20.2.10

Il popolo di Seattle dieci anni dopo. Prima puntata

Sono passati poco più di dieci anni da quando, nel dicembre del 1999, debuttava sulla scena politica internazionale il “popolo di Seattle”, termine con cui si indicò il variegato movimento che proprio a Seattle, in occasione dell’incontro del Wto, aveva contestato le politiche e gli interessi che presiedevano alla grande liberalizzazione dei mercati in atto. La denominazione durò qualche mese, mentre il movimento di protesta di diffondeva e cresceva, poi prevalse quella di “no global”. Dal gennaio 2000 fino al G8 di Genova (luglio 2001) è un susseguirsi di proteste, di grandi manifestazioni, di dure risposte militari e poliziesche. Se ne possono scandire le tappe, poiché ad un grande vertice internazionale corrisponde quasi sempre un imponente raduno del “movimento dei movimenti” (altro nome per indicarlo). Aprile 2000: Wahington, incontro del G7. Settembre 2000, Praga, incontro del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Ottobre 2000, Montreal, vertice finanziario dei 20 paesi più industrializzati. Dicembre 2000, Nizza, il Consiglio Europeo. Gennaio 2001, Davos, (Svizzera), Forum dell’economia mondiale. Marzo 2001, Napoli, Global Forum. Aprile 2001, Quebec, riunione di Presidenti e Governatori di Nord, Centro e Sud America. Giugno 2001, Göteborg (Svezia), nuova riunione del Consiglio Europeo.

Il movimento ebbe sempre un carattere assai composito: i più diffidavano delle analisi e delle proposte generali e convivevano seppure con difficoltà due approcci diversi, uno “riformista”, che non rifiutava in sé la globalizzazione ma rivendicava regole e forti interventi correttivi contro i disastri sociali ambientali che sembravano scaturirne, uno più radicale che sia pure confusamente sembrava alludere ad un nuovo ordine mondiale e a un modello di sviluppo radicalmente alternativo. Pubblico qui un ampio stralcio da un articolo sul “popolo di Seattle” di Luciana Castellina, comparso su “la rivista del manifesto” del gennaio 2000. Si tratta di una prima ricognizione, sintetica ma accurata, sul movimento al suo debutto. Proverò a rammentarmi e a rammentare ai visitatori di questo blog nei prossimi mesi le tappe successive del grande movimento antiglobalizzazione con altri articoli e contributi.

*****

Operai e tartarughe

di Luciana Castellina

Avrebbe dovuto chiamarsi il "Clinton Round" perché era stato proprio lui, il presidente degli Stati Uniti, a lanciare con enfasi questo nono negoziato in occasione della cerimonia solenne convocata nel maggio '97 a Ginevra per celebrare il cinquantesimo compleanno del Gatt ormai diventato OMC. Annunciando che la conferenza ministeriale incaricata di fissare l'odg della nuova trattativa per la liberalizzazione di beni e servizi si sarebbe tenuta nel suo paese, sulla riva dell'altro oceano, il Pacifico - quasi a indicare che l'Europa era in fondo solo una potenza regionale - aveva esteso al mondo un generoso invito: "Voglio che chiunque consideri questa una cattiva proposta - aveva detto - venga a vedere".

Come sapete, sono andati. A decine di migliaia. Tanti e diversi, per razza, continente, settore, ceto - "metallurgici e tartarughe", ha scherzato qualcuno, per riassumere gli estremi delle categorie minacciate - quanti non solo il presidente americano ma nemmeno il più utopico militante antiglobale si sarebbe aspettato potessero raggiungere - da dovunque - la lontanissima capitale dell'industria aerospaziale e informatica. E così, nel regno di Bill Gates, il Millennium Round si è trasformato per l'OMC in Millennium Bug. Un'accozzaglia di interessi e protagonisti, simpatizzanti di Pasqua e di Buchanam assieme a zapatisti arrivati dalla Sierra Lacadona, di protettori di animali e gastronomi raffinati, di mormoni e di agricoltori, di "hard cup" (gli operai dell'edilizia che in America portano l'elmetto) e di studenti, di santoni indiani e di militanti della neonata e già grossissima "Giubileo 2000", privi di un linguaggio comune? Una protesta come già tante altre - insomma - solo più grossa e variopinta? O invece un rilevante nuovo fatto politico, che comincia a delineare qualcosa di più che una rivolta, l'embrione di un movimento politico e di - oddio che parola grossa! - un nuovo internazionalismo?

Chi erano, quanti erano

[…]Innanzitutto chi e quanti erano. Circa 60.000 è la cifra del più scientifico dei miei informatori, John Cavanagh, direttore dell'Institute for Policy Studies di Washington e da sempre animatore di battaglie terzomondiste. Così divisi, all'incirca: 20.000 operai, 10.000 ambientalisti, 10.000 studenti, il resto contadini, animatori di nuove battaglie come quella sulla biogenetica e la sicurezza alimentare. Tutti in qualche modo inquadrati: dai sindacati, dalle ONG laiche e da quelle religiose e, naturalmente, una frangia di partiti della variegata sinistra mondiale. 50 violenti, chissà perché dell'Oregon. Tutti ben organizzati, puntuali non solo alle marce ma anche a tutti gli altri appuntamenti delle giornate di mobilitazione: forum multi e bilaterali, manifestazioni dimostrative, persino un banchetto a base di biopane e frutti cresciuti senza fertilizzanti chimici, offerto, nella principale Chiesa metodista di Seattle, dagli agricoltori dello Stato ospitante, quello di Washington, ai loro colleghi europei che hanno portato l'ormai famoso vessillo della protesta: il roquefort del Larzac. E persino un "teach in" - vi ricordate l'espressione sessantottina ormai desueta? - con i tanti, tantissimi "esperti" che avevano deciso di seguire, anche loro, l'evento.

Provenienza: un campione da ogni parte del mondo, ma in gran parte americani, canadesi, messicani e, per l'Europa, soprattutto francesi. L'Economist, ironico, ha scritto: "Le ONG discese su Seattle sono state un modello di tutto ciò che i negoziatori commerciali non sono stati. Erano ben organizzate, hanno saputo dar vita a coalizioni inedite, si sono date un programma preciso, sono state maestre nell'uso dei media". E poi - hanno scritto molti altri - avevano delle "facce", erano insomma umanità e non grigi burocrati senza volto quali quelli che ormai dominano la scena politica. Non è poco, ed è nuovo.

Di sessantottino, a parte qualche reperto, c'era poco, e lo ha riconosciuto, giustamente soddisfatto, Tom Hayden, uno dei leader della grande manifestazione di Chicago, nel '68, in piena guerra del Vietnam, cruentemente repressa dalla polizia. Lui stesso fu arrestato e oggi è uno dei senatori relativamente progressisti della California. Diverso perché questa volta c'erano gli operai, con i loro sindacati; e il presidente dell'AFL CIO ha anzi persino condannato gli agenti di Seattle per l'assalto ai dimostranti. Non solo c'erano, sono stati lo zoccolo duro delle manifestazioni nelle quali - e forse per la prima volta - si sono incontrati con migliaia di studenti alle loro prime prove (e si vede che tali erano dal senso di scoperta che emana dalle decine di cronache che in tempo reale - santa Internet - hanno scritto sui loro giornaletti di campus on line).

L'incontro fra studenti e operai, che qui in Europa fu, sia pure solo e soprattutto in Italia, un tratto del '68, negli Stati Uniti non si era mai verificato. Questa prima volta sembra essere piaciuta agli uni e agli altri, anche se paiono tuttora essi stessi sorpresi che un dialogo si sia potuto allacciare. ("Siamo impressionati dall'impegno degli studenti" - ha dichiarato Gary Hubbard, dirigente del sindacato siderurgici). Politicamente, il nuovo rapporto fra fabbrica e campus universitario, americani da ambo le parti, sebbene significativo, era comunque più facile: contraddizione di interessi in fondo fra due gruppi non ci sono, solo di cultura e esperienza. E generazionale, i militanti sindacali essendo ormai quasi tutti anziani come le loro fabbriche, quel che resta del lavoro tradizionale in alcune regioni del nord.

Più difficile intendersi con gli ecologisti, per via del modello di sviluppo, anzi dello sviluppo in sé. È lo stesso problema che abbiamo anche da noi ma qui a Seattle una saldatura c'è stata e si è verificata sul terreno specificamente politico: il fastidio per un organismo, l'OMC, e i suoi metodi arcani di decisione, che espropriano il potere decisionale democratico assai di più di quanto già non avvenga normalmente per opera delle istituzioni nazionali.[…] Più difficile ancora intendersi con coloro che sono venuti dal sud del mondo. Qui il conflitto è oggettivo e duro, non dipende dall'età, dai gusti, dal modo di vestirsi e di parlare. Riguarda un bene primario come il lavoro, che gli americani si vedono portar via da concorrenti bambini pagati un centesimo del loro salario, che certo vorrebbero poter invece andare a scuola e guadagnare di più, ma sanno che se non mettono in campo quello che in gergo viene chiamato "vantaggio comparativo", e cioè un prezzo miserevole della loro forza lavoro, rischiano di non avere più niente di niente.

Gli operai

Il fatto significativo di questa avventura di Seattle è però che un colloquio fra lavoratori del nord e del sud si è avviato. Ancora ingenuo, confuso, ma il problema è stato riconosciuto e ci si è sforzati di trovare una soluzione attraverso un rapporto diretto fra lavoratori, non mediato fra i rispettivi stati e soprattutto dalle multinazionali. "Ha contato - raccontano americani e canadesi - l'esperienza compiuta in questi anni di NAFTA (North American Free Trade Area), l'accordo di libero scambio combattuto fino all'ultimo e con ragione che ci ha spinto, in una seconda fase, a ricercare un'intesa con i lavoratori messicani. Non facile, perché i sindacati ufficiali di quel paese sono molto manipolati dal partito di governo, gli altri - nelle zone della "maquilladora" (al confine, dove sostanzialmente si assemblano le merci) - debolissimi e ricattati. Comunque: ci si sta provando e dei tentativi si può leggere su una nuova e interessante rivista sindacale Labour notes.

È il frutto di un certo rinnovamento del sindacato americano giunto negli anni '80 al minimo storico dei suoi iscritti e del suo prestigio, dilaniato dagli scandali. Oggi una nuova vena militante è cresciuta e ne è espressione John Sweeney, che Christophe Aguiton (segretario di SUD, il sindacato di sinistra francese che in pochi anni ha saputo costruirsi credibilità e persino un rinnovato legame con le vecchie centrali) definisce "una frazione progressista della burocrazia sindacale americana". Mi racconta - a proposito di Seattle - soprattutto del nuovo atteggiamento della AFL CIO, certo animata da protezionismo corporativo, ma che sta a suo parere superando questo limite per porsi il problema degli altri. Di qui l'intenzione, annunciata a Seattle, di cominciare ad usare il danaro della propria ricca organizzazione per rafforzare il sindacalismo dei paesi del terzo mondo, denaro che a lungo era stato in passato destinato ad alimentare sindacalismo giallo e anticomunista. "Dobbiamo costruire un'alleanza internazionale progressista, dobbiamo trovare un accordo fra lavoratori non coi rispettivi governi gli uni contro gli altri" - dichiara Thea Lee - dirigente della AFL CIO. "Non possiamo consentire che gli operai americani si trovino a competere contro bambini venduti come schiavi per 16 ore al giorno".

[…] Qualche proposta concreta è già stata delineata, in dialogo con gli "esperti" del movimento. Non accettare supinamente gli standard sociali indecenti dei paesi in via di sviluppo ma opporre all'ipotesi clintoniana delle sanzioni punitive, o comunque dei pelosi decaloghi imposti dall'alto e dal di fuori da qualche vate dei "diritti umani", l'azione positiva. Dice in proposito Susan George: "Si potrebbero stabilire degli standard differenziati - che mettano in conto i livelli salariali, le condizioni di lavoro e le libertà sindacali - in rapporto al livello di sviluppo di ciascun paese e imporre alle organizzazioni internazionali di elargire incentivi finanziari a quei paesi in cui essi vengono rispettati. La Tobin Tax potrebbe alimentare un Fondo a questo scopo. "Si potrebbe anche definire un sistema di eccezioni temporanee dalle regole dell'OMC per i paesi più arretrati" - suggerisce Vandana Shiva. Mentre da lontano Jaques Delors suggerisce la creazione di un "Global Economic Security Council", che in fondo riproporrebbe per l'OMC il modello originario, quando l'organismo si chiamava ITO ma la sua Carta costitutiva non fu mai ratificata dagli Stati Uniti e, più in generale quel complemento alle istituzioni di Bretton Woods che Keynes avrebbe voluto ma non fu mai dato seguito alle sue richieste. Sempre da lontano - e segnatamente dalla Francia, il più sensibile dei paesi europei a queste tematiche - Jacques Attali, ex autorevole consigliere di Mitterrand e ex presidente della BIRD, scende in campo per proporre alle ONG di battersi per una "planet governance", che fornisca un corpo certo di norme da rispettare internazionalmente, analogo alla già esistente "corporate governance", che rende trasparente e controllabile l'azione delle società rispetto ai propri azionisti.

Di queste cose si è già parlato nel "teach in" tenuto a Seattle alla vigilia della manifestazione, due giorni fitti di discussione con 3.000 persone presenti ed attentissime da cui è uscita una rete permanente di una sessantina di esperti di venti paesi diversi[…].

L'iniziativa alternativa è riuscita ad influenzare i protagonisti ufficiali della Conferenza WTO. Senza la "strada" i rappresentanti dei paesi in via di sviluppo non avrebbero avuto il coraggio di reagire. Invitati a pranzo da Clinton il primo giorno del summit, i 135 ministri avevano dovuto aspettare riverenti più d'un'ora, fermi innanzi al loro piatto per ragioni di sicurezza, perché il presidente era in ritardo. Il senso simbolico di questo incidente è stato rovesciato nei giorni successivi quando, compatti, i ministri del terzo mondo hanno letto il comunicato nel chiuso di una delle loro riunioni non ufficiali, le cosidette "invisibili". "La strada - ha detto il cileno Juan Somavia, che non è un signore qualsiasi ma il direttore generale del BIT (Bureau international du Travail) - ben più dell'aula ha attirato l'attenzione sui perversi effetti sociali della mondializzazione di cui con l'Uruguay round non ci si era occupati". In queste condizioni la timidissima proposta europea di convocare un Forum, fra nientemeno che due anni, in cui siano presenti sia l'OMC che il BIT, è stata ridicolizzata.

Tutto bene, dunque? A sentire Vandana Shiva, per anni alto funzionario della Banca Mondiale, tutto è stato straordinario. Al telefono non riesco a contenere la sua emozione. "Per la prima volta siamo riusciti a mettere il problema lavoro nelle mani di chi lavora. L'atmosfera di Seattle, credimi, era davvero straordinaria".

Le credo. Mentre non credo a chi ha cercato di ridurre tutto a una manovra elettorale di Clinton per conquistare al delfino Al Gore l'appoggio della forte lobby sindacale, sacrificando così il suo summit mondiale alla più prosaica preoccupazione della campagna elettorale. Se c'è infatti una cosa chiara che è uscita dai giorni di Seattle è proprio il rifiuto, che sembra condiviso anche dai sindacati Usa, delle sanzioni di rappresaglia proposte dal presidente americano e l'ipotesi che debba essere l'OMC a decidere degli standard sociali.

I contadini

[…] Infine i contadini. Josè Bové è stato nei media l'eroe e il demone delle giornate di Seattle: il basco, i baffi e la fragranza del suo formaggio, così francese e simile ad Asterix ne hanno fatto infatti il simbolo della vecchia Europa ostinata e conservatrice. Per molti versi si può ben dire che la protesta dei coltivatori europei contro la piena liberalizzazione del commercio agricolo era quella più omologata all'iniziativa ufficiale dell'Unione impegnata ad impedire il completo smantellamento della PAC. E però non è proprio così perché il movimento animato da Bové è riuscito a dialogare con "Via campesina", con le organizzazioni dei piccoli coltivatori anche dei paesi del gruppo CARINS, i grandi esportatori di grano (fra cui gli americani del sud e del nord, australiani e neozelandesi) che si battono per far saltare qualsiasi forma di sussidio alla produzione agricola degli altri paesi (ma negli Usa queste esistono e importanti - 7 miliardi di dollari nel '97, 22, sembra, per il '99 - elargite in forme diverse e meno appariscenti). Il fatto è che, come del resto accade, sia pure in misura minore, in Europa, i vantaggi delle esportazioni sono delle grandi aziende del settore, negli Stati Uniti (346.000 che producono l'87,4% del prodotto totale), "l'OMC vorrebbe farci credere che siamo in competizione fra noi - ha detto il ministro dell'agricoltura dello stato canadese della Colombia britannica, uno dei politici ufficiali che si è incontrato con la "strada" - invece stiamo tutti dalla stessa parte contro le multinazionali che dominano il commercio mondiale".

Non è proprio ancora così, perché il conflitto resta e anche questo è molto nord-sud, i paesi del terzo mondo avendo poco più che i loro prodotti agricoli da esportare. Ma il punto su cui una certa unità si è costruita è più profondo: riguarda il diritto di coltivare cosa meglio si crede, di rifiutare le monocolture intensive imposte dal neocolonialismo e dai ceti compradori, e soprattutto di non veder stravolta la propria fisionomia geografica, il proprio paesaggio, da decisioni prese dall'alto. La difesa della diversità della fauna e della flora, e dunque degli alimenti; la ricchezza delle sementi, distrutte a migliaia ogni anno dall'invadenza di quelle geneticamente manipolate che, se aumentano la produttività in certe zone distruggono le barriere della sicurezza alimentare nella maggioranza delle altre, hanno offerto un nuovo livello di dialogo internazionale ai piccoli coltivatori. Si sta scoprendo che la terra è assai più che produzione e che chi la coltiva non conta solo per quanto vende sul mercato, ma perché è insieme guardiano dell'ambiente - dei boschi, dei corsi d'acqua, dei muretti, dei cigli erbosi, delle vecchie cascine - e della natura. Dalla Francia vengono le prime applicazioni della nuova consapevolezza che ha portato la stessa Unione europea a parlare del coltivatore come di un "lavoratore multifunzionale". Proprio nei giorni di Seattle sono stati firmati negli alti Pirenei i primi quattro "Contratti territoriali di sfruttamento", un aiuto pubblico a chi presenta un progetto di "occupazione intelligente del territorio". La terra, insomma, non riguarda solo l'economia, perché - come la cultura - è anche memoria dei popoli, immaginario collettivo, storia. La geografia, a dispetto della globalizzazione che annulla gli spazi, riprende i suoi diritti. E così si spiega perché i contadini, sebbene ormai proporzione quasi irrilevante in ogni paese moderno (negli Stati Uniti sono passati in quarant'anni dal 20 all'1,9%) abbiano un peso politico che va ben al di là dei numeri. E che - proprio su motivazioni extraeconomiche - abbiano potuto individuare un terreno d'intesa a Seattle.

Chi ha vinto, chi ha perso

Un nuovo fantasma si aggira dunque per il mondo, le ONG, consumatori che rifiutano di essere tali e vogliono essere cittadini (è significativo che Ralph Nader abbia scelto ora di chiamare il suo movimento Public Citizens), produttori che vogliono decidere; ecologisti che se ne infischiano delle paventate compatibilità governative dei partiti verdi europei, autorevoli associazioni del grande mondo della produzione culturale e audiovisiva che vogliono giocare in prima persona. Secondo lo Yearbook of International Organizations sarebbero oggi 24.000, nel '90 erano solo 6.000. Reclutano a ritmo sostenuto: a Tolosa, in Francia, solo la neonata Attac ha fatto in poche settimane 700 iscritti, negli Stati Uniti complessivamente contano 2 milioni di aderenti, il 70% sotto i 30 anni, in India sono un milione. Non hanno leadership mondiali consolidate, perché la loro struttura è a rete. Ma attenzione: il loro successo nasce dall'aver preso nettamente le distanze - almeno quelle che oggi svolgono una funzione di punta - dallo spontaneismo e dal basismo. Segnano dei punti perché hanno saputo costruire alleanze, perché hanno scelto di negoziare con le istituzioni, non di ignorarle, proponendosi obiettivi tattici, che cominciano a definire con grande precisione, perché sanno utilizzare gli intellettuali, quelli "organici", ma anche quelli più distanti che cominciano a riflettere criticamente verso i processi che pure loro stessi hanno evocato. Hanno avuto il merito di scoprire, con anticipo rispetto ai partiti politici che piangono solo per la loro impotenza nell'era della globalizzazione, l'importanza delle istituzioni mondiali come controparte decisiva, quel terreno come il più urgente su cui scendere. Hanno denunciato la privatizzazione più grave oggi in atto, quella della politica, e cioè di un mondo in cui le leggi anziché esser fissate dai parlamenti vengono definite dagli accordi commerciali fra le grandi aziende, cui si è lasciato spazio perché costruissero persino i propri privati organi giudiziari. Hanno denunciato ma anche proposto e interloquito. È un ritorno alla grande della politica. Non solo: per la prima volta la contestazione della globalizzazione non sta prendendo la forma del ripiegamento identitario sul proprio locale.

Con il suo tradizionale rigore contabile l'Economist si chiede chi, in ultima analisi, abbia vinto o perduto a Seattle. Per ora non si può dire perché la partita resta aperta anche se adesso, dopo la trasferta americana, il ring torna a Ginevra e il match sarà lungo ed oscuro. Una cosa è però certa: a vincere, dopo molto tempo, è stata la politica.

Un grande perdente, comunque, c'è sicuro: è il neozelandese e neodirettore generale dell'OMC John More, ex primo ministro del suo paese. E non solo per la catastrofe del suo debutto a Seattle, ma perché proprio negli stessi giorni in patria ha vinto le elezioni, dopo 30 anni, una coalizione "davvero di sinistra" - scrivono i giornali - fra l'ala progressista del vecchio Labour e partiti che potremmo definire di "nuova sinistra" che hanno fra l'altro portato in parlamento, su 120 deputati, 16 mahori, 35 donne, 2 omosessuali militanti, il primo transessuale giunto a una simile carica, Giorgina Bertrand ex George. Una dimostrazione che il globo è vario e non omologabile.

Tutto questo sarebbe stato possibile senza Internet? No. Ma. Il discorso sulle nuove tecnologie della comunicazione nella politica della nostra era, sul loro ruolo ambivalente, molto diverso comunque da quello assunto finora dalla televisione, è troppo complesso per farlo in coda ad un articolo.

Nessun commento:

Posta un commento