17.3.10

Pasolini in India (1961). La religione.


Pier Paolo Pasolini tra gli ultimi giorni del 1960 e i primi giorni del 1961 era in India con Alberto Moravia ed Elsa Morante. Raccolse le sue impressioni e ne ricavò alcuni articoli che pubblicò su “Il giorno” tra il marzo e l’aprile del 1961. Essi furono ristampati l’anno successivo da Longanesi in un volume dal titolo L’odore dell’India
Più d’uno sostiene che venisse dal quel viaggio e dal segno profondo che impresse nella memoria e nella fantasia di Pasolini quell’amore per i paesi riarsi e per le loro culture arcaiche che avrebbe impregnato diversi e importanti capitoli della sua ricerca di scrittore e cineasta. Il libro insomma, da questo punto di vista, più che un aiuto alla conoscenza dell’India, risulterebbe un documento essenziale della vicenda umana e intellettuale del poeta friulano. 
Non so quasi nulla dell’India e non sono in grado di confermare o confutare codesto giudizio. Mi pare tuttavia che nel libretto, poi più volte ristampato (da Guanda oltre che da Longanesi), Ppp - più che farci da guida non tanto su luoghi, genti e costumi del favoloso Oriente - possa insegnarci a guardare, ad ascoltare, o odorare, a sentire insomma con tutti i sensi il mondo e, dentro il mondo, l’uomo. 
Posto qui sotto alcuni brani tratti dal secondo capitolo, che tratta di religioni e religiosità, come invito a leggere l’intero libro. (S.L.L.)

Una specie di vuoto
A Nuova Delhi sono andato con Moravia a un ricevimento all’ambasciata di Cuba, in occasione del secondo anniversario della rivoluzione di quell’isola: davanti a una villetta dell’immensa città-giardino, che, proprio come dev’essere Washington è Delhi, era stato alzato un grande padiglione rosso e blu, col pavimento di tappeti rossi. Lì si accalcavano tutti i corpi diplomatici della capitale, dall’ambasciatore di Jugoslavia a quello del Belgio, dall’addetto culturale cubano a quello russo: tutti col loro bicchiere di whisky in mano, schierati come in una stampa, in un affabile cicaleccio, nell’aria di primavera un po’ gelida.
In mezzo alle sagome eleganti dei diplomatici e delle loro signore, mi è sembrato una specie di miraggio assurdo (erano solo una decina di giorni che ero via dall’Italia, ma mi parevano dieci anni)due prelati cattolici, sottili come spade, coi fianchi stretti da una cintura rossa, e la scoppoletta rossa sulla nuca. Dovevano essere spagnoli: l’aria era quella degli spadaccini.
Per me erano emblemi, cocenti emblemi di tutto un mondo.
Ma per quanti milioni di persone, nel mondo indiano, non erano altro che un vivace ghirigoro di rosso e di nero? Messi di un potentato tanto lontano da sembrare quasi inesistente?
Per la prima volta, potrà sembrare assurdo, ho avuto l’impressione che il cattolicesimo non coincida col mondo: ma la separazione delle due entità è stata così inaspettata e violenta, da costituire una specie di trauma… Mi sono chiesto allora, per la prima volta in maniera urgente, da che cosa fose riempito questo immenso mondo, questo subcontinente da quattrocento milioni di anime. Era troppo poco tempo che mi trovavo in India, per trovare qualcosa da sostituire alla mia abitudine della religione di stato: la libertà religiosa era una specie di vuoto a cui mi affacciavo con le vertigini. Solo un po’ alla volta mi sarei abituato a questa condizione di libera scelta religiosa, che da una parte dà un senso come di gratuità di ogni religione, dall’altra è così ricca di spirito religioso puro.


Quando dicono sì
Io non so bene cosa sia la religione indiana: leggete gli articoli del mio meraviglioso compagno di viaggio, di Moravia, che si è documentato alla perfezione, e, dotato di una maggiore capacità di sintesi di me, ha sull’argomento idee molto chiare e fondate. So che in sostanza il Bramanesimo parla di una forza originaria vitale, un “soffio”, che poi si manifesta e concreta nella infinita plasticità delle cose: un po’ insomma la teoria della scienza atomica come, appunto, rileva Moravia.Io ho cercato di parlare di questo con molti indù: ma nessuno ha neanche la più pallida idea di quanto sopra. Ognuno ha un suo culto, Visnu, Siva o Calì, e ne segue fedelmente i riti. Però posso dire una cosa: che gli indù sono il popolo più caro, più dolce, più mite che sia possibile conoscere. La non violenza è nelle sue radici, nella ragione stessa della sua vita. Magari qualche volta difende la sua debolezza con un po’ di istrionismo e di insincerità: ma sono piccole ombre ai margini di tanta luce, di tanta trasparenza.
Basta guardare come dicono di sì. Anziché annuire come noi alzando e abbassando la testa, la scuotono circa come quando noi diciamo di no: ma la differenza del gesto è tuttavia enorme. Il loro no che significa sì consiste in un fare ondeggiare il capo (il loro capo bruno e ondulato con quella povera pelle nera, che è il colore più bello che possa avere una pelle) teneramente: in un gesto insieme dolce: “Povero me, io dico di sì, ma non so se si può fare, e insieme sbarazzino: “Perché no?” impaurito:“E’ cosa difficile”, e insieme vezzoso “Sono tutto per te”. La testa va su e giù, come leggermente staccata dal collo, e le spalle ondeggiano un po’ anch’esse, con un gesto di giovinetta che vince il pudore, che si erige affettuosa. Viste a distanza le masse indiane si fissano nella memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorriso infantile e radioso negli occgi che l’accompagna. La loro religione è in quel gesto.

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