7.2.10

Per il centenario di Andrea Costa (Imola 1851 - Imola 1910). Con Bakunin.


"Si combatteva. Ma non si odiava"
Operai! Lavoratori! Solo operai? Solo lavoratori? Il nostro problema era umano. Lo ponevamo umanamente. Era l’uomo. L’umanamento dell’uomo. Sulla nostra educazione, sulla nostra formazione come capacità intellettuale, come uomini, il rivolgimento morale avvenuto in tutto l’essere nostro aveva ampliato la nostra facoltà di abbracciare e di rinchiudere in noi l’universo. Tutto: l’universo finito e l’universo materiale. Era la fine dei pregiudizi delle strettezze. Tutto si poteva, si doveva comprendere, spiegare, perdonare. Si combatteva. Ma non si odiava. Non si disprezzava. Era questione di ambiente. La nostra azione era purtroppo limitata dalle circostanze della vita. Ma la nostra proiezione era infinita. Cittadini del mondo e dell’avvenire…
(dai Ricordi autobiografici di Andrea Costa)


"Proletari d'Italia, avanti, avanti"
Udimmo il grido dei comunardi morenti e non esitammo a metterci sulla via sanguinosa. I derubati, i diseredati, gli oppressi di tutta la terra, vengano a noi non già per discutere vane formule astratte, ma per determinare le forze, raccoglierle, spingerle avanti. Il popolo è stanco di parole, è tempo di scendere in lotta.
Non date ascolto a Garibaldi. Il socialismo come lui lo intende è un equivoco: quelle che chiama esagerazioni dei socialisti sono i nostri principi fondamentali. Egli vorrebbe che le associazioni operaie dovessero essere press’a poco società di mutuo soccorso: togliete alle medesime il programma e il carattere rivoluzionario e saranno la più meschina cosa del mondo di cui rideranno i borghesi.
Su via, rovesciamo questo mondo che ci schiaccia, distruggiamo questa società che ci rinnega, vendichiamo tutte le onte, gli insulti, le ignominie, le abbiezioni che soffrimmo e soffriamo. Proletari d’Italia, avanti, avanti, energici e risoluti, come i padri nostri, gli schiavi di Spartaco e i Ciompi di Lando, alla grande lotta per la nostra emancipazione.
( Dal Bollettino dell’Internazionale, marzo 1874).


"Noi ci appelleremo all'avvenire e alla Storia"
Cittadini Giurati!
Il Pubblico Ministero, cercando di suscitare contro di noi il fanatismo e la paura, si rivolgeva alle vostre cattive passioni, io mi rivolgo ai vostri sentimenti di equità e di giustizia; egli vi parlava come un profeta di guai e di sventure parla ad una moltitudine superstiziosa e ignorante, io parlo come uomo ad uomini.
Noi vogliamo lo svolgimento pieno e completo di tutti gl'istinti, di tutte le facoltà, di tutte le passioni umane, noi vogliamo l'umanamento dell'uomo! Donde si deduce che non è la emancipazione della classe operaia quella per cui ci adoperiamo, ma la emancipazione intera e completa di tutto il genere umano.
Le idee che voi professate, diceva il Pubblico Ministero, sono contrarie al senso comune; voi avete senso comune; dunque, professandole, siete in mala fede". Sì, Pubblico Ministero, se le idee che noi professiamo fossero quelle che voi esponeste, avreste ragione di chiamarci pazzi o malvagi: ma voi sapete per primo che quelle idee non le professiamo, e male vi opponeste quando credeste si ridesse di noi alla esposizione poco felice e poco originale di ciò che chiamavate i principii dell'internazionale! Non si rideva di noi, perché le idee nostre sono abbastanza conosciute e voi le avete fatte conoscere maggiormente; ma si rideva di voi, che tenevate e Giurati e Difensori e Cittadini tutti tanto ingenui da credere per un momento, che noi potessimo professare le idee da voi esposte. Quella accusa di mala fede, o Pubblico Ministero, non giunge fino a noi.
"Giù la maschera", diceva il Pubblico Ministero. Noi, non vogliamo ritorcere contro di voi questo grido, perché noi che secondo voi non crediamo in nulla, crediamo pur sempre nella integrità della natura umana; e questo grido facciamo conto di non aver udito, per non ritorcerlo contro di voi.
"Voi volete distruggere la scienza". Sì, la scienza che mette il mondo creato da seimila anni; la scienza che mandava al rogo Giordano Bruno, la scienza che torturava Galileo, la scienza vostra che tiene per disonesti coloro che non credono, questa scienza non siamo noi che vogliamo distruggerla: essa è già morta. Ma la scienza nuova, del progresso, della luce, la scienza che ha atterrati i vecchi idoli e i vecchi pregiudizi, e che atterrerà per la sua efficacia i vecchi privilegi, di quella scienza noi siamo modesti sì, ma appassionati cultori, ed è nostro vanto applicarla al sistema sociale, e da essa attingiamo la nostra forza.
"Voi non avete fede!" replicò il Pubblico Ministero. E come sopporteremmo allora calmi e tranquilli le vostre ingiurie, le vostre carceri, i vostri birri e le continue vessazioni alle quali siamo esposti se non avessimo fede profonda nella giustizia delle rivendicazioni sociali per le quali ci adoperiamo?
Via dunque, queste accuse di voi indegne, dettate da odio partigiano... In vero, se noi consideriamo quegli avvenimenti per se stessi non possiamo fare a mano di ridere della pochezza dei mezzi di cui disponevano coloro che vi presero parte. Ma se consideriamo la condotta dei partecipanti, non rideremo più; ma saremo compresi di ammirazione per giovani che ad un fine non ben intraveduto, ma generoso, sacrificavano il loro avvenire ed andavano incontro a sacrificare la vita. E' ridicolo; ma è al tempo stesso sublime.
Ci chiamate malfattori. Ebbene questo titolo lo accettiamo; e chi sa che un giorno come la croce da strumento di infamia divenne simbolo di redenzione, questo nome di malfattori dato a noi e dai noi accettato non indichi i precursori di una rigenerazione novella!
E con questo, cittadini giurati, ho finito. La coscienza popolare che voi rappresentate si è già abbastanza manifestata. Che, se nonostante tutto questo, voi doveste condannarci, noi non ci appelleremo ad una Corte di Cassazione del Regno; noi ci appelleremo invece ad un tribunale ben più severo e formidabile, un tribunale, o cittadini, che deve un giorno giudicare noi imputati, e voi giudici: noi ci appelleremo all'avvenire ed alla Storia!
(Dal Discorso di autodifesa alla Corte d'Assise di Bologna, 16 giugno 1876).


Postilla. Andrea Costa e l'internazionalismo anarchico. (S.L.L.)
Nello Rosselli, prima che il fascismo lo costringesse all’esilio francese, da giovane studioso pubblicò, nel 1927, un aureo libretto dal titolo Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872). Nei dodici anni che Rosselli studiò in verità il tempo correva in fretta e da un mutualismo paternalistico sorretto da padronale e spesso aristocratica filantropia si passava nelle Società operaie all’idea di solidarietà: ognuno dei soci rispondeva “in solido” dell’altro, con il proprio sostegno e con il proprio denaro.
Nelle nuove società operaie prevalse all’inizio la tendenza mazziniana, che poneva la questione sociale in termini pedagogici. La sua soluzione era legata all’educazione e autoeducazione delle classi operaie, che attraverso il lavoro e il risparmio avrebbero tendenzialmente realizzato l’unità del capitale e del lavoro nelle stesse mani. Mazzini e i mazziniani aborrivano la lotta di classe che spaccava le nazioni e difendevano la proprietà privata.
Intanto tra l’inquieta gioventù ribelle e nello stesso mondo proletario altre idee si erano sovrapposte in Italia a quelle di Mazzini. Era iniziata, per impulso di un esule russo, Michail Bakunin, l’attività dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori o, come più semplicemente si diceva, dell’Internazionale. I suoi seguaci odiavano lo Stato, la Religione, la Proprietà, sognavano una rivoluzione che facesse piazza pulita di tutte le oppressioni e liberasse affratellandola l’umanità intera.
Per un po’ i due orientamenti convissero in buoni rapporti, tenuti insieme dagli stessi nemici, le consorterie monarchiche, covi di grandi proprietari e di affaristi. All’unità contribuiva anche la figura, quasi universalmente amata, di Garibaldi e il suo spirito azionista. Garibaldi aveva rotto con Mazzini e fra i due c’era ruggine ed inimicizia, ma “il Generale” godeva della simpatie anche di tutti, anche dei mazziniani, che ne ammiravano il coraggio e la generosità, il “prendere parte” ogni volta che fosse possibile alle battaglie contro l’oppressione. Garibaldi diceva di non amare i “repubblicani dottrinari”, si dichiarava contrario ad ogni divisione e aveva addirittura proclamato che “repubblica, nichilismo, democrazia, socialismo, anarchismo, comunismo sono tutti sinonimi e tutti significano la giusta rivolta dei poveri e degli oppressi contro gli indebitamente gaudenti”.
Nel 1871 arrivò la Comune di Parigi. Il popolo parigino, cacciato il governo a Versailles, aveva assegnato pienezza di poteri alla riorganizzata municipalità. La Comune si fondava su due principi: la democrazia nella sua forma più ampia ed estrema (Assemblee, Consigli di base, revocabilità degli eletti a ogni livello), l’uguaglianza sociale (cosa che inevitabilmente colpiva la proprietà privata). Fu anche per questi orientamenti socialisti che Mazzini condannò la Comune di Parigi e l’Internazionale che sembrava ispirarla.
Non lo fece Garibaldi che al giornale “Il Romagnolo” di Ravenna scrisse: “L’Internazionale è quella parte più numerosa della società che soffre al cospetto di pochi privilegiati. Noi dobbiamo quindi essere con l’Internazionale”. La sua frase: “L’Internazionale è il sole dell’avvenire” contribuì peraltro non poco a spingere la gioventù e le società operaie fuori dall’orbita mazziniana e a orientarle verso il socialismo.
Alla fine del 1871 la polemica tra mazziniani e internazionalisti raggiunse il culmine, poiché era imminente il congresso delle società operaie, fortemente voluto da Mazzini, che fin da luglio su “La Roma del popolo” aveva pubblicato una allocuzione, Agli operai italiani, sollecitandoli a respingere le sirene dell’Internazionale, negatrice della Patria, della Proprietà e di Dio. Bakunin, in risposta, diffuse tra i suoi simpatizzanti una sorta di circolare che titolò Agli operai delegati al congresso di Roma e firmò “Un gruppo d’Internazionali”. Il congresso, com’era prevedibile, fu teatro di un dibattito aspro che vide i delegati più combattivi schierarsi con l’Internazionale. Le società operaie non trovarono pertanto una forma di coordinamento e continuarono la loro separata azione nelle realtà locali. In essetra mazziniani, garibaldini, internazionalisti si stabilì una convivenza non sempre pacifica.
I giovani erano con Bakunin. Poco importava che Garibaldi nel 1872, proprio in una lettera dell’ottobre ad Andrea Costa, si fermasse di fronte alle “esagerazioni” dell’Internazionale e si proponesse di “portarla nel terreno politico”, abbandonando la lotta di classe e la collettivizzazione; che le chiedesse di rinunciare, almeno per il momento, al rifiuto del principio autoritario scegliendo piuttosto il “suffragio universale”. I rivoluzionari della nuova generazione rimasero con Bakunin anche quando da Londra giunsero le notizie della polemica, durissima, tra anarchici e marxisti. Il classismo operaistico di Marx e dei suoi seguaci mal si conciliava con il fervore umanitario dei giovani italiani.
Gli anni dal 1872 al 1876 furono per Andrea Costa di cospirazione, di propaganda e di congressi, in Italia e altrove. E anche di carcere. Con Carlo Cafiero Andrea Costa è il più autorevole degli anarchici italiani. I due, durante il congresso della federazione anarchica italiana nel marzo del 1873, vengono arrestati insieme ad altri congressisti a Bologna, in una saletta del caffè del teatro comunale. Sono accusati di cospirazione e di essere, “malfattori”.
Costa dichiarò in interrogatorio: “Ammetto di far parte della società Internazionale e ne accetto tutti i principi come tutte le conseguenze dei medesimi. Molti credono che l’attuazione del nostro programma non possa ottenersi che attraverso l’abolizione di ogni forma di governo”.
Ma il giudice, pur a conoscenza di questa dichiarazione nei verbali d’interrogatorio in istruttoria, non approfondì ed assolse Costa e gli altri.
Dal 1874 l’attività dell’Internazionale non consiste più soltanto nell’attività pubblica di propaganda e di organizzazione delle forze operaie, ma c’è anche un “organamento segreto” che deve preparare l’azione. Costa compila, stampa e diffonde clandestinamente un Bollettino che viene fatto girare tra operai e popolani e li incita alla rivolta. In molte città d’Italia scoppiano scioperi: legnaioli, sigaraie, muratori incrociano le braccia in molte città.
Informatori ed infiltrati seguono le mosse del nostro. Alla fine di aprile la presenza a Roma di Costa viene segnalata al questore dal suo omologo bolognese: “Il nostro infaticabile Andrea sembra diretto costà. Ella procuri che sia arrestato e perquisito questo infaticabile agitatore, contro cui l’autorità giudiziaria di Roma emise già mandato di comparizione per l’ammonizione”.
Nel 1875 Costa va e viene da Locarno, ove Bakunin alla “Baronata” risiede e accumula armi. Si prepara l’insurrezione che è in preparazione per l’estate nelle Romagne, nelle Puglie e in altre regioni e miseramente fallirà per i controlli polizieschi e gli arresti preventivi, l’indecisione dei repubblicani, lo scarso numero di convenuti. Rimando per i particolari alle belle pagine della Storia degli anarchici italiani di Pier Carlo Masini.
Costa è arrestato il 5 agosto. Bakunin che era arrivato in Italia travestito da aristocratico inglese ne sarebbe fuggito in abito da prete. Il processo a Costa si svolgerà tra marzo e giugno del 1876 e, grazie alla sua autodifesa, si trasformerà in un trionfo. E’ un discorso assai bello, ricorda quello, più celebre, di Fidel Castro al tribunale di Batista che fu intitolato La storia mi assolverà. Fu anche in grazia di esso che gli imputati uscirono tutti assolti.

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