quando leggemmo, in francese, il suo ultimo
romanzo, che era Cosmo,
e che è certo una delle grandi opere dello Spirito Santo
contemporaneo. Del resto, anche il personaggio ci aveva affascinati:
nessuno come lui impersonava l'Avanguardia; nessuno come lui era
conforme all'immagine profondamente e sanamente sovversiva che veniva
dai suoi libri; nessuno come lui era capace di incarnare senza
stonature una forma speciale e deliziosa di stravaganza; nessuno come
lui era così serio...
Aveva
vissuto ventiquattro anni in Argentina, e confessava di non sapere il
perché. Aveva lavorato otto anni in una banca, e ammetteva
soavemente (e certo sinceramente) di non capire bene cosa fosse un
assegno... Quando la traduzione di Cosmo
fu pronta (durissima fatica di Riccardo Landau), l'editore mi chiese
di scrivere una noticina in appendice per rammentare un po' chi era
l'autore. All'autore la noticina piacque; s'informò su chi l'aveva
scritta, perché era solo siglata, e poi mi scrisse per ringraziarmi.
Io ringraziai dei ringraziamenti, e così nacque un piccolo
epistolario, che sfortunatamente non ritrovo, ma di cui ricordo
l'interesse umano e letterario e un piccolo fatto: le lettere di
Gombrowicz erano tutte datate "1867". Per elegante
distrazione, si sbagliava di un secolo: non era uno scrittore
politico ed era uno scrittore "inattuale".
Tuttavia,
un secolo dopo, nel 1967, ebbe finalmente il Premio Internazionale di
Letteratura e, per quanto ne so, ne fu contento. A poco a poco, gli
editori italiani pubblicarono quasi tutti i suoi lavori: da
Feltrinelli uscirono, oltre a Cosmo,
le splendide novelle raccolte in Bacacay,
il romanzo Transatlantico, i tre volumi del Diario;
da Bompiani uscì Pornografia
nonché Schiavi delle tenebre;
da Einaudi il teatro: Operetta
e Iwona principessa di Borgogna.
Non un'opera immensa ma un'opera tenace, che dopotutto occupa dieci
volumi nell'edizione integrale in polacco pubblicata a Parigi.
Eppure, nonostante la solerzia editoriale, e nonostante l'esistenza
di un gruppo sicuro di fans, l'impressione è che Gombrowicz sia di
nuovo dimenticato. Se così fosse sarebbe un gran peccato: basta
leggere una sua pagina per percepire un supplemento di vitalità.
Forse la tendenza di Gombrowicz a farsi dimenticare è dovuta alla
biografia: quando aveva trentacinque anni, e in patria era già uno
scrittore abbastanza conosciuto, se ne andò. Per l'esattezza:
accettò l'invito da parte della Compagnia di Navigazione Polacca a
partecipare al viaggio inaugurale del transatlantico Chrobry sulla
rotta Danzica-Buenos Aires. Così si trovò nella capitale argentina
allo scoppio della guerra (primo settembre 1939), e non ebbe voglia
di tornare. In Argentina rimase, come per sbaglio, fino al 1963, anno
in cui la Fondazione Ford gli offrì un soggiorno di un anno a
Berlino. Nel frattempo, le edizioni Kultura a Parigi avevano
pubblicato molte opere sue. Ma Kultura e Ford non erano nomi indicati
ad accreditarlo in Europa, dove gli affari letterari erano ancora
molto politicizzati: uno che bazzicava quei nomi come minimo era un
agente della Cia, e non dello Spirito Santo.
Adesso
un piccolo editore, "e/o" ci propone di leggere le pagine
di Parigi-Berlino, un
frammento del Diario
curato da Francesco Cataluccio (pagg. 140, lire 16.000). Eccolo qui,
il Witold: ad apertura di pagina è subito lui e insieme tutti i suoi
personaggi. Si rifugia in Uruguay per finire Cosmo,
e tuttavia una lettera che molte volte si è smarrita lo invita a
Berlino per un anno; il dado è tratto. Ma un dado tratto non esime
dai problemi: la cerimonia degli addii all' Argentina è molto
affannosa e complicata. Avviene non nel cosmo ma nel caos, e come
sempre quando il caos riguarda Witold, si tratta di un caos che è al
tempo stesso tragico e supremamente buffo. La sua insegna potrebbe
essere questa, che infatti è una citazione: "No. Nulla.
Deserto. Vuoto. Passai ancora da un'altra casa...". Il
passeggero Witold sta, radicalmente frastornato, su un transatlantico
che in mezzo alle tempeste viaggia verso l'Europa, e mentre si aggira
sul ponte "aggrappato ai parapetti, costretto allo sbandamento,
al caos, stordito dal vento", ecco che ai piedi della scala
compare un occhio umano abbandonato. Witold interpella un marinaio:
"Di chi è quell'occhio?". "Non lo so, sir".
"Qualcuno l'ha perduto, o gli è stato cavato?". "Non
saprei, sir. È qui da stamattina. L'avrei raccolto e messo in una
scatola, ma non mi è permesso di allontanarmi dalle scale...".
Il passeggero Witold viaggia in una realissima irrealtà. A un certo
punto, quando la costa dell'America (di quella che più tardi
chiamerà "l' Abbandonata") sta sparendo all' orizzonte, il
passeggero diventa inquieto: si domanda che cosa capiterà quando
questo Witold, che va verso l'Europa, incontrerà a metà oceano
quell'altro, che ventiquattro anni prima viaggiava in opposta
direzione. Problema altamente filosofico, che riguarda la natura del
tempo e della storia. Ma in mezzo all'oceano, nulla, deserto, vuoto:
la storia non risponde.
Ed
eccolo a Parigi, che naturalmente considera la capitale della cultura
e in cui ha vari amici, ma che inevitabilmente gli appare come una
"città dei cani che sbavano al suono della trombetta".
Verso Parigi concepisce subito un programma di assoluta ostilità:
che fare di fronte a tutta quella chiacchiera culturale, di fronte a
tutti quei "cilindri" (per lui è un "cilindro"
anche Proust), di fronte a tutti quei salamelecchi? Togliersi i
pantaloni: "Quando cominciai a togliermi i pantaloni si diffuse
il panico, un fuggifuggi attraverso le porte e le finestre. Rimasi
solo. Non c'era più nessuno nel ristorante...". Togliersi i
pantaloni vuol dire formulare un programma, e il programma di
Gombrowicz è la nudità. E la nudità è l'abbattimento di tutti gli
orpelli culturali... Poi eccolo a Berlino, città del tutto
artificiale, fatta di "tubi rettangolari di palazzi di quindici
piani immersi nel verde, una città giardino". Lì, in questo
delirio delle combinazioni politiche, risorge l'Abbandonata, la
vacanza dalla storia, la grande assenza che ha consumato metà di una
vita, e, attraverso "certi odori, un miscuglio di erbe, di
acqua, di pietre, di corteccia, non saprei dire di che...",
ritorna la vicina Polonia: vicina e perduta per sempre. Quei lontani
odori rendono presente e definitiva una lugubre imminenza:
l'inevitabilità della morte, la fine del turbolento adolescente
Witold. Per chi conosca un po' Parigi e Berlino sono deliziose le
descrizioni dei rapporti del maestro con gli scrittori di quelle
parti: a Parigi il non incontro con i venerati Sartre e Genet, e a
Berlino gli incontri con Gunter Grass, con Uwe Johnson, con Peter
Weiss e con Ingeborg Bachmann, per non dire di un'esilarante
esibizione alla Freie Universitt. Ma ciò che rimane più impresso di
questo libriccino è il suo tacito messaggio: un incondizionato
disprezzo delle convenienze e un'incondizionata adesione
all'immaturità.
“la
Repubblica”, 2 giugno 1985
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