10.3.10

Le labrene di Tommaso Landolfi.

Labrene: così talvolta le chiamo perché così le chiamava un mio compagno d’infanzia venezolano. Si tratta in sostanza d’un comune geco, e precisamente di quello denominato (salvo errore) dagli zoologi platidattilo muraiolo: sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre ser peggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle.
Per questo animaletto tra tutti innocuo ho sempre provato un disgusto profondo, una nausea e repulsione d’ogni sostanza vitale, un tremore delle fibre più riposte. Già mia madre, mi si riferisce, usava, entrando in una stanza disabilitata o passeggiando nella corte, levare senza motto il dito verso e contro il suo nemico, del quale un infallibile istinto denunciava la presenza; e ciò affinché i suoi accompagnatori provvedessero a rimuovere la causa del suo turbamento. Quanto a me, e poiché nella mia casa antica m’era impossibile evitare ogni rapporto colle aborrite labrene, da bambino fantasticavo lungamente su che cosa mi sarebbe avvenuto se un caso maligno mi avesse forzato a più intrinseci contatti, in altri termini a toccare una di loro od a subirne il tocco; né più angosciose serate ricordo di alcune estive passate colla mia famiglia nella corte appunto.

Sedevamo in semicerchio di fronte alla grande porta: sopra questa e contro il muro esterno della casa, una lampadina elettrica; celata nell’ombra una labrena straordinariamente corpulenta, che ne sbucava non appena si approssimasse, attirata dalla luce, una farfalla notturna. O meglio, essa aspettava che la farfalla si fosse posata, e solo allora usciva ratto, la abboccava, la trangugiava. E che brividi, che sfinimenti, che orrore costava a me quello spettacolo di industriosità per altri forse edificante, quell’abile sfruttamento di circostanze favorevoli. “Ma dunque cosa avverrebbe di me, - mi ripetevo affascinato, - se la sua fredda e schifosa pelle dovesse per un attimo sfiorare la mia? Supererei la prova, riuscirei a sopravvivere?” E mi pareva, ero sicuro, che invece sarei morto; e pregavo Dio che mi preservasse.

Ma una tale terribile e decisiva esperienza non doveva essermi risparmiata.


Tommaso Landolfi (1908-1979) fu autore di romanzi e racconti, diarista, traduttore di grande qualità. Il meglio è forse costituito dai suoi racconti magici e allucinati. Da Le labrene, che dà il titolo ad una delle sue raccolte di racconti, ho tratto quest'incipit, di carattere diaristico, notevole per il nitore della prosa ma anche per i fremiti che la percorrono. Per un primo approccio a questo grande scrittore, assai meno "difficile" di quanto non si immagini, suggerisco l'economica antologia della Bur: Tommaso Landolfi, Le più belle pagine, scelte da Italo Calvino, che ha scritto anche la splendida postfazione.

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