9.12.09

La genesi di We Shall Overcome (di Alessandro Portelli, il manifesto 27/5/2006)

Un inno religioso è diventato una canzone di lotta,
adesso la canzone di lotta
si scopre anche canzone d'amore.
Ma il messaggio è sempre lo stesso:
io, noi due, noi tutti, ce l'abbiamo fatta fin qui,
e ce la faremo ancora. 
Era il 1985, e con la Lega di Cultura di Piadena avevamo organizzato una visita di due grandi musicisti americani, Guy e Candie Carawan, e un loro concerto nel caveau del palazzo comunale trasformato in piccolo teatro con un’acustica fantastica. Il pubblico era fatto di compagni, per lo più di estrazione operaia, che guardavano all’America e alla sua cultura con sano sospetto antimperialista. Ascoltarono tuttavia, partecipi e compresi, i suoni poco familiari della mountain music del Sud degli Stati Uniti; ma poi, all’attacco dell’ultima canzone, silenziosamente, uno dopo l’altro, come se stessero ascoltando qualcosa di sacro, si alzarono in piedi. Dell’America non sapevano molto, ma questa l’avevano riconosciuta e sentita loro: era We Shall Overcome.
We Shall Overcome: ce la faremo, supereremo anche questa. Adesso ce l’ha riproposta anche Bruce Springsteen, nel CD intitolato, appunto We Shall Overcome. Nella tradizione afroamericana del gospel e dello spiritual c’è l’immagine ricorrente della vita come un percorso fatto di prove e ostacoli materiali e spirituali da superare, un difficile viaggio da compiere scavalcando montagne, passandoci sopra (over, appunto). In un video realizzato dai Carawan, Hugh Cowans, predicatore e sindacalista delle miniere di Harlan, canta insieme a sua moglie Julia un brano gospel tradizionale, How I Got Over: come ho fatto a superare tutte le asperità e arrivare fino a qui. In The Gospel Sound, il più classico libro sulla storia del gospel, Tony Heilbut nota che nell’inno Amazing Grace, amatissimo da bianchi e neri, la strofa più cara agli afroamericani è quella che dice: “Attraverso pericoli, prove e insidie siamo arrivati fino qui” (“we have already come”). Se mettiamo insieme lo over di How I Got Over e il come di Amazing Grace, il risultato è appunto questo: over/come.
La storia, dunque, è lunga. Comincia nelle stive delle navi negriere (Amazing Grace fu scritta, paradossalmente, da un negriero pentito di Liverpool nel ‘700), continua superando i pericoli e le insidie delle piantagioni e delle miniere. E poi ha una svolta negli anni ’30, in piena Depressione. E’ allora che due studenti (bianchi) di teologia, allievi di Reinhold Niebuhr, tornano nelle colline del loro nativo Tennessee, per mettere in piedi una scuola popolare. Erano gli anni della violenta repressione antioperaia, nel Sud fondamentalista e razzista, ma non avevano paura. Si chiamavano Myles Horton e Don West; la scuola che fondarono si chiamava Highlander, e diventò rapidamente il luogo di formazione dei quadri del movimento sindacale in tutto il Sud. Un luogo sovversivo non solo per la visione di classe che lo animava, ma anche perché era il solo posto in tutto il Sud che rifiutasse di praticare la separazione fra bianchi e neri.
L’idea di Highlander era che l’insegnamento era reciproco, che gli “insegnanti” imparavano dagli “allievi” – minatori, contadini, operai tessili – tanto quanto gli allievi imparavano da loro. Perciò si trattava di ascoltare e apprendere, raccogliendo la musica e le storie e andando nei luoghi dove prendeva forma la cultura di resistenza del mondo popolare. Per esempio, andando a Davidson e Wilder, due sperduti villaggi minerari dove il leader dello sciopero, Barney Graham, fu ammazzato dai sicari dell’azienda, e sua figlia ne cantò la lotta e la morte in una memorabile canzone. Myles Horton era lì, parlò, ascoltò, raccolse la canzone, e fu arrestato con l’accusa di “essere venuto sul posto, avere preso informazioni sullo sciopero e averle diffuse all'esterno”. In quel tempo e in quei luoghi, questo era un reato.
Nel 1941, Zilphia, moglie di Myles, era in North Carolina, per lo sciopero dei braccianti neri delle piantagioni di tabacco, e li sentì cantare uno spiritual poco noto: “I’ll Overcome, Someday”, ce la farò, un giorno. Gli spiritual trasformano facilmente in canzoni di lotta perché si prestano a un uso collettivo immediato: la forma più comune, come in We Shall Overcome è quella di una parte fissa che si ripete ogni volta finché tutti la imparano (“deep in my heart, I do believe…”: nel profondo del cuore, credo veramente che ce la farò, un giorno), e di una parte mobile, che ognuno può contribuire a cambiare e improvvisare, adattandola alle situazioni e agli stati d’animo del momento. I’ll Overcome, Someday andò ad aggiungersi agli archivi di Highlander (coi brividi addosso, sentii quella registrazione anch’io, a Highlander, mezzo secolo dopo), e lì rimase fino a un’altra fase della storia.
Con il dopoguerra e la guerra fredda, il rapporto fra Highlander e i sindacati si raffredda fino a spezzarsi: accusati di comunismo, Horton e la sua scuola vengono tagliati fuori dal movimento operaio; nel 1963, la scuola fu incendiata dal Ku Klux Klan e fatta chiudere dal governo del Tennessee. Ma non si perdono d’animo: la scuola riapre poco lontano e con un’altra ragione sociale: un’altra prova superata; e nel frattempo ha anche cambiato ruolo e interlocutori. Nel Sud, il conflitto operaio si è andato spegnendo nella repressione, ma la questione razziale diventa esplovia, e Highlander si riconverte a questa nuova causa, dedicandosi a formare i quadri del movimento per i diritti civili. Rosa Parks, sarta di Montgomery, Alabama, frequentò un workshop di Highlander; tornata a casa, il suo famoso rifiuto di cedere il posto su un autobus segregato scatenò il boicottaggio da cui ebbe inizio tutto il resto. Più tardo, a Highlander venne lo stesso Martin Luther King, e questa visita servì ai razzisti per accusarlo di frequentazioni comuniste.
Negli incontri con i quadri del nascente movimento, Guy Carawan, che si occupava dei programmi culturali a Highlander, ripropose alla nuova generazione afroamericana la tradizione musicale dello spiritual e del gospel come canzone di lotta. In un primo momento l’idea fu accolta molto freddamente: i nuovi militanti erano giovani, cresciuti col rhythm and blues, e quella gli pareva musica da schiavi e da braccianti – come infatti era. Solo che di quella storia di oppressione e povertà loro si vergognavano e avevano poca voglia di vedersela ricordare. Ma a mano a mano che la lotta si allargava, e che entravano in campo anche generazioni meno giovani e strati sociali più popolari, il potere unificante di quella musica ebbe il sopravvento e il movimento trovò il suo linguaggio musicale di massa. Guy Carawan aveva cambiato I’ll Overcome in We Shall Overcome, dalla speranza alla certezza del futuro, dal singolare al collettivo (come da How I Got Over a We have already come). Pete Seeger venne a Highlander, la sentì cantare nelle manifestazioni in Alabama a Mississippi, la riportò a New York in un indimenticabile concerto alla Carnegie Hall, e da lì la canzone arrivò fino al caveau del comune di Piadena. E a Bruce Springsteen, in un disco dove le tengono compagnia non meno di altri tre spiritual passati attraverso le lotte afroamericane, e che – con la dedica esplicita a Pete Seeger (il sottotitolo è The Seeger Sessions) si riconnette direttamente a questa storia.
Anche Bruce Springsteen ci mette del suo. Non è tempo di inni collettivi e di manifestazioni di massa, oggi; così la sua “We Shall Overcome” ritrova in altro modo la dimensione delle origini, non meno sentita ma più intima: “darling, we shall overcome, someday”. Il “noi” introdotto da Guy Carawan adesso è “noi due”. Fino dai tempi di Thunder Road, nelle canzoni di Bruce Springsteen la coppia non è un mondo chiuso ma la cellula iniziale di una società altra, l’inizio del superamento della solitudine e dell’egoismo. Un inno religioso è diventato una canzone di lotta, e adesso la canzone di lotta si scopre anche canzone d’amore. Ma il messaggio è sempre lo stesso: io, noi due, noi tutti, ce l’abbiamo fatta fin qui, e ce la faremo, ancora.

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