25.10.09

L'articolo della domenica. Giustizia, una questione sociale.



Nei tre giorni di Contromafie, l'incontro triennale organizzato da Libera, la rete per la legalità che fa capo a don Ciotti, il tema della giustizia e delle sue imminenti riforme è stato presente dall'inizio alla fine per le sue evidenti implicazioni con il contrasto alle grandi organizzazioni criminali.
Tra gli allarmi lanciati, oltre a quello sulla separazione delle carriere tra giudici e pm ritornata prepotentemente d'attualità, due mi sembrano non essere abbastanza presenti all'attenzione dell'opinione pubblica. Uno riguarda la direzione delle indagini di polizia giudiziaria che, nel disegno di legge governativo, cesserebbe di far capo a magistrati indipendenti e sarebbe attribuita ad una autorità di pubblica sicurezza subordinata al ministero degli Interni. Un altro riguarda lo svolgimento dei processi di mafia, che potrebbero essere rallentati, nell'interesse prevalente dagli imputati eccellenti della zona grigia, dalla norma che prevede che i dibattimenti, fin dal primo grado, si svolgano in Corte d'assise con una giuria mista di due togati e sei giudici popolari. Per completare il quadro un terzo intervento potrebbe riguardare i tempi della prescrizione che potrebbero essere considerevolmente ridotti per gl'incensurati (ancora una volta la zona grigia).
L'allarme è più che giustificato.
Del resto, al di là degli stessi reati di mafia, il numero e la qualità delle prescrizioni sono temi che investono i principi fondativi di uno stato di democrazia liberale. La precondizione di ogni libertà è l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Di contro le prescrizioni, nella quasi totalità, riguardano imputati facoltosi, in grado di pagare avvocati esperti e ammanicati e di mettere in atto procedure che rallentano, ritardano, impantanano l'iter processuale fino alla scadenza. Marco Pannella, che di questo tema fa da anni un suo cavallo di battaglia, giustamente definisce la prescrizione una vera e propria "amnistia di classe".
E' del tutto ovvio che la separazione delle carriere (e dei Consigli superiori) tra magistrati giudicanti e inquirenti, voluta per sottomettere l'ordine giudiziario alle maggioranze di governo, non incide sul problema delle prescrizioni. E non incide su quello più generale delle lungaggini processuali che si traducono spesso in denegata giustizia sia nel penale che nel civile.
La proposta che viene avanzata dal governo come possibile soluzione al problema è quella dell'eliminazione dell'obbligatorietà dell'azione penale. Nel nostro sistema giudiziario tuttavia l'abolizione non comporterebbe quei patteggiamenti, quelle rinunce della giustizia a procedere, che ci capita di osservare nei telefilm americani talora con meraviglia talaltra con raccapriccio; avrebbe piuttosto il difetto di quasi tutte le riforme prospettate dal governo: riporterebbe nella sfera politica la decisione sui reati da reprimere e su quelli da lasciar correre.
E allora? C'è un'altra soluzione. Le lungaggini processuali hanno a nostro avviso una delle matrici più importanti nel complesso della legislazione.
Da una parte c'è la dilatazione fino all'inverosimile del diritto penale. Si derubricano o si depenalizzano i "delitti d'impresa" (dal falso in bilancio all'esportazione illegale di capitali), ma in ogni altro campo aumentano i comportamenti da sanzionare penalmente ed aumentano le fattispecie di reato.
Per quel che riguarda il diritto civile o amministrativo si affastellano norme su norme, spesso contraddittorie, creando un vero e proprio caos legislativo.
La nostra impressione che questo modo di procedere sia tipico dei nostri parlamenti da decenni, se non da secoli, a prescindere dalle maggioranze di governo. Una fortissima presenza tra i parlamentari degli avvocati non ha giovato affatto alla semplificazione e alla chiarezza della norma, ma è anzi accaduto un processo analogo a quello denunciato qualche decennio fa da Illic in Nemesi medica. Lì la medicina moltiplicava le malattie per affermare il suo potere, qui gli avvocati, senza neppure farci caso, aggrovigliano le leggi per trarre dal disordine autorità e profitto.
Insomma c'è un problema di manico. Prima di ragionare di applicazione e interpretazione della legge, bisognerebbe intervenire sulla quantità e qualità delle leggi in vigore. Troppo semplice?
Forse, ma fatevi dire dagli esperti che rapporto c'è tra il numero di leggi vigenti in Italia e quello di tutti gli altri paesi avanzati. Scoprirete che, nel migliore dei casi, la proporzione è di tre a uno.

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