30.1.10

Cara Unità (una lettera al giornale di Ivana Corona da Torino - 23 gennaio 2010)



Cara Unità,

che stavi in tasca a mio papà l’8 giugno del ’51, quando sono nata io e c’erano le elezioni e lui venne all’ospedale a vedermi due giorni dopo perché era rappresentante di lista per il PCI e non poteva mollare la sorveglianza ai seggi.
Cara Unità, che stavi sempre sul tavolo di marmo della cucina dei miei, dal ’68 in poi, quando arrivavo a casa piena di volantini, dal Movimento Studentesco fino agli Autonomi.
Cara Unità, erano gli anni ’60 e la tua sede di Torino organizzava una festa per i figli degli immigrati dal meridione, una strana festa, ibrida, tra il Soccorso Rosso e l’Azione Cattolica. Si chiamava “La Befana dell’Unità”. A quei tempi si distribuiva il giornale nelle soffitte del centro la domenica mattina: si chiamava “la diffusione”, ad opera dei militanti. Si diffondevano parole di lotta e di speranza a chi era venuto su con la valigia di cartone piena di pelati e di pasta e non trovava neanche una casa dove stare, perché molti piemontesi non gli volevano affittare gli alloggi. “Non si affitta a meridionali”…
A Natale i figli dei “compagni” erano invitati dalle sezioni del partito a rinunciare ad un dono trovato sotto l’albero per darlo ai figli dei “meridionali” e tutto faceva capo alla sede del giornale, dove si confezionavano i pacchi e da dove i compagni si sguinzagliavano per le soffitte di Porta Palazzo, per distribuire i biglietti d’invito per il teatro Alfieri, per il giorno della Befana, dove si sarebbe proiettato anche un film di cartoni animati. Mi ricordo il freddo, la neve, il mio dilemma su quale bambola donare, le manine che mi facevano male, perché i pacchi erano duri da legare. Poi, finalmente, veniva il 6 gennaio e li vedevo i poveri, tantissimi, tutti a teatro, vestiti più male di me che già ero vestita malissimo, perché mio papà era solo operaio e mia nonna mi faceva le gonne con i suoi pantaloni dismessi.
Cara Unità, come dice Goffredo Fofi, una volta eravamo un popolo. Pietistici, paternalistici, illusi, comunisti, credenti, stupidi. Ma veri. Dimmi, è passato così tanto tempo? Ma sono proprio così vecchia? Deve essere così, perché se così non fosse, quella povera gente nera, che raccoglie quei mandarini di cui ci ingozziamo e che a volte lasciamo marcire sul balcone, quei nostri fratelli, dicevo, a quest’ora ce li saremmo stretti al cuore e ci saremmo incazzati come bestie contro un sistema che si basa sullo sfruttamento…invece di perdere la nostra vita a girare per i saldi di fine stagione. E’ la nostra vita che stiamo svendendo.
Dedico questa lettera alla memoria di mio padre, un partigiano fra i tanti, che quando gli chiesi se credeva in Dio, mi rispose: “Io credo nell’Uomo”. Ho ritrovato le sue parole molto dopo negli scritti di Che Guevara. E a mia mamma, sua compagna.

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