E' iniziato nel novembre appena finito il giro di presentazioni de I basagliati. Percorsi di libertà, il libro curato da Paolo Lupattelli di recente uscito per i tipi di Crace che ha l'ambizione di re-suscitare un'attenzione, di riaprire un dibattito, di riattivare percorsi di liberazione da tempo interrotti. Le prime due presentazioni si sono svolte a Perugia e a Gorizia da qui raccolgo alcune spigolature, contornate da memorie e riflessioni mie.
Il dibattito, per mille ragioni, si apre con difficoltà e prosegue tra le tensioni, ma il libro nato dall'inchiesta di "micropolis" aiuta. Speriamo che le presentazioni si moltiplichino.
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C'ero anch'io
A Perugia ha aperto il dibattito una piccola recriminazione. Uno dei presentatori del libro, lo psichiatra Scotti, si è lamentato della didascalia di una foto del 1969. "Quello che parla al microfono - ha detto - sono io. E non mi avete neppure citato". Ha poi ricordato la specificità della vicenda della psichiatria umbra, ove all'apertura dei manicomi corrispose fin da subito la massima attenzione all'inserimento dei "matti" nel mondo esterno.
Io ricordo la meraviglia che provai quando, nel 1978, lasciai la nativa Sicilia per l'Umbria. L'ultimo ruolo politico che avevo svolto in Sicilia era quello di consigliere di amministrazione di un ospedale, a Gela. In quell'ospedale con mille problemi la "legge Basaglia" era stata vissuta come una iattura da medici, infermieri e amministratori. L'obbligo di riservare a taluni "malati" dei posti letto e le leggende sui comportamenti dei nuovi ospiti creavano una sorta di panico.
A Bastia Umbra dove andai ad abitare, invece, le case famiglia per le donne e gli uomini liberati dalla segregazione manicomiale erano come il fiore all'occhiello dell'amministrazione comunale guidata da Alberto La Volpe. I due assessori che se ne occupavano, la comunista Rosella Curradi e la socialista Mirella Zampericoli, andavano anche due volte al giorno a verificare che tutto funzionasse e con loro spesso arrivavano altre compagne e compagni delle sezioni comunista e socialista e i "ragazzi dei giardinetti", molto alternativi e perfino un po' estremisti. Quella che ai perbenisti sembrava una rischiosa scommessa era per una parte significativa della sinistra una importante battaglia politica.
La politica: troppo poca o troppa?
Il curatore del libro, Lupattelli, incassa, dice "è vero, professor Scotti". Ma nella foto scorge un diverso elemento di interesse e di differenza dal presente: la sala gli pare piena di assessori, di consiglieri, di attivisti. Chiede: "Dov'è ora la politica?". In effetti all'affollatissima presentazione non c'è un politico in carriera, un sindaco, un assessore alla sanità, un presidente di commissione. "In tutt'altre faccende affaccendati".
Catanelli, dirigente sanitario alla Regione, non è d'accordo. "E' vero - dice - qui non se ne vede traccia, ma non illudetevi, la politica è fin troppo pervasiva: si infila dappertutto e pretende di dettare legge su tutto, dalle nomine alla dislocazione delle strutture, dagli orari dei servizi alla distribuzione del personale".
Tocca a un terzo presentatore, Covino, storico di mestiere e storico redattore di "micropolis", il mensile da una cui costola (l'inchiesta sui trent'anni della legge Basaglia) il libro è nato, cimentarsi nella soluzione del busillis: troppa politica come gestione e amministrazione, troppo poca come visione e progetto. Analisi giusta. Ma dalle antiche foto di affollatissime assemblee in cui centinaia di persone si appassionano e dibattono sulla chiusura dei manicomi arrivano forse altri verdetti sull'oggi.
Un passo indietro e uno avanti
Lupattelli ha ragione a dire: allora (le foto sono del 69-70) i "politici" cercavano ogni possibile confronto, oggi se ne infischiano o scappano. Ma nel 69 non dovevano essere così numerosi i politici istituzionali. Non c'erano le regioni, non c'erano le circoscrizioni e gli enti che prevedevano nomine politiche si contavano sulle dita di una mano. Chi riempiva allora quelle sale?
Erano altri tempi. Erano numerose e sempre affollate le sezioni del Pci, i ragazzi riempivano le sedi della Fgci ed erano attivissimi i neonati gruppi extraparlamentari. Assemblee frequenti, a volte improvvise e spontanee, si svolgevano in continuità nelle fabbriche, nelle scuolle, nelle Università, negli ospedali. Tutti si occupavano di tutto: Vietnam e università, salari bassi e chiusura dei manicomi. Moltissimi, in tutti gli ambienti, sembravano presi dalla frenesia disinteressata di partecipare, di contare, di dire la loro. Era questa, a quel tempo, la politica. Cosa si intenda con il termine "politica" ai nostri giorni ce lo svelano certe frasette. Uno dice: la politica faccia un passo indietro. Un altro chiede: dov'è la politica? si faccia avanti! L'uno e l'altro per politica non intendono la partecipazione collettiva alla cosa pubblica, ma l'insieme indifferenziato delle persone che fanno politica un primo o un secondo mestiere, da cui ricavano ricavandoci reddito e opportunità, su cui costruiscono carriere. Insomma per "politica" si intende un ceto separato e privilegiato: una specie di casta.
La biblioteca perduta
Un altro dei presentatori perugini, Seppilli, grande antropologo e storico dirigente della sinistra, racconta e denuncia. Racconta del grande movimento che proprio a Perugia ebbe uno dei centri più vivi. Denuncia il provincialismo e la chiusura del dibattito attuale in Italia, proprio mentre in tutto il mondo si studiano come dei modelli Basaglia, l'esperienza della psichiatria italiana, la chiusura dei manicomi. Anche Seppilli ha molto da ridire sulla "politica" del nostro tempo. "La Provincia - dice - ha finanziato un documentario sulla psichiatria perugina, ma non ha trovato il modo di salvaguardare la ricca biblioteca dei servizi psichiatrici, un luogo storico di incontro e di attività". Ha ragione, ma non serve a molto tenere aperta una biblioteca che nessuno da decenni frequenta. Si sarebbe dovuto inventare qualcosa per rianimarne le attività, ma assessori e funzionari avrebbero dovuto sottoporsi alla fatica di pensare.
Percorsi di libertà
Nel racconto a più voci emergono alcuni episodi dal sapore aneddotico. Uno rimanda all'attualità. Un "matto" toglie dalla parete e distrugge il crocifisso. In città infuria la polemica. Alla fine è l'"assemblea" (dei malati, degli infermieri, dei medici e dei volontari), il grande strumento politico-terapeutico del Sessantotto, a decidere di rimettere a posto i crocifissi. Si parla anche della condizione degli internati prima di Basaglia, di Manuali e degli altri: una segregazione pressochè totale. Le visite dei parenti sono brevissime e solo una volta al mese. Le lettere da e per il manicomio vengono censurate e spesso cestinate. E' un mondo a parte. La battaglia della psichiatria democratica e della sinistra aveva lo scopo di offrire a questi uomini e queste donne, che erano stati umiliati e spossessati, la possibilità di riappropriarsi dello spazio esterno, di muoversi in esso, di compiere esperienze e allacciare relazioni. Ma, grazia alla politica di allora, fuori dalle mura essi trovavano persone e gruppi pronti a relazionarsi con loro: le famiglie, i quartieri, i paesi si riprendono i loro "matti" e sono felici di ritrovarli, dopo averli sottratti all'orribile universo concentrazionario dell'ospedale psichiatrico. Si ricorda a Perugia come in alcuni piccoli paesi i parroci fecero suonare le campane per il ritorno dei matti e c'era una folla festosa a salutarli. Oggi probabilmente, invece che uno spontaneo comitato d'accoglienza, ci sarebbe un comitato che ne rifiuta la liberazione in nome della sicurezza.
Non solo Basaglia
A Perugia più d'uno contesta il titolo di Lupattelli: "Non c'era solo Basaglia". Lupattelli paziente spiega quanto aveva già spiegato nel libro: la provocazione di Guzzanti, che chiama "basagliati" le presunte "vittime" della legge 180, e la sua controprovocazione. Covino e Seppilli strutturano il discorso: quella battaglia confluirono molte scuole psichiatriche e più di una tendenza politica. Non si sarebbe fatta senza l'apporto dei cattolici (e di una parte dei democristiani).
Se di Basaglia a Perugia non parlano molto, ci saremmo aspettati che lo ricordassero a Gorizia, la città nel cui ospedale psichiatrico dove Basaglia, Ongaro, Pirella etc. condussero la prima clamorosa battaglia per la spezzare le catene della segregazione, l'esperienza da cui nacque un libro che segnò un'epoca: L'istituzione negata. E invece no. Di Basaglia a Gorizia sembra all'inizio che nessuno voglia parlare, tranne Lupattelli. Nulla ne dicono Bertagni e Bertoli, gli psichiatri che dirigono i dipartimenti di salute mentale di Gorizia e Villanova. E' Genovese, un avvocato che al tempo eroico di Basaglia era suo sodale come volontario, uno di quelli che si portava i matti in casa, a rompere il silenzio. Racconta la Gorizia degli anni sessanta, un contesto assai diverso da quello perugino così segnato dalla presenza della sinistra. Gorizia è militarizzata e perbenista; comandano i democristiani e ci sono tanti missini. I più vedono nell'apertura del manicomio una rottura dell'equilibrio, un pericolo. Genovese ricorda come lo stesso sostegno dell'Amministrazione provinciale, che gestiva l'ospedale psichiatrico, fosse limitato e più che altro dovuto al ruolo dei socialisti e alla forte persolità di Loris Fortuna; rammenta infine la radicalità dell'esperienza, con quell'atto simbolico di togliere i camici, un atto con cui non si distruggeva solo il manicomio ma la psichiatria come istituzione.
Liberazione e libertà
A Gorizia la platea è un po' meno numerosa di quella perugina (60 presenti contro 100, ma la città è più piccola), ma dello stesso tipo: per metà è di operatori (a Gorizia c'è anche una "matta"), per l'altra metà di gente di sinistra, soprattutto intellettuali. Il tema centrale del dibattito è la legge 180 e le orribili proposte di riforma che Lupattelli illustra. In omaggio al tecnicismo e allo specialismo oggi imperanti, aggiunge come argomentazione il fatto che tra i presentatori uno solo è medico. Nel Sessantotto si sarebbe detto "meno male". Le proposte odierne in effetti fanno schifo, ma credo c'entri poco la professione degli onorevoli proponenti. C'entra di più l'ideologia.
I due dirigenti psichiatrici che intervengono a Gorizia difendono entrambi la 180 e denunciano le carenze di risorse, di personale, di cultura che rendono difficile l'applicazione piena. Stranamente il più appassionato e convincente sembra essere Bertoli. Ci hanno detto che è un cattolico integralista, di Cl addirittura, ma non pare voler seguire la Compagnia delle Opere nella furia privatizzatrice.
Tra gl'interventi del pubblico uno è assai polemico. Lo fa Bianchini, che è consigliere comunale di Sinistra e libertà, ma che è soprattutto un ex infermiere dello psichiatrico oggi in pensione, uno di quelli che ha partecipato in prima persona alle lotte di Basaglia. Accusa Bertagni: avevamo sperato in te dopo 26 anni di buio, tu ci hai tradito, ti sei rimesso il camice. Ci ricordiamo di Hannah Arendt e del suo libro Sulla rivoluzione. Nella psicologia del rivoluzionario - affermava - centrale è il piacere della partecipazione, del parlare in pubblico, del rovesciare consuetudini, norme e luoghi comuni. Conosciuta la felicità pubblica il rivoluzionario vorrebbe che la rivoluzione non finisse più. E invece - spega la Arendt - una rivoluzione ben fatta non può fermarsi alla liberazione, ma deve concludersi con la fondazione della libertà, con la sua stabilizzazione e costituzionalizzazione; insomma deve finire. Forse al rosso Bianchini che da giovane infermiere negò l'istituzione, spiace tuttora l'istituzionalizzazione della libertà, lo stabilizzarsi di procedure e di protocolli psichiatrici. O forse è il clima politico di reazione, con le sue ossessioni securitarie e i progetti di restaurazione, a favorire la frantumazione del fronte progressista.
Un uomo, non un padreterno
La sera a cena apprendiemo il perchè della difficoltà a parlare di Basaglia. Avremmo dovuto saperlo, ma ce n'eravamo scordati. Allo psichiatrico di Gorizia il 68 non fu anno di rivoluzione, ma di restaurazione. Proprio in quell'anno uno dei matti liberati uccise la moglie a colpi di accetta. "Era una di quelle tragedie che possono accadere anche tra chi non ha disturbi psichici - ci dicono i nostri interlocutori - era la moglie che l'aveva fatto rinchiudere per fare i suoi comodi". Che prima o poi qualcosa di simile dovesse accadere era previsto e scritto ne L'istituzione negata: le pulsioni omicide sono abbastanza diffuse nel genere umano e qualche volta prendono il sopravvento, persino tra i matti. E tuttavia si scatenò la canea. Basaglia era da un po' di tempo a Londra, ma tutti si aspettavano che si assumesse la piena responsabilità dell'accaduto. Non lo fece.
Questa debolezza ce lo rende più simpatico: non ci piacciono nè i padreterni infallibili nè i cavalieri senza macchia. Anche a Gorizia lo hanno perdonato e non fanno che osannarlo, ma non riescono a dimenticare completamente. Dopo l'incidente, nella città di confine si richiusero le porte del manicomio e la gestione della 180, arrivata dieci anni dopo, fu estremamente prudente e conservatrice. Il gruppo degli psichiatri si disperse, chi a Trieste, chi a Milano, chi a Parma, per continuare altrove il percorso di libertà. Solo nel 1994 (in coincidenza con una eccezionale vittoria elettorale del centrosinistra), 26 anni dopo, a dirigere la psichiatria, sollevando molte speranze, arrivò un medico progressista, Bertagni appunto. Ma portava il camice.
Quanti ricordi Salvatore... Vivevo a Gorizia quando all'Ospedale Psichiatrico arrivò questo medico così diverso da quelli che l'avevano preceduto. Ricordo le critiche, la sorpresa, il timore, ma anche l'ammirazione quando aprì i cancelli e cominciò a organizzare, invitando la popolazione locale, incontri e feste.
RispondiEliminaCome tu ben riporti l'omicidio di uno dei suoi "mati liberi" provocò una reazione durissima, facendo di nuovo prevalere, tra la gente, il bisogno di sicurezza.
Poi, negli anni in cui vissi a Trieste, i basagliani ritentarono l'esperimento che, questa volta, riuscì. Devo dire che i triestini, pur con qualche battuta e con qualche perplessità si adattarono alla presenza dei " mati" (che in una regione come il Friuli dove c'è la cultura del vino e del bere, erano spesso solo alcolisti)e le case famiglia, da quello che mi raccontano i miei amici, funzionano ancora bene...
Di Basaglia, che curò un mio familiare per anni, ricorderò sempre l'umanità e il rispetto profondo per il malato e per i suoi familiari. Forse riuscì a fare ciò che fece perché erano anni particolari, c'era la voglia di cambiare e la disponibilità a mettersi in gioco, a dare e darsi... Fare politica era fare, rimboccarsi le maniche e fare.
Oggi fare politica è un'altra cosa,
come ben dici tu, è tutta un'altra cosa!