La storia imprenditoriale di Silvio Berlusconi conosce una svolta decisiva quando le sue Tv, dopo avere montato sul tema una campagna di “libertà”, violano il divieto a trasmettere su tutto il territorio nazionale e ottengono, grazie al consenso del pubblico drogato dalla campagna mediatica, non solo l’impunità ma la beatificazione attraverso il decreto Craxi. La sua storia di uomo politico si origina da un'altra forzatura. Il Cavaliere ben sapeva che l’essere titolare di concessioni governative era motivo di ineleggibilità, ma era convinto che, se alla sua “discesa in campo” avesse fatto seguito un grande successo nelle urne, nessuno avrebbe osato chiedere la sua decadenza da deputato. Nessuno osò.
Questi due passaggi segnano profondamente lo stile dell’uomo e dei movimenti politici che a lui fanno capo per tutto il quindicennio trascorso. Il “berlusconismo” è tante cose, ma una delle caratteristiche più rilevanti è l’insofferenza alle regole, vissute come bardature e intralci all’esercizio di un potere per cui si è ottenuta l’“unzione” popolare garantita dal voto e perfino dai soli sondaggi.
Questo berlusconismo ha fatto scuola conquistando fette di sinistra. Prendiamo la questione della terza candidatura a Presidente della Regione Umbria dell’onorevole Maria Rita Lorenzetti. I suoi sostenitori nel Pd, subito dopo il mancato successo congressuale della “governatrice”, dissero: “Non toccate Maria Rita. Con lei si stravince. I sondaggi la danno al 65”.
Lo Statuto del Pd però era chiaro. Alla regola interna che fissava in due il numero massimo dei mandati presidenziali nella Regione era prevista una sola possibilità di deroga: che la chiedessero i membri dell’Assemblea regionale del partito nella misura dei due terzi. Non è accaduto.
Ma l’onorevole Lorenzetti ha le regole in “non cale” e ha fatto finta che sia accaduto. Ha dichiarato: “Sono disponibile a sacrificarmi per la terza volta. Per favorire la nascita di una nuova classe dirigente”. Né ha bloccato l’irregolare raccolta di firme per la sua terza candidatura. Qualcuno dei suoi supporter ha cominciato a cavillare: “Il primo mandato non conta. Era col vecchio Statuto regionale”. Argomentazione ridicola, ma sufficiente ad impedire, in un organismo politico spaccato quasi esattamente a metà, che la candidatura Lorenzetti venisse immediatamente cassata perché irregolare.
Intanto, uno degli oppositori più prestigiosi nel Pd umbro, il deputato Agostini, già sottosegretario nel governo Prodi, per evitare che la Lorenzetti rimanesse in corsa da sola, ha presentato la sua candidatura.
Poteva essere un’utile contributo alla ricerca di una soluzione unitaria. I nomi possibili, oltre ad Agostini, potevano essere tanti, ciascuno con una sua connotazione: da Sereni a Marini, da Stramaccioni a Bracco, da Bocci a Bottini. Ma la “zarina” non demorde: vuole arrivare alle primarie e vincerle. E, se si faranno, è assai probabile che accada. Il vincolo dei due mandati è stato fissato proprio per questo: per impedire che la popolarità derivante dal ruolo di presidente crei monarchie a vita e incrostazioni di potere.
Ma delle norme e delle loro finalità ai “lorenzettisti” non importa un fico secco e sperano che a Roma Bersani e D’Alema diano una mano a lasciare svolgere le anomale primarie. Ripetono paro paro il vecchio adagio berlusconico: “Le regole non contano a fronte del consenso popolare. Vogliamo vedere chi oserà invalidare le primarie quando Rita le avrà stravinto”.
d'accordo salvatore, ma la questione è che cavolo di partito è un partito in cui si può regnare a dispetto delle norme
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