Eugenio Montale il 19 dicembre 1952 aveva pubblicato un necrologio di Paul Eluard sul "Corriere della sera" non solo limitativo della poesia del grande surrealista (Montale tra i francesi del Novecento preferiva nettamente Valery), ma assai maligno nei riferimenti alle scelte politiche e di vita del grande poeta.
Franco Fortini prese penna e gli scrisse. La lettera fu pubblicata molto tempo dopo con altre di Montale e Fortini e con uno scritto a commento di Romano Luperini, su "Belfagor", la storica rivista fondata da Luigi Russo, nel novembre del 1982. Ne riporto uno stralcio, quello politicamente più interessante.
Quello che lei ha scritto per la morte di Eluard non è stato bello. Se il suo giudizio sul poeta francese fosse stato esclusivamente letterario avrei potuto discuterlo non addolorarmene [...] Ma i modi del suo giudizio, l'accento di quel suo scritto, le malignità civettuole e di incerto gusto - come quel "altro è parlar di morte altro è morire", citato proprio in quella occasione - le sono state dettate da una antipatia e da una ostilità politica, antipatia e ostilità condivise dal pubblico dei suoi articoli, cui lei pare aver inteso fornire non un giudizio ma appena una conferma lusinghiera di quei sentimenti. Ha messo in ridicolo le edizioni numerate, le due o tre mogli, la "rivolta in pantofole", la "longevità allietata da un numero sempre maggiore di liriche squisite", i viaggi da "sovrano"... ha taciuto della vita dolorosa di quell'uomo malato, della sua figura di scrittore che non ha avuto conversioni nè servilismo verso i dirigenti del suo partito, della sua parte nella Resistenza e nella letteratura della Resistenza... E m'è ancora venuto fresco il ricordo di quella "critica della poesia" che era stata la guerra civile europea: nel 1946, quando Eluard fu ospite in casa sua, lei (che tuttavia non faceva mistero della sua scarsa stima per i versi del poeta francese) non avrebbe avuto non dirò il coraggio ma la leggerezza di cuore di pensare e di scrivere quel che doveva scrivere sei anni più tardi. Che cosa posso augurarle se non di essere giudicato un giorno con misura diversa da quella che è servita a giudicare il suo coetaneo Eluard?
Non sono comunista. Mi costa dirlo perché se mi guardo intorno e vedo quale sorta di uomini, e di interessi, una dichiarazione simile conforta e conferma ad accettare la realtà che viviamo, verrebbe voglia di essere comunisti in tutto, anche nell'errore; perchè solo i comunisti coloro hanno in conto di veri nemici e chi non lo sia, pur che almeno dica di non esserlo, son pronti ad accettare e ascoltare. Mi costa dirlo ma debbo dirlo, non solo perché è la verità ma perché non esser solidali con taluni modi della politica comunista, con l'articolazione gerarchica di quel partito e con non pochi aspetti della sua politica culturale, e al tempo stesso denunciare la buona coscienza che l'anticomunismo garantisce alle nostre classi privilegiate è il solo modo di sfuggire ai ricatti di quelle classi; e di combatterle. Non sono comunista: tuttavia del pensiero marxista condivido - se impiegato con agilità e le cautele dell'intelligenza - quel metodo critico che del mondo poetico di un artista vede il fondamento in una realtà sociale e politica e di questa vi legge i conflitti e le contraddizioni ma superati in una tensione interna alla forma che è premessa di quella propria della vita morale; e posso comprendere che un marxista dichiari la reversibilità del processo politico e di quello letterario.
Ma non è marxista lei; e non dovrebbe, per accontentare i gusti del suo pubblico, confondere il giudizio politico e quello letterario, accettare un criterio di giudizio che non condivide e che rifiuterebbe in altrui. La differenza con l'ingiuria del giornalista comunista a Gide morto è meno grande di quel che i suoi lettori sono avvezzi a presumere.
Altri per lei potrebbero chiedermi come mai le scriva ora queste parole, quando lei non ha atteso l'occasione di quel necrologio per esprimere giudizi ispirati a un tono politico che non condivido. Infatti non da oggi alcuni amici suoi e miei scorrono rattristati taluni suoi articoli più corrivi al gusto dell'ora. Ma poi ci occorreva di pensare: che importanza possono avere i giudizi politici e gli articoli di Montale? Egli è ben altro. Alla leggerezza di quelli egli contrappone la serietà integra della sua condizione di poeta, impegnata a sè medesima tanto inflessibilmente. Che basso virtuismo, allora, giudicarlo da altro che non sia il meglio di lui.
E io poi non ho dimenticato i suoi anni durante il fascismo, quando ero poco più che adolescente, e la vedevo sull'ora di cena uscire delle "Giubbe rosse" e avviarsi per Borgo degli Albizzi a Pietrapiana; e quella sua figura era per noi una delle poche non inchinate ai padroni di allora. Ma si può parlare di lei come un autore d'un altro tempo, come di un libro chiuso? Non posso ammettere, e non sarebbe vero nemmeno se lo accettassi, che i rapporti di gente viva fingano l'indifferenza, il distacco dalla contingenza, che è dei dialoghi dei morti. E' dunque inevitabile che per i presenti, per quelli che son raccolti con lei in questo living room, il timbro della sua compromissione politica rischi di alterare il significato medesimo della sua poesia. Ho detto il timbro, non la qualità: ché se parteggiasse apertamente, se avesse da dire e dicesse qualche parola decisa di speranza o disperazione, di rassegnazione o di incitamento ai giovani nuovi che la giudicheranno e, come a noi, a lei chiederanno ragione del mondo che si troveranno d'intorno, questa lettera io non gliela avrei scritta. Non sono tanto sciocco o accecato dal vizio della predicazione moralistica da ignorare che non a uomini del suo passato e della sua età si possono rivolgere ammonimenti o consigli non richiesti.
Ma con taluni suoi scritti, come quello in morte di Eluard, più che difendere una sua convinzione lei sembrava lusingare un vizio altrui [...]. E, se allora da quegli scritti torniamo ai suoi versi, alle sue poesie più belle, se, come ha detto non molto tempo fa un comune amico, leggiamo in quelle "una poesia militante, un grande diario" che "dei nostri anni accetta consapevolmente le ragioni della sconfitta e del silenzio", la poesia che "con maggiore giustizia testimonierà degli anni della nostra giovinezza" e che "ha pertanto il maggiore diritto di rappresentarci", come non dobbiamo dolerci quando della lezione di dignità, di patita verità e vittoria, di vita morale insomma, che quei versi suonano per noi, vediamo rosi i margini, sottolineati i confini, accentuate le parti caduche, imbellettate le eleganze, dal tributo non necessario concesso a un dato pubblico che ha quel tanto di studio e letture da intenderla, ma non merita certo la sua poesia, se, come sono certo, la interpreta solo nei termini suggeriti dalla sua stampa, dalla sua vita politica, dalla sua morale industriale e dalla sua cultura, cioè una stampa cautelosa, una vita tendenzialmente antidemocratica, una morale senza coraggio e una cultura di provincia? Almeno, invece di favorirne i facili sorrisi sulle intelligenze e le menti che ne avversano le consuetudini e ne disturbano le pigrizie, i suoi scritti richiamassero quel pubblico alla cultura maggiore e più alta della borghesia! Ecco perchè sono coloro che lei può creder più lontani e, come me, non hanno unita volentieri la voce al coro delle lodi, proprio in quanto credono o sperano o s'augurano d'essere sulle soglie di un mondo diverso, possono meglio intendere o cercare di intendere la sua poesia e augurarsi di essere gli eredi.
Non si può, non si deve, da nessuno a nessuno, fingere che non conti almeno il tentativo della coerenza fra le diverse parti dei nostri umani discorsi e quindi di responsabilità civile dello scrittore, che non conti la sua figura che è anche di pubblico maestro di verità e giustizia. Non lo si dovette ieri, quando non uno di coloro che ci ponevano in mano i libri di Croce seppe dirci che Gramsci era in carcere; non lo si deve oggi, quando può parere cosa di poco momento che il maggior poeta vivente italiano non voglia o non possa dire parole più degne per la morte del maggiore poeta di Francia; non lo si dovrà in nessun modo domani, quando la dittatura forse necessaria delle classi oggi oppresse dovesse, per mano dei suoi capi, voler comunque umiliare quella responsabilità, limitare quella funzione di verità o stravolgerla. [...] Domani nessuno ricorderà il mio nome nè queste righe, e si farà attenzione ai suoi articoli solo perchè Dora Markus, Carnevale di Gerti, o Notizie dall'Amiata daranno a chi legga il brivido di una vita possibile, una scoperta angosciosa e rasserenante. Ma oggi, proprio in nome di quei valori che anche la sua poesia ci ha aiutati a scoprire, non possiamo consentire alla cultura e alla politica ambigua e codina imposta a tutti dalle classi che si servono delle sue timidezze, dei suoi timori o rispetti umani, simulando di difendere la civiltà e con quella i valori stessi della sua poesia.
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Postilla
In una estate recente (forse il 2003), a Salina, mi accadde di essere trascinato dai miei ospiti ad una cena di villeggianti. I padroni di casa erano di una borghesia milanese economicamente solida, tra i primi ad aver comprato lì le case con 2 lire per poi lucrare su fitti e rivendite; gente - mi dissero - ben nata e ben vissuta, con cognomi di peso. Io, che in genere ho buonissima memoria, non li ricordo. Sarà perché non mi piacquero loro e, con poche eccezioni, non mi piacquero gli altri commensali, in prevalenza della stessa genìa.
Borghesia. Ricchezza non ostentata, letture buone ed ampie, conoscenze variegate, con punte di stronzaggine e melensaggine qua e là (in genere di quelle innocue, da film comico, i "capresi" di Totò a colori ). Infine, grattata la vernice, tanta grettezza. Ciò nonostante, conviviale come sono, aiutato dagli alcolici, ascoltai e parlai e, alla fine, cantai e recitai. Mi scappò nella notte "il girasole impazzito" di Montale, una delle poesie che più amavo. Alcuni (non tutti) riconobbero la poesia e l'autore, ma anche gli altri, i più superficiali ed elegantoni, prima un po' turbati dal testo, a sentirne il nome si sentirono rassicurati e a proprio agio, come se il poeta fosse "cosa loro": "Ah, il Montale". Da allore la "luce" di quella memorabile lirica mi appare più debole e fioca.(S.L.L.)
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