14.2.10

Franco Fortini. Il marxismo come ricerca e moralità (S.L.L. .- marzo 1998)

Riprendo qui, con un diverso titolo, la recensione di Obbedienze, il primo volume degli scritti fortiniani su "il manifesto", già pubblicata su "micropolis" del marzo 1998. (S.L.L.)

Franco Fortini con Pier Paolo Pasolini
Una obbedienza è il titolo di una raccolta poetica di Franco Fortini, pubblicata nel 1981. Il mondo vi appare come una "discarica" e in esso dominano la "strage" e la "morte", un "teatro della crudeltà" sulle cui scene il gioco degli inganni e degli autoinganni esaspera lo strazio. L'illusione è impotente, può solo rendere "deserte" le scene del mondo. Per questo Fortini all'amico-nemico Pasolini, appena morto, grida: "Nulla ti fu mai vero. Non sei mai stato". Del poeta assassinato resta l'urlo: "Tu mostruoso gridi./Così le membra dello squartato sul palco".
In queste stesse poesie compaiono, tuttavia, altre parole d'ordine: "coscienza", "leggere", "sapere", "non dormire". Il sonno è parente della morte, proietta nel gorgo dell'incoscienza, non assicura alcuna onniveggenza futura. In un momento in cui l'ideologia della disintegrazione del soggetto (non solo sociale e politico - la classe, il partito - ma anche individuale) si diffonde nella sinistra e proprio i movimenti "emergenti" ne esaltano la potenza liberatrice, Fortini dichiara la necessità del leggere e del capire, della coscienza che sola costruisce o ricostruisce l'identità. E' questa l'obbedienza che l'intellettuale marxista, poeta o non poeta, deve primariamente a se stesso.
Il titolo che la Manifesto-libri ha dato al volume che raccoglie gli interventi di Fortini sul quotidiano comunista dal 1971 al 1985, Disobbedienze, mi pare per questo sbagliato. La criticità di Fortini può apparire insistente e petulante, ma non è pinocchiescamente disubbidiente. Si disobbedisce solo se si accetta una fonte normativa a cui si deve, o si dovrebbe, obbedire. Fortini, al contrario, è quasi religiosamente fedele ed ossequiente, ma ad una diversa autorità, ad una cultura e moralità altra rispetto a quella dell'ordine borghese o anche delle istituzioni date del movimento operaio e/o comunista. L'ospite ingrato è il titolo di un magnifico diario di poeta e di marxista che Fortini compose nel '66 alternando testi epigrammatici, talora pungenti, talaltra feroci, con pagine di prosa teorica rigorose e radicali. Ospite ingrato Fortini fu anche de "il manifesto", nel senso specifico in cui egli usò la formula, ingrato non già per i suoi sberleffi, o per le sue invettive, ma per il suo andarsene senza salutare, per il suo costante non sentirsi a casa propria. Da questo atteggiamento forse scaturiscono le tensioni e le rotture che segnarono la sua collaborazione al giornale, molto ben ricostruita e raccontata da Rossana Rossanda nella prefazione al volume.
Assai vario per ciò che concerne i "generi" (l'articolo, l'intervento, la recensione, il breve saggio, la lettera aperta, qualche testo poetico) Disobbedienze si segnala per una straordinaria coerenza. Fortini è in primo luogo marxista critico, cioè marxista autentico, e non accetta preconcette ortodossie, né vecchie né nuove. Nemico di ogni determinismo egli concepisce il marxismo come ricerca, ma anche come moralità: perciò pretende che esso si riappropri della capacità di parlare ai e dei disperati, che aveva perso da Lenin in poi, esige che anche la "compassione" diventi una delle sue ragioni fondative. Questo suo bisogno di indignazione non gli impedisce di polemizzare aspramente contro il populismo, contro ogni sciatteria teorica e linguistica.
In uno dei tre articoli dal titolo Scrivere chiaro del 1974 afferma: "Parla più semplice, sono un operaio, non ho studiato, io. Questa frase, anche quando rispecchiava una situazione vera mi è sempre parsa in malafede. Un po' perché spesso, a lamentare l'incomprensibilità sono gli studiati, quelli che, per parte loro, hanno capito benissimo ma prevaricano sull'interlocutore preoccupandosi, o fingendo di farlo, per gli altri. Ma soprattutto perché la persona che non ha studiato non ha da menar vanto per quella sua condizione. Non è un privilegio, ma nemmeno alla rovescia. Spesso frasi come quelle sono il contrario della coscienza di classe... esprimono risentimento e infine invidia. L'operaio in questione... è già, nell'animo, un piccolo borghese".
Una parte considerevole degli interventi fortiniani su "il manifesto" riguarda la storia del comunismo del ventesimo secolo, Trockji, Mao, Stalin, il dissenso nell'Urss e negli altri paesi del cosiddetto "socialismo reale". Aveva già scritto da qualche parte, con legittimo orgoglio, che non aveva dovuto aspettare il '56, lui, per esibire mostrine antistaliniste. E' ovvio che non aspettasse neanche il '68.
Di Trockij parla nel '73, recensendo un film. Rievocando una visita moscovita in cui una giovane bibliotecaria era arrossita fino alle tempie alla richiesta di un volume di Trockij, spiega come nella Russia sovietica vi fosse, nonostante i livelli altissimi di demoralizzazione, un rapporto più autentico tra parola e azione. Quei libri sepolti negli archivi testimoniavano di una lotta latente per la verità, prima ancora che per la libertà e la persuasione del potere che "la verità smuova i corpi": "Quando gli scritti di Trockij saranno in edizione economica nelle edicole sovietiche, vorrà dire che avranno subito la stessa riduzione a cultura che nelle nostre hanno subito Lenin, Nietzsche, i documenti di Auschwitz e il diario di Guevara. Per agire, la verità si cercherà allora altre vie".
In un ampio articolo su Solgenitsin Fortini mette in luce uno dei punti chiave dell'ideologia stalinista. La sua protesta indignata riguarda i giovani rivoluzionari, che cercano scuse per nascondere dietro la loro condanna dell'umanitarismo piccolo borghese e sentimentale un pericoloso culto della forza. Vengono da qui, spiega Fortini, le recriminazioni contro l'eccessivo interesse per il dissenso sovietico. Non è un pacifista generico che qui parla, è lo stesso che nel comizio fiorentino del '67 per il Vietnam, definito delirante dall'Unità, aveva dichiarato: "Per quindici ani abbiamo chiesto pace/ e quella pace è servita anche/ a permettere che si continuasse e si accrescesse/ la guerra quotidiana di chi ha contro chi non ha"; è lo stesso Fortini che in vari interventi degli anni del terrorismo insiste nel polemizzare contro chi pretende di condannare genericamente la violenza. Ma nel disprezzo verso Solgenitsin egli vede un vizio anche peggiore, quello della rimozione. "Lenin - scrive – ha detto che dovere del rivoluzionario è, anzitutto, spazzare davanti alla propria porta... La faccenda si è che l'Urss è la nostra propria porta". Il messaggio è certamente diretto al Pci, al partito che si proclama erede della Terza Internazionale e non può, pertanto, non chiedersi che cosa sia, come struttura sociale, economica, ideologica ed etica l'Urss, ma anche a quelli che da sinistra contestano il Pci, perché rispondere a questa domanda equivale per Fortini a chiedersi che cosa siamo e che cosa possiamo. E' questo una sorta di leit-motiv fortiniano, una delle sue insistenze. Vi tornerà fino agli ultimi giorni della sua vita, su "il manifesto" ed altrove. Il comunismo, come speranza e come progetto, non ha praticabilità fuori da una comprensione di cosa è successo e di come è potuto succedere, in Russia, in Cina e altrove. Ma su questa sua insistenza tutti cercano di svicolare, nel '75, nell'85 e nel '93, comunisti del Pci, gruppettari, cosisti e rifondatori, e lo giudicano un fastidioso rompiscatole, un inguaribile antipatico, un grillo parlante.
L'altra faccia dell'oblio, l'altra bestia nera di Fortini risulta essere, in numerosi pezzi del volume della Manifesto-libri, il nichilismo filosofico. E' questa la chiave con cui egli recensisce e giudica libri di poesia e romanzi, quella che usa per criticare alcune posizioni dei movimenti emergenti, quello femminista in particolare, ed il movimentismo in generale. Note per una falsa guerra civile è un saggio del 1977 sul Settantasette, feroce contro la linea del Pci, che sembra essersi convertito allo Stato Etico, allo Stato di tutto il popolo, e non sa più dividere, distinguere, individuare amici e nemici, ma altrettanto feroce nei confronti della cultura dell'Autonomia Operaia e delle indulgenze nei suoi confronti che ritiene di scorgere in alcune posizioni del giornale stesso che lo ospita. "La più recente opposizione - scrive - area autonoma (erede di un decennio situazionista) si fonda sul rifiuto di distinguere tra la sfera del sociale come immediatezza e la sfera del politico come mediazione-organizzazione... Vuole coincidere con un 'movimento': come se la vita fosse l'informe. E' il suo tributo alle tragiche coglionerie delle avanguardie. E' il sogno dell'illimitata adolescenza che torna a iproporsi, come nel 1968 e con gli stessi maestri, i surrealisti che non volevano diventare adulti e sono soltanto invecchiati... Chi non vuole essere parte sarà tutto, cioè nulla".
La guerra civile del Settantasette è perciò falsa. Se ci si vuole gassificare, se si vuole essere dappertutto, tutto e niente, se non si vuole essere una parte che si separa dal resto, che individua e nemici, che ne scrive i nomi, che stabilisce le priorità, che è conscia degli obiettivi, si fa un discorso politico di destra, non diverso da quello che svolge il potere con il suo stato etico e di tutto il popolo. Di fronte a posizioni del genere si capisce come crescesse in lui il fastidio.
So, sappiamo, che tanto di Fortini è datato e che molto di quanto ha detto e scritto è inservibile, se lo consideriamo maestro e compagno, se aspiriamo a raccoglierne un qualche lascito è perché ci piace proprio la sua antipatia. Vorremmo che un po' di essa ci accompagni nella nostra lotta mentale per la verità, pur sapendo che la verità fa male in primo luogo a chi la cerca, nella nostra obbedienza a quella che Fortini chiama "una causa antica", nel nostro voler parlare, innanzitutto, della nostra vergogna.
Salvatore Lo Leggiora

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