25.9.09

Revisionismo ternano.La brigata Gramsci, un avvocato spregiudicato e un radicale sprovveduto.

Intorno a un libro sui presunti crimini ed orrori perpetrati da partigiani della Brigata Gramsci, che operò nel Ternano e nel Reatino, è nata nei mesi scorsi una polemica che sarebbe di piccola portata, se la reinterpretazione complessiva della storia d'Italia non fosse tra i puntelli ideologici della destra che governa e che in parti consistenti aspira a farsi regime. Sul tema uscirà domenica 27 settembre su "micropolis" un articolo di Renato Covino, docente di Storia contemporanea all'Università di Perugia, che riteniamo chiarificatore e che invitiamo a leggere. Qui crediamo di fare cosa utile fornendo ai lettori una breve ricostruzione della polemica e, in appendice, un articolo di Marco Venanzi dal numero di luglio-agosto di "micropolis", una mia nota "didattica" sul revisionismo, Un articolo di Sandro Portelli da "la rivista del manifesto" è stato aggiunto al post il 15 novembre 2009.
Cronistoria di una polemica
L'avvocato ternano Marcello Marcellini ha dato alle stampe a fine maggio un libello dal titolo I giustizieri, che ha raccolto entusiastici commenti nella stampa di destra. Il quotidiano napoletano "Roma", di orientamento fascistoide, a metà giugno rilevava come il Marcellini, compulsando chissà quali "documenti riservati custoditi negli Archivi di stato", avrebbe finalmente evidenziato la "vigliaccheria degli assassini", una vigliaccheria che l'articolo riferisce al complesso della Resistenza. Ne è autore tal Fabrizio Carloni, che dichiara di essere nipote di uno dei "giustiziati". L' "Avvenire" di Boffo, l'11 luglio, pubblicava a sua volta una recensione in cui si parla, senza avanzare alcun dubbio, "di quattro esecuzioni di innocenti compiute dalla brigata comunista "Gramsci" tra Umbria e Lazio dall'11 marzo al 18 maggio 1944". Il Marcellini avrebbe ricostruito con precisione e senza parzialità gli omicidi alla cui base starebbero "odi ideologici, rancori sociali, vendette private". Il quotidiano dei vescovi italiani ne ricava una morale: "Molte sono le vicende della Resistenza su cui bisognerebbe riaprire le indagini".
Il Marcellini dal canto suo negli stessi giorni dichiara al "Giornale dell'Umbria" di non aver mai detto di voler svelare "gli orrori della Gramsci"e di aver compiuto un "lavoro minuzioso" basato sull'analisi delle carte processuali. E per dimostrare di non volere parlare di orrori racconta: "Le persone venivano ... trascinate fuori e uccise a bastonate e pugnalate. Spesso venivano evirate. Ai cadaveri venivano strappati gli occhi... ". Non sapremmo dire quanto spesso visto che i presunti "omicidi" sarebbero in tutto sette. Ma il Marcellini insiste "sono obiettivo", e in giro per l'Umbria vanta una sua giovanile militanza in Potere Operaio al fianco di Oreste Scalzone: "Figurarsi se io...".
Intanto, senza fare riferimenti al libro, lo storico Tosti, presidente dell'Istituto storico regionale, sul "Corriere dell'Umbria", pur esortando a continuare la ricerca su limiti e crimini del movimento partigiano, aveva messo in guardia contro i rischi dell'"altra storia" (il sensazionalismo e il pericolo di collocare sulla stesso piano la barbarie nazifascista e la Resistenza). Sullo stesso "corrierino" il 23 luglio è pubblicata una recensione elogiativa del radicale nonviolento Francesco Pullia (rivelerà successivamente che era stata rifiutata da "Il Messaggero"). Il Pullia non scende nel merito, si fida ciecamente del Marcellini che stima come avvocato e saggista e del defunto Vincenzo Pirro, uno storico ternano che ha firmato la prefazione. Marco Venanzi su "micropolis" di luglio - agosto (il suo articolo, postato in appendice, esce il 27 luglio) è il primo a mettere in evidenza arbitrii, omissioni e strafalcioni dell'avvocato ex PotOp improvvisatosi storico revisionista.
Intanto fioccano i commenti sulla recensione del Pullia, rilanciata dal sito di "Orvieto news" ( http://www.orvietonews.it/index.php?page=notizie&id=21501 ). Si comincia con quello critico e misurato di Valentino Filippetti che ripropone l'articolo di Tosti, per passare ad altri molto entusiasti del libro e del recensore o molto polemici. Si tratta quasi sempre di interventi meramente ideologici di gente che non ha letto il libro e non ha proceduto a verifiche, spesso scritti in pessimo italiano, la carne da macello senza costrutto che spesso intasa la rete. Ma a Pullia non pare vero d'essere stato preso sul serio
e perciò non esita a prendere sul serio detti commenti. A fine agosto il "Giornale dell'Umbria" di Castellini e Colaiacovo, dà a sua volta spazio all'avvocato che fa il sorpreso ("Da Venanzi non me l'aspettavo") e insiste sul sadismo partigiano ("ci provavano gusto").
L'8 settembre Pullia pubblica una più ampia recensione sul sito di "Notizie radicali". Vi aggiunge una curiosa asserzione ("la sinistra che si batte per la libertà di stampa è inaffidabile"), cui affianca una più curiosa argomentazione ("guardate come hanno trattato il libro di Marcellini e la mia recensione"). Il Pullia soffre evidentemente di manie di persecuzione. Dopo che un imbecille gli ha spedito una lettera anonima (prontamente consegnata alla Digos), si considera, insieme al Marcellini, bersaglio di una "fatwa". Ad aprire il fuoco di fila sarebbe stato niente meno che "un periodico che esce allegato con "il manifesto" e poi "taratatam". Avrebbe potuto scrivere "micropolis" (così come avrebbe potuto scrivere "Marco Venanzi"), ma, come gli stalinisti più accaniti, al "nemico" nega perfino il nome. Dell'articolo di "micropolis" (che peraltro di lui non si occupa) cita solo il termine "revisionismo", le altre citazioni sono tratte dai commenti del sito di "Orvieto News". La sua recensione e la sua tirata vengono peraltro riprese da molti siti legati all'estrema destra, nostalgica della Repubblica Sociale e di Salò, tra gli altri "voce della fogna".
Pullia è un poveretto che si è messo in testa di fare il Pannella, ma imita male il suo guru. Molti anni or sono il gran capo radicale, nella sua foga iconoclasta, usò contro i "compagni assassini" del Pci la stravagante argomentazione che sarebbero stati correi della strage delle Fosse Ardeatine perchè gli esecutori dell'attentato di via Rasella, invitati da un manifesto delle SS a presentarsi, non lo avevano fatto. Il manifesto non è mai esistito: non solo non se ne è mai trovata copia, ma non ne hanno mai parlato i Kappler & C. che nei processi a loro carico avrebbero potuto esibirlo come attenuante; ma è stata una leggenda urbana così efficace che taluni in buona fede ricordano di averlo visto con i propri occhi, per uno degli inganni della memoria di cui ci parlano gli storici di mestiere.
Ma Pannella non si curava di appurare la veridicità della leggenda, a lui interessava la guerra senza quartiere ai comunisti e alla loro storia. Pannella, come il suo amico Montanelli, è del resto campione di quella "malafede" che nelle parole di Guido Piovene, un altro che se ne intendeva, è "l'arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza". L'autore di "Lettere di una novizia" concludeva che la malafede "non è uno stato d'animo, ma una qualità dell'animo", non è "una concessione all'opportunismo volgare, ma l'accettazione di una concezione della condizione umana". Insomma per essere campioni di malafede come Pannella, non si può essere "campioni senza valore" e "uomini senza qualità". Nel Pullia di questa polemica non riusciamo a trovare valore o qualità, troviamo tuttavia un difetto che lo mette in sintonia coi tempi. E' di sicuro un difetto di cultura che lo spinge a immaginarsi (lui come il suo mentore Pirro) negli anni di Scelba una magistratura asservita al Pci e perciò incline a chiudere gli occhi sui crimini partigiani. In realtà in quegli anni i giudici assolvevano in massa i gerarchi e i criminali di Salò, inclusi certi torturatori, e incarceravano decine di migliaia di comunisti spesso per reati di opinione. Lo stesso difetto di cultura spinge forse Pullia a parlare con sicumera di cose delle quali non è informato, per esempio del "revisionismo". Non gli farà male la nota di spiegazione del termine e delle sue diverse accezioni che accompagna come appendice questo resoconto. (S.L.L.)

Appendice 1 (da "micropolis" Luglio -Agosto 2009)

L'onore della Gramsci di Marco Venanzi

Vi svelo gli orrori della Gramsci” aveva strillato il “Giornale dell’Umbria”, intervistando Marcello Marcellini, avvocato ternano autore de I giustizieri. 1944: la brigata Gramsci tra Umbria e Lazio da qualche giorno in libreria. La fonte utilizzata sono i processi a partigiani della Gramsci per fatti avvenuti tra il marzo e il maggio 1944, in piena fase bellica. Fonte viscida che meriterebbe di essere confrontata con altra documentazione. Marcellini, invece, prende per vero ciò che ritiene vero e per falso quello che pensa debba essere falso. Naturalmente i fatti vengono considerati isolatamente. Quanto avvenuto tra il 25 luglio 1943 e il 13 giugno 1944 scompare nel racconto. Per l’autore, inoltre, negli anni Cinquanta, in una fase di acuta repressione anticomunista, il Pci avrebbe condizionato (sic!) la magistratura. Insomma, è l’ennesima operazione ideologica sulla “guerra civile”, con palesi e volute inesattezze e omissioni, volte a solleticare con “piatti forti e sanguinolenti” il palato dei lettori.

Rappresaglia e controrappresaglia fino al marzo 1944

La Brigata Gramsci, formazione di slavi e italiani, opera tra Terni, la Valnerina e Rieti. Il comando è composto da comunisti attivi durante il fascismo, con centinaia d’anni di confino e di carcere. E’ la più attiva formazione combattente del centro Italia. Tra il dicembre 1943 e la prima metà di marzo 1944 essa libera un’ampia zona tra Leonessa, Norcia, la Valnerina e Poggio Bustone. Fino al marzo 1944 l’unico caso di contro rappresaglia si ha nel dicembre 1943. Il 30 novembre a Mucciafora tedeschi e fascisti uccidono 3 partigiani in combattimento e ne fucilano 3 che hanno preso prigionieri, cui si aggiungono 7 civili. La reazione degli slavi contro i fascisti locali è immediata. Vengono giustiziati: a Sant’Anatolia di Narco Alverino Urbani, ritenuto collaboratore dei nazifascisti; a Cascia due spie e una a Scheggino. Il caposquadra della milizia e l’ex segretario del fascio di Arrone, Carlo Orsini, sono fucilati - da partigiani italiani – sulla piazza di Polino. Pure, il 17 febbraio 1944 a Vindoli, dopo l’attacco alla caserma fascista, i repubblichini vengono lasciati liberi. Il 26 febbraio, quando viene arrestato e giustiziato il commissario prefettizio di Leonessa Fernando Pietramico, responsabile di vessazioni nei confronti dei contadini e di azioni di spionaggio, i militi che lo accompagnano vengono rilasciati. Ancora, dopo l’occupazione di Leonessa, 7 fascisti vengono solo espulsi dalla zona libera. Fino al marzo 1944, insomma, si evitano forme acute e non regolate di scontro. I partigiani italiani hanno paura che possano innescare strascichi nel dopoguerra. Il quadro cambia con la primavera.

Le rappresaglie fasciste e la battaglia di Poggio Bustone

Il ternano Ermanno Di Marsciano già segretario federale di Perugia, Agrigento e Rieti, e capo della Provincia di Rieti dal 25 ottobre 1943 al giugno 1944, è l’anima nell’area dell’attività antipartigiana. Collaboratore attivo dei tedeschi, non manca di mettere taglie sui soldati alleati, né si fa mancare una fossa comune con 15 cadaveri a Campo Reatino. Al contrario di Terni l’ufficio informazioni di Rieti funziona bene, ha spie e confidenti che resteranno quasi tutti ignoti. Nella prima metà di marzo i partigiani disarmano numerosi presìdi nel reatino. Di Marsciano ordina la rappresaglia, alla quale i tedeschi non partecipano, contro Poggio Bustone. Il 10 marzo 1944 il paese viene circondato. Il bilancio è di 5 morti e di numerosi feriti, di incendi e saccheggi. Circa 20 partigiani, comandati da Vero Zagaglioni, mettono in fuga i fascisti e ne uccidono 32. Vengono presi 4 prigionieri. In questa occasione avviene il primo fatto raccontato da Marcellini. Due prigionieri vengono rilasciati. Il milite Luigi Martinelli e l’agente di polizia Alberto Guadagnoli sono invece uccisi l’11 marzo a colpi di mitra da Mario Filipponi. La loro esecuzione contestuale alla battaglia dà ragione al procuratore della Repubblica che, nel 1951, stabilisce il non luogo a procedere nei confronti di Filipponi.

Il 31 marzo a Morro Reatino l’azione tedesca e fascista provoca, incendi, saccheggi e 18 morti, Costantino Rossi viene chiuso in casa e bruciato vivo. La mattina del 1 aprile a Poggio Bustone - riconquistata, saccheggiata e messa a fuoco da tedeschi e fascisti – vengono fucilate 11 persone, il resto della popolazione viene deportata. A Cantalice sono uccise altre due persone. Ai primi di aprile si passa a Leonessa. I morti sono 51, i deportati 150. La notte di Pasqua a Rieti si fucilano senza processo 15 antifascisti. Distruzioni e saccheggi si ripetono nel Nursino e nel Casciano. I morti sono 63, i deportati 200. Nella Valnerina ternana i morti accertati sono 25, nella zona di Narni e in quella di Otricoli e Calvi 38.

La controrappresaglia

I partigiani morti nel rastrellamento sono 64. La brigata è scompaginata, la popolazione terrorizzata. Il 22 aprile 1944 al Salto del Cieco viene decisa la controrappresaglia. In tale quadro si inseriscono i fatti presi in esame da Marcellini. Rappresentante del regime, anche se non risulta iscritto al Pfr, è Maceo Carloni, aderente dal 1932 al Pnf e dirigente sindacale fascista. econdo il vescovo Cesare Boccoleri “era molto in auge nelle sfere fasciste locali … mi pare che avesse metodi suadenti e vellutati per attrarre le masse alla ideologia fascista”. Prelevato a Casteldilago, dove è sfollato, la notte del 4 maggio, è ucciso a colpi di calcio di fucile e di baionetta. La stessa notte viene prelevato e ucciso Augusto Centofanti, sfollato a Montefranco, ex squadrista e attivo collaboratore dei tedeschi nelle requisizioni di bestiame, come conferma il commissario prefettizio (fascista) del paese Francesco Riccardi che lo definisce “fascista accanito”.

La testimonianza non è ritenuta rilevante da Marcellini, che si sofferma piuttosto sulle “sevizie” riscontrate sul corpo, ritrovato l’8 maggio. Di sevizie, in realtà, parlano solo alcuni militi della Gnr e i parenti della vittima. Il medico, che visita il cadavere qualche ora dopo il suo ritrovamento, afferma che il corpo di Centofanti è in avanzata decomposizione e che il cranio presenta fratture, ma aggiunge: “Non posso precisare meglio se ferite esistevano in altre parti del corpo”. Marcellini omette di citarlo.

Altro caso è quello dell’appuntato della Finanza Giuseppe Contieri sfollato a Macenano, ucciso la notte del 26 aprile, dopo che altri fascisti erano stati diffidati. Di lui si dice che “ha fatto piangere tanta gente” per 699 contravvenzioni elevate. Le indagini della Guardia di Finanza e dei Carabinieri portano a poco. Secondo i Carabinieri “alla Valle [Macenano] l’omertà per qualsiasi fatto regna sovrana”. E se l’esecuzione fosse condivisa dalla popolazione? Per Marcellini Contieri non sarebbe una spia. A suo parere sono attendibili le testimonianze di conoscenti e amici, l’opinione dei Carabinieri sulla matrice non politica dell’azione e la dichiarazione di Rolando Palmieri dirigente capo dell’Ufficio politico investigativo (lo spionaggio fascista), che sosterrebbe di non conoscerlo. In realtà Palmieri dichiara che, non avendo contatti diretti con gli informatori, ritiene di non conoscerlo. L’autore de I Giustizieri glissa anche sulla dichiarazione di Silvio Santini, già capo settore del Pnf, diffidato dai partigiani, che afferma di essere stato avvertito di stare attento da Contieri, il quale avrebbe affermato: “Io lo so. Cerca di guardarti”. Infine i 35 abitanti di Valle, che affermano che Contieri operava a favore di fascisti e tedeschi, non contano: sarebbero subornati dai comunisti. Contieri è ucciso all’arma bianca come Centofanti e Carloni. Su tale particolare si insiste per sottolineare la barbarie partigiana. Ma non sorge il dubbio che forse per gruppi di fuggiaschi fosse meglio non sparare? Per i tre episodi la magistratura concede l’amnistia. Essi avvengono nella Valnerina ternana dove forte è il legame tra partigiani e popolazione. I giustiziati peraltro sono sfollati, estranei alla comunità.

A Morro Reatino, invece, la situazione è diversa. Il partigiano Igino Blasi ha avuto tre parenti ammazzati nel rastrellamento, ad Aroldo Procoli è stata bruciata la casa. Essi sono tra coloro che la notte tra il 18 e il 19 maggio 1944 prelevano e uccidono Romeo Pellegrino, Pietro Palenga, Marco Sansoni e Antonio Molinari come spie dei fascisti e dei tedeschi. L’esecuzione spacca il villaggio in due. Per Barbara Blasi, moglie di Pellegrino, e per i repubblichini che li trovano alcuni giorni dopo, i corpi presentano sevizie. Non c’è alcun referto medico. Marcellini non ha dubbi: la tesi esige che i corpi siano stati massacrati e che gli uccisi non erano spie. Ritiene credibile una dichiarazione di Di Marsciano, che afferma di non aver mai avuto contatti con i 4 uccisi o con altri a Morro Reatino. Poco conta che tre risultino accaniti fascisti, antipartigiani e filotedeschi. Dai documenti del processo emerge inoltre una zona grigia nel paese: ex squadristi e persone in contatto con i repubblichini di Rieti. I giudici riconoscono che i comandanti e i partigiani della Gramsci che hanno ordinato l’esecuzione hanno agito per motivi politici, convinti che i 4 fossero le spie responsabili del terribile eccidio. Marcellini anche qui li considera come assassini. L’autore mette, tra l’altro, in dubbio la liceità e la funzionalità del tribunale che i partigiani dichiarano di aver costituito per istruire i processi. Vale in questo caso quanto dichiarato da Bruno Zenoni in una testimonianza resa a Sandro Portelli: “…Infatti, a li processi, anche quando ciànno contestato queste cose, anche s’era avvenuto in maniera un po’ barbara, io al giudice gli dissi: ‘Voi dovevate stare con noi, per difendere l’Italia; allora avremmo fatto fare il giudice a voi, sarebbe stato registrato, le cose fatte con più regolarità’. Capisci che poi i partigiani s’imbestialivano in montagna; a quello magari j’hanno fucilato il padre, a quello un altro episodio […]”. Come dargli torto?

Appendice 2

Noterella didattica sul revisionismo


Ha scritto Francesco Pullia nel suo pezzo a pro di Marcellini e contro la sinistra “inaffidabile”: “Le accuse non sono difficili da immaginare: revisionismo (il comunismo sarà pure crollato, i comunisti saranno pure spariti, come almeno vorrebbero indurci a credere, sta di fatto che la loro bolsa terminologia resta, eccome)…”; e a mo’ di chiusa:“Già, è vero, dimenticavamo, noi siamo sporchi revisionisti”. Insomma, secondo l’esponente pannelliano, revisionismo sarebbe un terribile epiteto usato dai comunisti contro il “nemico”. Un chiarimento si impone. L’epiteto “revisionista” non è peculiarmente comunista.

In campo teorico-politico il primo uso sistematico del termine “revisionismo” risale al socialista tedesco Eduard Bernstein, che lo utilizzò per indicare la revisione del marxismo che riteneva necessaria. Glielo rivoltò contro il compagno di partito Karl Kautsky, leader della tendenza ortodossa della socialdemocrazia tedesca, il quale vi leggeva l’abbandono dei fondamenti classisti del partito. Nella polemica politica interna al socialismo tedesco se ne fece un uso amplissimo fino alla prima guerra mondiale, quando per uno dei paradossi della storia il socialista “di destra” Bernstein, come la socialista di sinistra Rosa Luxemburg, fece una scelta pacifista, mentre Kautsky accettò di votare i crediti e di sostenere la guerra dal Kaiser.

Lenin, che da esule russo partecipava al dibattito teorico nella Seconda Internazionale, fu compartecipe della battaglia contro Bernstein, ma, con lo scoppio della guerra, si collegò ai gruppi del socialismo pacifista ed antimilitarista e quando aprì le ostilità politiche contro Kautsky preferì chiamarlo “rinnegato” e “socialtraditore”, piuttosto che revisionista. Nella Terza internazionale la categoria del “revisionismo” fu pochissimo usata. Del resto Stalin pretendeva che il suo fosse un “marxismo creativo” e aspirava a costruire lui l’ortodossia piuttosto che a difendere da revisioni un sistema già dato. Certo, nel catechismo terzinternazionalista esisteva la deviazione “revisionismo” opposta a quella speculare del “dogmatismo”, l’una e l’altra ostili al marxismo creativo, ma non fu questo il termine con cui venivano stigmatizzati i “nemici interni al movimento operaio”. Contro la socialdemocrazia l’epiteto che più si usò fu “socialfascismo”; contro Bucharin e, ancor più, contro Trotzkij, capofila dell’opposizione bolscevica nel Pcus da destra e da sinistra, si adoperarono i termini infamanti di “traditore”, “rinnegato”, “spia”, “piccolo-borghese”, “nemico di classe” e, nel caso di Trotzkij, perfino “giudeo”, ma non “revisionista”. Il termine fu semmai rispolverato da Suslov, nel secondo dopoguerra, contro la “cricca di Tito”.

Il ritorno di fiamma della categoria teorico-politica di “revisionismo” si ebbe con lo scoppio della polemica cino-sovietica nei primi anni 60 e il primo ad esserne stigmatizzato, seppure con cautela, fu Palmiro Togliatti in un opuscoletto del Pcc (che si ritiene ispirato più da Liu Shao-chi che da Mao) Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Le cautele scomparvero quando lo scontro con l’Urss si fece rovente e il “Quotidiano del Popolo” pubblicò una vera requisitoria contro il leader sovietico del tempo dal titolo Il falso comunismo di Khrushev e gli insegnamenti storici che dà al mondo. Da allora in poi “revisionista” divenne l’accusa più infamante che comunisti cinesi e filocinesi potessero rivolgere ad altri comunisti, sia in Cina che altrove. Il successo della parola nel mondo è legato al grande movimento di contestazione, specie giovanile, che scosse l’Occidente tra gli anni Sessanta e Settanta e che in Italia fu chiamato “Sessantotto”: nelle sue file c'erano molti simpatizzanti del maoismo e della Rivoluzione culturale. Va detto che nel Pci il termine “revisionismo”, seppure non accettato, non veniva letto come offensivo. La reazione più frequente era che “se revisionismo significa un grande sforzo di rinnovamento del marxismo, siamo revisionisti”. Alla morte di Mao, Romano Ledda, un ottimo giornalista di fede ingraiana che faceva il vicedirettore di “Rinascita”, osò scrivere sul settimanale ideologico del Pci, senza che si menasse scandalo, che Mao (come Gramsci, come Togliatti) era stato un grande revisionista.

Più recente è l’uso della categoria nel dibattito storiografico. Che la storia debba essere sottoposta a sistematiche revisioni è concetto che tanti accettano da gran tempo, non solo per l’ovvia considerazione che una nuova documentazione o un nuovo approccio può rivelare inesatta l’interpretazione consolidata, ma anche per la saggia costatazione di Benedetto Croce che “la storia è sempre storia contemporanea” e che cioè lo storico interroga il passato facendogli domande che vengono dal presente. In tempi recenti il revisionismo storico, lo sforzo di interpretare un evento del passato in maniera diversa da quella corrente, è diventato sinonimo di cialtroneria, connotando talune riletture della storia contemporanea. L'interpretazione ardita della nascita del fascismo e del nazismo, come "tentativo estremo, uguale e contrario, di reazione all'incedere del comunismo" che alcuni storici, tra cui Nolte, ha scatenato le ire di chi sostiene l'assoluta originalità della violenza e dei crimini del nazifascismo, inducendo il sospetto che l’opera di revisione fosse stata fatta con leggerezza. Ma sulla scia di questi storici, spesso senza il loro spessore, si sono poi avviate molte altre “revisioni” nei confronti di alcuni “miti” storici, in genere ideologiche e non corroborate da documentazione: la Rivoluzione Francese, il Risorgimento italiano, la Resistenza etc…

Revisionisti e per nulla cialtroni erano peraltro gli storici della rivista francese "Annales", cui dobbiamo l'introduzione della storia economica e sociale, in netta rottura con la storia politica e militare, che aveva dominato l'Accademia fino a settant'anni fa. Insomma c’è revisionismo e revisionismo e sotto questo nome si possono introdurre teorie peregrine o innovazioni straordinarie. Sotto questo nome per esempio è stato introdotto perfino il “negazionismo” che con la storia ha poco a che spartire. Sostenere, come fanno alcuni, che le camere a gas e i forni crematori non sono mai esistiti, non è un'interpretazione, ma un falso montato ad arte da una pattuglia di storici filonazisti, falso che tuttavia trova, di volta in volta, qualcuno disposto a propagandarlo, e qualcun altro disposto a crederci.

Insomma, Pullia, il “revisionismo” è concetto complesso, da maneggiare con cura, che neppure nella bolsa terminologia che ella attribuisce ai comunisti ha avuto connotazioni sempre e comunque negative. Su tutto fanno premio gli aggettivi, le specificazioni, le sfumature, i contesti. Ma per muoversi dentro le storie, i concetti e le storie dei concetti bisogna studiare. E’ quello che le suggeriamo. “L’istruzione è obbligatoria, l’ignoranza è facoltativa” – credo che lo dicesse Celeste Negarville. O quello era uno “sporco comunista”? (S.L.L.)


Appendice terza

Un articolo di Sandro Portelli sul revisionismo

Revisionismo e senso comune
IL PROCESSO AL NOVECENTO
Alessandro Portelli

Qualche tempo dopo l'uscita del mio libro sulle Fosse Ardeatine, mia moglie lo menzionò con una signora incontrata per caso. Immediatamente, questa reagì: "Quei vigliacchi dei comunisti! Non si sono presentati e hanno fatto ammazzare quei poveretti! C'erano manifesti in tutta Roma che gli dicevano di presentarsi e loro invece si sono nascosti...". Cautamente, mia moglie le fece notare che nel mio libro si dimostrava, fra l'altro, che quei manifesti non erano mai esistiti. E la signora rispose: "Io c'ero e me li ricordo. Se suo marito avesse parlato con me, quel libro non l'avrebbe scritto".
È un buon esempio di cattiva memoria, e della tensione fra memoria e storia. Parlo di cattiva memoria non tanto nel senso che si tratta di una memoria fattualmente sbagliata (i manifesti non ci furono), ma nel senso di una memoria che rifiuta di uscire da sé e di elaborarsi: quello che il singolo ricorda (o crede di ricordare, magari con il sostegno di una narrazione socialmente diffusa) diventa esperienza intangibile e inconfrontabile. È il tipo di memoria di cui hanno parlato Gianpasquale Santomassimo e David Bidussa a proposito del libro di Vivarelli: una memoria in cui una soggettività congelata nel tempo e chiusa nell'ambito personale si trasforma in negazione della storia, in attiva difesa dal cambiamento.
La storiografia ha privilegiato un'idea di memoria come mero riflesso, labile e inattendibile e quindi di scarsa rilevanza per il lavoro storico. Ha perciò trascurato sia la memoria come oggetto di ricerca e fatto storico in sé, sia soprattutto la cattiva memoria che, agendo incontrastata, continua a produrre effetti, azioni, aggregazioni, ideologie, riemergendo dalla contrapposizione gerarchizzata fra storia 'scientifica' e memoria 'arbitraria' con tutta la forza del represso e del non detto, rivendicando sia il potere dell'esperienza negata, sia una funzione antagonista rispetto alle narrazioni 'ufficiali'.
Per di più, questa cattiva memoria l'abbiamo alimentata anche da sinistra nella misura in cui abbiamo preso per buone le sue stesse categorie: la 'buona fede', la 'pari dignità' di tutti i morti, la confusione fra oggettività ed equidistanza. L'interlocutrice di mia moglie si sbagliava ma era sicuramente 'in buona fede': non peraltro come rispecchiamento di un vissuto (non può ricordare di avere visto dei manifesti che non sono mai esistiti), ma di un'esperienza vicaria, cioè dell'aver sentito tanti racconti di quel genere, che ha finito per scambiarli con la propria esperienza. L'oggettività dello storico non può dunque consistere nell'equidistanza fra il suo racconto sbagliato e altri più attendibili. Allo stesso modo, non solo c'è differenza fra chi è morto combattendo per la democrazia e per l'uguaglianza, e chi è morto per Hitler, ma anche la differenza tra chi andava a 'cercar la bella morte' e quella di chi non voleva morire e ha corso il rischio e pagato il prezzo, perché lo riteneva necessario e inevitabile. Anche nella morte, insomma, esiste la soggettività. Peraltro, le orribili scritte comparse a Roma dopo la morte di Carla Capponi, e la lunga storia di profanazioni di cimiteri ebraici, mostrano quanto rispetto abbiano per i morti costoro che adesso ne rivendicano l'equivalenza.
La memoria si trasforma in cattiva memoria anche per effetto di un approccio storiografico, che la tratta come mero deposito di dati, anziché come un processo, quindi una conservazione, anziché come una produzione e rielaborazione costante. Proprio perché la memoria è un lavoro del presente e non un documento del passato essa istituisce una relazione, una ricerca del senso attuale del passato. Una memoria senza storia non è in grado di capire il passato, perché rimane ancorata nei propri confini; ma una storia che riconosca il lavoro della memoria rischia di venire percepita come un repertorio di conoscenze accademiche, anziché come qualcosa che ci riguarda tutti, anche quando non tratta di eventi in cui non siamo personalmente coinvolti.


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In parecchi incontri, assemblee, dibattiti nelle scuole romane dopo la delibera della regione Lazio sulla verifica del contenuto dei testi scolastici di storia (fatta propria anche dalla provincia di Roma e adottata in varie forme da altri enti locali amministrati dal centro-destra), ho visto venire al pettine questi nodi: una cattiva memoria, che si fa senso comune e pretende di dettare gli orientamenti per l'agire sociale nel presente. Il fatto che quasi sempre anche gli interlocutori e i ragazzi di destra finissero con l'ammettere che una commissione amministrativa di 'verifica' è improponibile, rischia infatti di farci sfuggire l'impatto più profondo e duraturo della campagna di centro-destra: l'affermarsi di un senso comune, che crede possibile e desiderabile una memoria unificata, contenibile in un libro solo buono per tutti.
I manifesti affissi per Roma dai giovani di Alleanza nazionale recano una bella citazione da Tommaso d'Aquino: "guardati dall'uomo di un solo libro". È paradossale che questo avvertimento sia usato a sostegno di una campagna per il libro di testo; ma ci aiuta a mettere questa discussione in una prospettiva più ampia. Stando ai dati ricordati da un grande linguista e didatta come Tullio De Mauro, più della metà delle famiglie italiane non ha nemmeno un libro in casa; più di un terzo degli italiani non sono in grado di capire il senso di una pagina a stampa. L'autoritarismo e arretratezza del libro di testo è stata oggetto di critica dai Pampini bugiardi di Eco fino alla Lettera a una professoressa di don Milani; oggi la cosa diventa più grave, nella misura in cui leggere libri non è più un'abitudine, e quindi il libro di scuola letto per obbligo resterà l'unico libro letto dalla maggioranza delle persone. La pretesa del libro 'neutrale' si fonda anche su questa percezione. Anche per questo, la nostra risposta dovrebbe includere un lavoro a largo raggio, per ricostruire dentro e fuori la scuola uno spazio per la lettura e per il rapporto impegnativo con la parola, che essa implica.
Dico rapporto impegnativo, anche perché uno degli ostacoli alla lettura è l'abitudine televisiva alla ricezione distratta di messaggi fatti in maniera da non richiedere alcun lavoro. Infatti mi è parso di taglio televisivo anche il senso comune espresso nelle discussioni sull'obiettività dei testi: un'idea di obiettività che coincide con l'equidistanza e un'idea di pluralismo che consiste nell'ascolto avalutativo di una varietà di opinioni che si elidono fra loro. Il buon senso dice che la 'virtus' sta sempre 'in medio': dalla polemica fra destra e sinistra esce sempre vincente l'ideologia del centro – e dovremmo anche chiederci: del centro fra che? Dove sta il centro infatti dipende da dove stanno gli 'estremi'; perciò, a mano a mano che si annacqua la posizione di sinistra, il 'centro' si sposta sempre più verso verso destra. Da un tempo in cui il centro era antifascista, siamo infatti scivolati in un tempo in cui il centro è anti-antifascista. Così, spesso troviamo rispettabili storici defeliciani, come Sabbatucci, accomunati agli Istituti della Resistenza nell'accusa di faziosità: credevano di essere di centro e si trovano bollati come 'marxisti'.
Anche per questo, si tratta di un'equidistanza il più delle volte fittizia: la pretesa di una narrazione a-ideologica finisce per produrre sempre anticomunismo e antifascismo quasi mai (i fascisti avevano 'valori', i partigiani avevano solo 'ideologie'). È questo il risultato di un'idea di ideologia come appartenenza identitaria a priori, fissata una volta per tutte, anziché come esito provvisorio di una ricerca personale di valori e di senso – come se si diventasse comunisti, liberali, fascisti, cattolici allo stesso modo imponderabile per cui si diventa romanisti o laziali (ma non dimentichiamo che lo stadio è un bacino di reclutamento della destra, che ne trasferisce le modalità al terreno politico e culturale). Da qui quell'orribile parola, 'fazioso', che presuppone che uno parli sempre per partito preso, per propaganda di una fazione, e mai per fare un ragionamento, per cui è inutile starlo a sentire. Ne vengono fuori dibattiti surreali: parla un ragazzo di destra e dice "foibe e obiettività", gli rispondi con un ragionamento, parla un altro ragazzo di destra e ridice "foibe e obiettività" come se tu non avessi parlato per niente; gli fai un altro ragionamento, parla un altro ragazzo di destra e ridice ancora "foibe e obiettività", all'infinito, con l'eventuale intermezzo di qualche ragazzo di sinistra che dice "foibe sì, ma..., obiettività sì, ma...".


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All'interno di questo scivolamento a destra del centro 'a-ideologico' sta anche la straordinaria idea che i testi scolastici siano 'contaminati' dal marxismo. Ora, a parte che il marxismo non è ancora un pensiero vietato, uno ci resta di stucco dopo che per decenni da sinistra abbiamo detto il contrario (persino io ho criticato il famoso Giardina-Sabbatucci-Vidotto per la scarsa chiarezza antifascista di un loro passo). In una discussione al Visconti di Roma, sia l'interlocutore fascista repubblichino sia quello antifascista pannelliano concordavano sul fatto che per cinquant'anni ci è stata imposta una verità unica e di regime. Io trasecolavo ricordando la mia esperienza scolastica e quella dei miei figli, ma facevo anche uno sforzo per capire che cosa avessero in mente: sono sicuro che erano 'in buona fede', e quindi più pericolosi.
Intanto, c'è l'incapacità di concepire una società pluralista: per chi riesce a pensare solo in termini di regime, se non c'è il regime proprio deve esserci quello di qualcun altro. Ma c'è anche la memorabile gag berlusconiana, secondo cui l'Italia è stata governata per cinquant'anni dall'egemonia comunista. L'ho ricordata a un'assemblea nazionale di studenti di ambito Ds, e loro hanno fatto come me la prima volta che la sentii: si sono messi a ridere. Che sbaglio: mentre noi ridevamo e pensavamo che fosse troppo ridicola per controbatterla, milioni di italiani ci hanno creduto e non hanno riso affatto. La campagna attuale del centro-destra è una continuazione di quella affermazione, una menzogna 'in buona fede' di un campione dell'autoinganno, penetrata nelle vene del buonsenso nazionale.
C'entrano, certamente, la debolezza della memoria sociale e il potere ipnotico di uno slogan ripetuto in Tv (la tecnica della pubblicità, con la differenza che i pubblicitari non fanno mostra di credere a quello che dicono – gli basta che ci crediamo noi). Spesso c'entra lo strabismo alla Edgardo Sogno, che scambia per comunisti pure Taviani e Andreotti. Ma c'è anche qualcosa di più profondo. Quando lavoravo alla ricerca sulle Ardeatine, sentivo dire (per lo più da familiari di militari caduti alle Fosse) che alle commemorazioni negli anni '50 e dopo c'erano "solo bandiere rosse". Sono andato a guardare i documenti e mi sono accorto che tutti gli anni tutti gli oratori erano solo democristiani. C'è dunque una distorsione della percezione, che rende invisibile l'oratore democristiano, il vescovo sul palco, i militari col 'presentat'arm', e fissa nella memoria solo le bandiere rosse – un po' quella goccia di 'sangue nero', che nell'ideologia razziale americana rende tutto nero chi se la porta dentro.
È un po' come la storia per cui fa notizia l'uomo che morde il cane e non viceversa: si vede l'eccezione, non la normalità. La sinistra è, appunto, l'uomo che morde il cane: è il discorso controintuitivo, che dice che la terra non è piatta, il granello di polvere nella naturalizzazione dei rapporti di potere e dell'ordine politico e ideologico. Il solo fatto che la sinistra esista dunque oscura l'orizzonte intero: per il solo fatto di esistere, la sinistra è automaticamente egemone e dominante. Per questo, nessuno si sofferma sulle distorsioni e i silenzi di stampo nazionalista e religioso nei libri di testo - dove sta il massacro fascista di Devrà Libanòs, milleduecento etiopi uccisi per un attentato fallito a Graziani? dove sono i dodicimila sloveni ammazzati dagli italiani prima delle foibe? quanto sono equidistanti i libri fra i crociati e gli arabi, fra la Chiesa e le streghe? Ma nazionalismo e cattolicesimo sono senso comune, quindi non inquinano.
Ho sentito diverse risposte alle argomentazioni di centro destra sull'obiettività, tutte sensate ma anche insoddisfacenti perché interiorizzano in parte le categorie del discorso e finiscono quindi sulla difensiva. La più immediata e logica è: se non vi piace il libro di testo, leggetene (o scrivetene altri); dopotutto siamo in democrazia. Giustissima, ma ancora suscettibile di una pratica del pluralismo televisivo e di mercato, e specialmente rischiosa quando include l'argomento che la verità e l'obiettività non esistono e si può solo giustapporre delle faziosità. Ne viene fuori allora un intreccio fra la vulgata postmoderna, per cui tutte le narrazioni si equivalgono (Claudio Pavone alla pari con Giorgio Pisanò) e l'ideologia del libro di testo fai-da-te e della scuola privata fai-da-te (ognuno si tenga la faziosità che gli fa piacere).
Più articolata è l'argomentazione secondo cui l'impossibilità di raggiungere sempre verità certe e obiettive non esime lo storico dal dedicarsi con tutti gli strumenti disponibili alla loro ricerca: l'elusività della verità non è un alibi per rinunciare a cercarla, bensì la fonte di una coscienza utopica e tragica nel lavoro intellettuale. Perciò il libro 'obiettivo' sarà quello che avrà applicato nel modo più corretto gli strumenti metodologici della ricerca storica, a partire dal reperimento delle fonti fino alle modalità di interpretazione e di presentazione. Tuttavia, come faceva notare in un dibattito Pietro Scoppola, neanche questo lavoro è riconducibile a un'oggettività astratta: la ricerca storica, come tutto il lavoro intellettuale, non è soltanto applicazione scrupolosa dei protocolli professionali, ma è soprattutto ricerca di conoscenza. Non è mossa solo da fini professionali, ma anche da pulsioni etiche: per quanto neutrali nelle procedure, la ricerca parte sempre da domande che derivano da quello che il ricercatore ritiene necessario conoscere, quindi dalla sua soggettività e dalla domanda sociale proveniente dal contesto storico-sociale (come notava Scoppola: fino a trent'anni fa chi si sarebbe sognato di esigere che i libri di storia interagissero col punto di vista e l'esperienza delle donne?).


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Sulla qualità di questo desiderio di conoscenza si misura la distanza dal revisionismo. Va bene, la revisione permanente è la sostanza del lavoro intellettuale, che sempre rivede il sapere ricevuto e le conclusioni stabilite. Ma è una verità di buon senso, vera ma scivolosa perché rischia di legittimare il revisionismo sul piano intellettuale, senza distinguere fra una revisione storica ha per fine quello di tenere aperto il discorso e il revisionismo di centro-destra che invece ha per fine quello di chiuderlo (e per questo parla tanto di 'riconciliazione' e di memoria nazionale unitaria, che ponga fine alla sventura della 'memoria divisa' e possa quindi essere contenuta in un libro unico approvato dalle autorità).
L'intento di chiudere il discorso nega il desiderio di conoscenza, ha per fine il silenzio. La destra non ha prodotto storiografia decente neanche sui temi che le sono più cari, come le foibe (sia su questo, sia su Porzus e sul triangolo della morte le ricerche le hanno fatte gli Istituti della Resistenza o storici antifascisti come Scoppola) perché le servivano soprattutto come arma per un 'uso pubblico della storia' di breve respiro. Più sento parlare ragazzi ed esponenti di destra, più ho la sensazione che in realtà delle foibe non gli interessa gran che: gli servono solo per contrapporle, mettiamo, alle Fosse Ardeatine, in una specie di partita doppia che azzera i conti e li chiude per sempre (voi dite le Ardeatine, noi diciamo le foibe; voi dite la Shoà, noi diciamo Stalin...), una gigantesca chiamata di correo: non potete dirci colpevoli perché lo siete anche voi, lo siamo tutti e quindi nessuno (e nel reciproco rinfacciarsi di colpe fra sinistra e destra trionfa la faziosità di centro, gli orrori invisibili, perché a-ideologici e centristi, del liberalismo).
Ora, a me pare utile che i ragazzi sappiano degli sloveni ammazzati dagli italiani prima delle foibe, e glielo faccio presente. Ma la differenza fra noi e loro è che la contabilità dei morti non ci esime dall'interrogarci anche dolorosamente sia su che cosa esattamente è successo alle foibe e su che cosa significa per noi che dalla nostra parte siano state compiute azioni orribili. Il fatto che sia esistito Hitler non ci fa sentire autorizzati a chiudere il discorso su Stalin. Anche i partigiani hanno sparato e ucciso; ma ricordo con quanta intensità Carla Capponi parlava, senza rinnegare e senza pentirsi, della sofferenza di dover ricorrere a una pratica così infine aliena alle ragioni della sua scelta politica e morale, come la violenza. Sono ragionamenti che è difficile fare negli spazi affollati e irrequieti delle assemblee studentesche, in luoghi dall'acustica assurda dove è impossibile sentire due frasi di fila; ma dobbiamo sforzarci di farlo, perché qui sta infine la differenza.
Non mi sembra che i miei interlocutori di destra provino sofferenza nel parlare di Auschwitz o di Marzabotto; ma la rimozione di eventi analoghi dall'uso pubblico della storia a sinistra è derivata (oltre che da altre più opportunistiche ragioni) proprio dal fatto che sono fonte di sofferenza. Ci siamo difesi dalla sofferenza con la rimozione, relegando la ricerca alle coscienze individuali o a una storiografia poco ascoltata dagli opinionisti e dai vertici. Ma il rimosso ha i suoi modi di tornare; il revisionismo è uno di questi e non lo sconfiggiamo rovesciando il suo discorso (l'alibi contabile degli orrori) e tanto meno dandogli ragione (sì, il comunismo era un'ideologia criminale ma adesso siamo democratici). Sono solo altre forme di rimozione del dolore. L'unica arma contro il revisionismo è accettare il dolore, e trarne la capacità egemonica di conoscere e spiegare senza bisogno di alibi e giustificazioni, di criticarci in nome dei nostri valori e dei nostri sogni, e non di quelli presi a prestito da qualcun altro.
In ultima analisi, il discorso contabile della somma zero dei massacri e dei crimini sfocia in un altro luogo comune: il Novecento come secolo degli orrori. È una cosa che mi dà un fastidio tremendo. Non capisco perché dovrei essere chiamato a essere orgoglioso del mio spazio (il posto dove sono nato) e a vergognarmi del mio tempo (il secolo in cui c'ero anch'io); perché dovrei essere solidale con i miei connazionali e non con i miei contemporanei. Non mi sta bene già dal punto di vista contabile (trovatemelo, un secolo meno tremendo: le crociate, le guerre di religione, la tratta degli schiavi, il genocidio degli indiani, il colonialismo...); soprattutto, non mi sta bene perché azzera la nostra differenza: se c'è una specificità del Novecento è che in questo tempo è esistito un movimento reale che agli orrori voleva mettere fine. Il crimine di cui viene accusato non è quello di avere fallito e di essersi troppe volte trasformato nel proprio contrario; il suo crimine, il crimine che rende il nostro secolo tanto più pericoloso degli altri, è di averci provato.
A questo serve infine la falsa obiettività revisionista, che criminalizza il nostro tempo: a persuaderci che gli orrori del passato erano naturali e inevitabili, e a farci accogliere come tali anche quelli del presente e del futuro. ("la rivista del manifesto" n. 13 gennaio 2001)

4 commenti:

  1. Io avrei aggiunto al titolo di questo articolo anche "e un tabù violato".

    Sono il giornalista che ha intervistato due volte Marcello Marcellini per "Il Giornale dell'Umbria".

    Vorrei precisare che non sono comunista né ho mai provato nessuna simpatia per il comunismo. Ma di certo sono antifascista e anche se detesto qualsiasi etichetta e sono abituato ad utilizzare la mia testa ogni volta che parlo, scrivo e voto (atteggiamento poco consono tanto ai fascisti quanto ai comunisti) credo di poter essere considerato "di sinistra".
    Aggiungo anche che sono direttore di una rivista chiamata "Adesso" (che ha ripreso la testata di don Primo Mazzolari e che viene considerata comunemente una rivista no-global) dove lo stesso Marcellini ha pubblicato recentemente un articolo (assolutamente "ortodosso" (secondo i vostri canoni)riguardante un episodio della Resistenza

    Vorrei precisare anche l'idea di intervistare Marcello Marcellini - entrambe le volte - è stata mia e che né il direttore né tantomeno l'editore sono intervenuti in nessun modo nell'elaborazione di quegli articoli.

    Nessun disegno ideologico, semplicemente io trovavo l'argomento interessante e quindi ho proposto le interviste al caposervizio che le ha approvate.

    Con la politica e con una presunta volontà di revisionismo, quindi, "Il Giornale dell'Umbria" non c'entra affatto.

    Io non sono un revisionista, semplicemente uno storico e un giornalista non ideologizzato; il mio unico interesse, quindi è nei confronti della verità.
    E per quanto lo conosco, mi sembra che anche Marcellini sia mosso da questa volontà.

    Dopo la pubblicazione dell'intervista molti miei amici militanti del PD mi hanno rimproverato senza smenitre quello che c'era scritto, ma semplicemente perché di certe cose NON BISOGNA PARLARE.

    Francamente mi sembra lo stesso atteggiamento e la stessa onestà intellettuale che emerge da questo articolo. Lunghissime dissertazioni su una parola ("dissertazione"), assai meno impegno intellettuale nell'analisi della polemica, tantomeno dei fatti storici.

    Si deride - tanto per cambiare - Francesco Pullia, si definisce "libello" un volume pubblicato dalla MURSIA.

    Da lettore partiticamente oggettivo (ma politicamente schierato, e schierato a sinistra)non sono riuscito a trovare nulla che aggiungesse qualcosa al dibattito o alla conoscenza storica dei fatti. Solo irrisione per chi osa affrontare tematiche scomode, solo l'ennesima prova dell'arroganza di chi si considera l'unico detentore della verità, l'unico custode autorizzato della storia della Resistenza.

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  2. Gentilissimo amico,
    sarà anche vero che Marcellini ha violato un tabù, il divieto di parlare di alcuni episodi controversi della resistenza, e che la violazione degl'interdetti è atto meritorio, quando apre le strade di una nuova libertà. Ma - creda se non a me a chi pazientemente è andato a spulciare gli atti processuali per controllarne l'attendibilità - il libro del Marcellini è costruito soprattutto su alcune testimonianze evidentemente faziose, scelte per solleticare la curiosità per il macabro e il mostruoso ed anche per "revisionare" un momento di storia, attribuendo ai partigiani il ruolo di assassini e seviziatori e ai fascisti quello di vittime. Ora lei mi dice che non c'è alcuna campagna "revisionistica" e che, comunque, non è nelle scelte politico-editoriali del del "Giornale dell'Umbria". Aggiunge che nessuno, se non la sua giornalistica curiosità, ha solleciato le interviste all'avvocato Marcellini. Non ho ragione di non crederle; ma molti indizi, non esclusi un paio di articoli del "Giornale" della famiglia Berlusconi, fanno pendare che Marcellini e il suo libro siano stati arruolati in una operazione più ampia, non storiografica, ma ideologica. Ella legittimamente critica la mia appendice sul termine di "revisionismo", che le è sembrata lunga e poco produttiva. E' possibile che non mi sia venuta bene, ma da vecchio insegnante di italiano in pensione ho tentato di tracciare una sorta di diagramma sugli usi del termine, che aiuti chi lo usa (me per primo) a capire di che cosa si parla. Lei mi contesta un tono irrisorio che esprimerebbe arroganza e dogmatismo, la presunzione personale e/o di gruppo di possedere la incontrovertibile verità. Credo che si sbagli. Se ho preso in giro il povero Pullia, che per altre sue battaglie stimo, è perchè, nel caso, si è rivelato un credulone e in maniera troppo facile e un po' tronfia si è messo a parlare di "regime".
    La ringrazio in ogni caso dell'attenzione e le auguro ogni bene.
    Salvatore Lo Leggio

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  3. C'è solo un problema di fondo in tutto questo, perchè non lasciare parlare anche i cosidetti vinti. Perchè ci devono essere questi attacchi fazioni e in malafede?
    Le persone che hanno scritto i cosidetti libracci revisionisti hanno fatto un lavoro senza eguali, e senza alcuna ricompensa o pacca sulle spalle. Dall'altra "parte" abbiamo gli storici di fiducia come direbbe Pansa del partitone rosso,nel loro scrivere a volte omettono di raccontare verità su quei personaggi o eventi che tracciano sempre come eroici. Mai si chiedono se vi era qualcos'altro da ricercare, partono già con la verità nella mente. Nessuno di questi storici di fiducia, si è mostrato lontano da posizioni politiche a volte estremiste , molti devono le proprie carriere alle loro posizioni politiche più che al loro merito tecnico. E' per questo che il loro giudizio è in partenza fazioso, sanno che hanno ancora delle "rate" da pagare al partito....Sarebbe invece interessante avere un parere da chi è fuori da nomine politiche ed ha fatto ricerca storica solo per ridare dignità anche alla stessa resistenza e dare un barlume di decenza ad un intero popolo.

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  4. Gentilissimo blogger,
    lei mi dice: "C'è stata una verità di partito, è giusto cercare e, se è il caso, smititizzare". E aggiunge:"I cosiddetti revisionisti li costringono al silenzio". La seconda considerazione, oggi come oggi, è evidentemente falsa. I libri sono pubblicati, ottengono pubblicità (anche gratuita nella Tv di stato), sono recensiti, si fanno conferenze per presentarli e i loro autori, qualunque stupidaggine scrivano, sono presentati come eroi che avrebbero sfidato chissà quale regime. La prima delle sue tesi è, invece, totalmente condivisibile. La storiografia è sempre revisione. Nel caso dell'avvocato ternano questo non si può dire. Il suo è un romanzo a tesi. Dagli atti processuali trasceglie le più truculente testimonianze, ignorando tutte le altre e le stesse sentenze per ottenere i suoi effetti narrativi. Tutto letterariamente legittimo. Ma, per carità, non chiamiamola storia.

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