11.2.10

Il tratto del maestro. Un’intervista a Leonardo Sciascia (Nico Perrone - “il manifesto”, 5 dicembre 1978)

Minuto, dritto, guardingo, ma al tempo stesso caldo, premuroso, pronto ad aprirsi, senza la prosopopea del personaggio, la sigaretta sempre accesa, un vestitino rigato provincia meridionale anni Cinquanta: Leonardo Sciascia appare così, in albergo, vicino alla stazione Termini. Un maestro di paese fattosi scrittore di fama europea; ma che dell’umanità, del tratto del maestro conserva tanto. L’avvio del discorso è banale, come può succedere quando ci si è appena conosciuti. Vorrei sapere come scrive, lui scrittore così forbito, se a mano o a macchina.

Scrivo a macchina da quando me lo sono potuto permettere, nel 1947. Lavoravo all’ammasso del grano. Ho poi fatto un concorso nel 1948, per la scuola. Senza soluzione di continuità, nello stesso paese, Racalmuto, prima ho visto i padri, poi i figli. E’ stata molto importante l’esperienza all’ammasso del grano perché mi ha fatto conoscere il mondo contadino. Mio padre era contabile nella zolfatara, mio nonno era stato caruso, poi è andato a scuola da un prete ed era riuscito a divenire intermediario fra i gestori e una specie di finanziatore, lo “sborsante”. Qualche parente era andato ai carabinieri e nella pubblica sicurezza: la fuga possibile era l’arruolamento. Lo zolfataro era come se reagisse all’antica condizione del contadino da cui usciva. Il contadino era prudente, avaro, rassegnato. Lo zolfataro era rissoso, scialacquatore: in un certo senso amava le cose belle, si faceva una casa un po’ diversa da quella del contadino. Anche l’ideale femminile dello zolfataro era diverso. Per il contadino la bellezza femminile si doveva paragonare alla cassata, “una donna che pare una cassata”, appariscente, con bei colori, una specie di ritratto della salute. Mentre lo zolfataro diceva: “Una donna che si può bere in un bicchier d’acqua”, cioè una bellezza trasparente. In un certo senso quello che ha capito meglio il mondo della zolfatara è stato lo scrittore Rosso di San Secondo.

Ma la donna del contadino e quella dello zolfataro non erano proprio protagoniste.

La donna ha avuto un potere nascosto e segreto. Anni addietro, quando ho detto questo, delle femministe mi sono saltate addosso. Era un potere decisionale esercitato subdolamente, quasi senza farsene accorgere. Tutta la letteratura siciliana ha dato documentazione del potere della donna. A guardare gli atti di tanti processi, specie per delitti d’onore, ci si accorgerebbe che le donne mogli spesso sono state vittime delle donne suocere. Il potere delle suocere e delle zitelle della famiglia è stato terribile. La donna è stata al tempo stesso vittima e tiranna.

Una sorta di matriarcato, dunque?

Sì, un matriarcato sotterraneo, in cui la donna praticamente si vendicava di tutto quanto subiva da giovane, esercitando da anziana quel potere di cui era stata vittima.

Una donna-oggetto solo nella fase giovanile?

Solo nella fase giovanile, sì. Era un mondo dominato dalle donne: quelle che alla fine del ‘700 era la Grenoble di Stendhal, era per me la Sicilia degli anni ’20 e ’30.

E ora che cosa è cambiato?

Ma è molto diverso. Insomma, ora è come dovunque.

Vuol dire che alla donna si riconosce non solo un ruolo, ma una parità nei comportamenti della vita?

Sì, si è accettato, anche a livello del mondo contadino. Anche se i contadini non ci sono più. Sono in Germania, in Venezuela, e le donne hanno le funzioni che erano dell’uomo. Anche la donna casalinga è costretta ad andare nelle banche, ad andare negli uffici per tutto quello che faceva l’uomo.

In Sicilia, oggi, la donna ha dunque la sua libertà?

Se la deve necessariamente prendere; è perfettamente naturale. Esistono ancora delle remore, per cui può scoppiare ancora il fatto di sangue, ma è un retaggio del passato.

Abbiamo davanti agli occhi i giornali. Sciascia ne scorre uno e lo lascia andare bruscamente. Rimpasto governativo, bordate di Craxi, processo di Catanzaro.

La lettura dei giornali mi dà fastidio, mi mette di cattivo umore. Preferisco leggerli a Parigi, i giornali; lì quelli italiani arrivano in ritardo, e attraverso la mediazione staccata di “Le Monde” tutto mi sembra addolcito.

Un quotidiano porta un articolo sul suicidio di massa in Guyana. Non è un sintomo significativo, un effetto drammatico dell’angoscia, dell’impossibilità di una vita per i giovani in questo mondo, un fenomeno che dall’America potrebbe domani dilagare fino a noi?

Qui sta avvenendo un suicidio della stupidità: una cosa che mi fa spavento. La punta più acuta di questo avvertire è la fine nel senso di pietà che ho guardando i bambini. Io ho tre nipoti. Molto graziosi, molti divertenti. Però non posso fare a meno di considerare che io sto meglio di loro avendo 57 anni, e quindi mi prende una specie di struggimento, di pena. Al tempo stesso i viene di fare qualcosa perché loro si sottraggano a quel destino che io non posso fare a meno di vedere. Credo che sia difficile oggi, a uno della mia età, dire: vorrei avere vent’anni; uno non li vuole avere. Ridotto all’essenziale, mi pare che questo sia il dramma inedito dell’uomo. Non credo ci sia mai stata un’epoca in cui uno della mia età dicesse: “Sono felice di avere l’età che ho!”. Questo vuol dire che anche noi, anche io, anche la mia generazione entra nell’orbita suicida.

Forse omicida, perché questo l’abbiamo determinato noi.

Sì, sì, andiamo al problema delle responsabilità. E allora si impongono delle distinzioni. Bisogna vedere chi ne ha di più e chi ne ha di meno di responsabilità. Così, tanto per fare un esempio, per restare nell’area della letteratura italiana dei nostri anni, uno scrittore come Brancati secondo me è il meno responsabile di tutti. Quello che ha sbagliato di meno. E tutti gli altri no, compreso me. Abbiamo commesso una quantità di errori, abbiamo avuto una quantità di miti sbagliati, abbiamo taciuto tante verità in omaggio a quella che ritenevamo la verità suprema.

E qual è la verità?

Il mondo dell’avvenire. Il mondo della giustizia.

Il partito?

Il partito. Io non sono mai stato comunista, però ho pensato e agito molto secondo il comunismo. E ora siamo arrivati alla stretta finale. Ora siamo arrivati al punto che si può coniare uno slogan elettorale – se negli slogan fosse possibile dire la verità – “non c’è che la sinistra per una buona politica di destra”.

Il discorso cade sulla classe politica, sulla divaricazione fra paese reale e paese ufficiale.

Si è vista alle votazioni, questa divaricazione!

Chiedo a Sciascia se questa divaricazione non si sia fatta più profonda perfino rispetto a certi momenti del fascismo.

Sì, è vero, certo. E’ sempre più vero. La gente non si riconosce più nei partiti. E perché dovrebbe riconoscervisi? Questa difesa di corti morte! Il Parlamento, per esempio, che cos’è? Mi dicono che è sempre vuoto. Io ho visto un consiglio comunale. E’ una riunione di persone che parlano d’altro rispetto ai reali problemi che dovrebbero affrontare. Il fatto che cominci con ritardo, per esempio. Il consiglio comincia due ore dopo: significa che il consiglio non ha nessuna importanza, insomma. Rientra in una specie di strategia da una parte, di consapevolezza di non servire a nulla dall’altra.

Dilungarsi sul caso Moro mi pare inutile, dopo tutto quello che Sciascia ha scritto e dichiarato su questo argomento. Ma qualche curiosità rimane. Gli chiedo perché nell’ “Affaire Moro” egli abbia avanzato l’ipotesi che Moro fosse prigioniero in un’ambasciata.

Faccio l’ipotesi che Moro abbia creduto di trovarsi in un’ambasciata.

Quali elementi avevi per crederlo?

Non avevo elementi, no. C’è però stato un lettore che ha scritto una lettera interessante proprio su quella frase di Moro del “dominio pieno e incontrollato”. Certo che era incontrollato! Chi poteva controllare le BR? Quindi il lettore fa l’ipotesi che il “con” possa passare davanti a “dominio”, e diventare “condominio”. Allora “incontrollato” avrebbe un senso. Sono ipotesi, così! Ma credo che dal punto di vista poliziesco queste lettere potessero essere interpretate meglio, essere lette con attenzione.

Del ruolo di Andreotti, invece, cosa pensi? Che impressione hai avuto del suo cinismo, della sua freddezza?

Debbo dire che Andreotti non mi piace. Non mi è mai piaciuto. Non credo nemmeno che sia l’uomo di grande intelligenza celebrato anche dai comunisti Ha gestito il caso Moro così come Moro ha detto. Ma non credo che la forza a tramutarlo in un buon affare – come si esprime Moro – sia stata interamente sua. Se non avesse avuto dietro il Partito Comunista, credo che sarebbe stato, secondo la sua natura, un po’ elastico.

Ma Andreotti, Moro, lo voleva morto?

Credo che ad un certo punto tutti inconsciamente lo volessero morto. Tutti quelli che stavano per la fermezza dello Stato.

Pensi che i documenti apparsi dopo la pubblicazione del tuo libro debbano farti rivedere qualche giudizio?

No, per nulla. No, assolutamente no. Certo avrei voluto conoscere il memoriale, mi avrebbe interessato molto, ma soltanto per dare più ricchezza alla figura di Moro. Io trovo sublime quella frase del memoriale di Moro, quella frase in cui dice che i democristiani li perde con gioia e si augura che con la stessa gioia li perdano gli altri. Cioè, penso che sia un augurio per il popolo italiano.

Fra l’altro, la DC ha rivelato un volto nettamente antidemocratico, durante la vicenda Moro. Hanno deciso in pochissimi, senza convocare il consiglio nazionale.

Credo che tutto sia stato vissuto più come un golpe che come una linea. Io proprio alla vigilia del ritrovamento del cadavere di Moro ho parlato con un democristiano che, in termini numerici, può rappresentare un decimo del partito, ed era uno per la trattativa; era sconvolto da quello che stava accadendo nel partito, e non era mai stato consultato.

A proposito di Moro, il Moro politico, non quello prigioniero, ricordo allo scrittore una sua intervista al “Corriere della Sera”. Egli definiva Moro un uomo che credeva nella democrazia e nella dignità umana. Moro, gli rammento, era quello della “comprensione” per il genocidio americano in Vietnam, quello della copertura al SIFAR, quello degli omissis, quello della copertura dei corrotti democristiani nel caso Lockheed.

Nell’ambito della DC credo che fosse diverso dagli altri. Quella mia affermazione sul “Corriere della Sera” corrisponde a un convincimento reale da relativizzare all’interno della DC. La prova mi pare stia nel fatto che è morto. Egli crede nella democrazia italiana, ma agisce in un contesto che non è per nulla democratico. Quindi c’è un divario tra quello che fa e quello che pensa.

Ma cos’è quello che pensa?

Tutto sommato viene fuori chiaramente in questi 55 giorni di prigionia. Ma il fatto è che da 30 anni di vita italiana sono in questa doppiezza fra quello che si pensa e quello che si fa.

Moro fu quindi un po’ meno democristiano di quel che disse al “Corriere della Sera”?

Ah, certo, sì. Il mio giudizio su Moro politico credo di averlo espresso chiaramente nel libro. Revel, su “l’Express” dice che non sono andato a fondo nel dire della nullità di Moro e della miseria della vita politica italiana. Ma io non credo di non averlo detto, questo. Certo Revel, da un punto di vista francese, vede Moro molto più inconsistente politicamente, e la vita politica italiana più misera. Io mi sono trovato di fronte, mentre lui guardava dall’alto.

Sciascia, di palo in frasca: perché una tua novella è apparsa su “Playmen”?

Qualche anno fa “Playmen” mi ha chiesto un racconto. Anche “Playboy”, glieli ho dati a tutti e due.

Ma perché?

Non ho riserve rispetto a questo tipo di pubblicazioni.

Ma ti sembrano repressive?

Ma non tanto. Mi sembravano semplicemente consumistiche, ecco. Però uno come Valobra, per esempio, su “Playmen”, scrive cose che difficilmente si leggono sulla stampa italiana. Cose di un’insofferenza, di un coraggio notevole. Poi mi ha divertito molto pubblicare su questi due mensili dei racconti che in un certo senso rivoltano gli intendimenti delle riviste stesse.

E la tua collaborazione al “Corriere” di Di Bella?

E’ un po’ un atteggiamento polemico, direi, nei confronti della stampa italiana. Ho scelto sulla base del giornale che ha più lettori. Non vedo perché avrei dovuto scrivere su altri giornali: sono tutti uguali.

Sul “Corriere” rammentasti di aver scritto a Giuseppe Sirchia, prima che fosse assassinato dalla mafia. Dicevi di averlo esortato “a dire davanti ai giudici che lo condannavano, ai giornalisti che lo intervistavano”, a te, “come uomo che scriveva sui giornali, le cose cui alludeva, i nomi che taceva”. Ma tu di queste cose, di questi nomi, ne conosci? Li hai mai denunciati nei tuoi scritti? Se non lo hai fatto, perché?

La spiegazione si trova nel mio libro. Ne “Il Giorno della civetta”, nella nota finale. Io ho sempre temuto la querela più che la lupara. Perché quando si ha un nome si è sempre chiamati a risponderne davanti a un giudice. E il risultato è una condanna per chi lo ha fatto e una patente di non mafioso per colui che si è querelato. E allora non ne vale la pena.

Allora Sirchia aveva ragione a starsene zitto?

Se invece Sirchia avesse detto qualcosa, e io lo avessi diffuso, saremmo stati querelati tutti e due; e sarebbe valsa la pena affrontare il rischio, che poteva anche risolversi in un’assoluzione.

Quell’uomo sapeva veramente?

Eh sì, lui sapeva veramente.

E l’esperienza nel PCI?

Un’esperienza consolidante. In un certo senso mi aveva entusiasmato questa faccenda di entrare, Guttuso ed io, nel consiglio comunale di Palermo.

Non hai l’impressione di essere libero rispetto ai condizionamenti dell’industria culturale dei librifici, perché sei uno scrittore che “vende molto”?

Sì, certo, perché vendo. Ma cercando di infamarmi, visto che non possono censurarmi. Lo sai che l’ANSA, a proposito dell’“Affaire” aveva diffuso la notizia che avevo ridotto il libro a 146 pagine rispetto alle 250 annunciate, insinuando chi sa che, e dicendo che era in giro una seconda edizione senza che mai fosse circolata.

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