24.3.10

Un camallo chiamato Maciste. Bartolomeo Pagano, il re della forza.

Nel 1914 fervevano i preparativi per Cabiria, il primo (e forse il più grande) kolossal del cinema italiano. La torinese Itala Film, che produceva la pellicola,aveva affidato a Gabriele D’Annunzio l’onere delle didascalie a caro prezzo. Il vate aveva deciso: “L’eroe romano dell’azione si chiama Fulvia Axilia. Il suo compagno strapotente è un liberto, del paese prode dei Marsi, nomato Maciste (che è un antichissimo soprannome del semidio Ercole)”. Di codesto soprannome di Ercole non si trovano tracce certe e probabilmente rientra in quella “reinvenzione del passato” che fu specialità moderna, modernissima, quasi post-moderna, del poeta “multanime”.

Il casting lo faceva Pastrone, produttore, ideatore e regista di Cabiria, e per quel ruolo aveva rifiutato lottatori greco-romani e sollevatori di pesi che si erano cimentati col provino. Voleva un “uomo del popolo” più che un atleta, ed era esigente. Paolo Cherchi Usai che ne ha scritto la biografia così racconta l’affannosa ricerca: “Preoccupato, il produttore orienta diversamente le sue ricerche, sguinzaglia degli esploratori. Giungono le prime segnalazioni, accompagnate da testimonianze fotografiche. Un pompiere di Milano dà buon affidamento per la fisionomia aperta, ma è un filodrammatico; e Pastrone esige un primitivo. Un facchino di Trieste rappresenterebbe l’ideale se non bevesse: non si può contare a lungo sulle sue prestazioni. Bocciato. Finalmente da Genova un amico gli segnala un “gamalo” del porto. Si chiama Bartolomeo Pagano, è un buon figliuolo, la sua forza è eccezionale, ma sa sorridere luminosamente, possiede una magnifica dentatura ed è di una spaventosa ignoranza. L’ideale”.

Scritturarlo, a quanto si può leggere nel sito “In penombra”, non fu però così facile: “Si avvicinarono, lo guardarono negli occhi, lo squadrarono per ogni verso, un poco anche indiscreti, tanto che Bertumè tagliò corto e chiese: «Spedizionieri? C’è qualche bastimento in arrivo o in partenza? Io sono il caporale della squadra. Se credete che possiamo farcela, affidateci il lavoro». Ma i componenti della singolare commissione, ingiunsero: «Venite con noi. Dove abitate?». Questa volta sul bel volto di Bartolomeo Pagano, si dipinse una certa inquietudine. Che volevano quei bellimbusti? Forse erano dei questurini e c’era di mezzo qualche pasticcio? Un paio d’ore dopo, Bertumè, nella casetta nascosta fra le serre luciccanti di Sant’Ilario alto, si vide attorniato da quei signori, decisi e persino un poco arroganti. Gli stesero davanti un mucchio di carte e cominciarono a parlare di cinematografo. Ebbe un sospiro di sollievo, finalmente sicuro che la sua onestà di lavoratore non correva rischi d’essere messa in discussione, ma nel tempo stesso dal suo vasto petto uscì una lunga, sonora risata. E questa fu la risposta: «Lasciatemi in pace. Io non ne so un’acca di tutti questi imbrogli e non ho mai visto un film. Ho ben altro da fare». A nulla servirono parole, lusinghe e promesse. I cinematografari dovettero tornare parecchie volte a Genova. Finalmente, quando il Pagano fu certo — e glielo misero per iscritto davanti a un notaio — che avrebbe comunque assicurata la paga giornaliera di portuale, e che tornando, a film finito, avrebbe ritrovato il suo posto, cedette alle pressioni. Erano stati proprio i suoi compagni di fatica a insistere di più. Gli dicevano, inorgogliti: «Prova Bertumè, prova. Verremo anche noi, a vedere. Capisci o no che è un onore per i Caravana e per tutti?». Fu così che finalmente, tolto dalla cintura di cuoio il gancio — lo strumento tradizionale del lavoratore del porto — si decise a presentarsi a Torino, dove, diceva lui, «si fabbricano gli uomini e si inventano tutte le storie più bugiarde»”.
Pare che a Torino l’istruttore ginnastico dell’Itala Film, un ballerino di nome Cassiano, fece un po’ di fatica a costringere la sua muscolatura nell'abito stretto e che Pastrone dovette rimediargli un po’ di elementare istruzione. Ma alla fine il film fu girato e proiettato.

In rapporto alle aspettative e all’impegno finanziario profusi oggi Cabiria si direbbe un flop, ma il personaggio di Maciste e l’uomo del popolo forte e sorridente che lo interpretava ottennero attenzione e successo. Per una dozzina d’anni, Maciste, sottratto all’antichità romana, divenne il personaggio protagonista di decine di film e lo si vide, di volta in volta, bersagliere, poliziotto, imperatore, alle prese con gl’indigeni brasiliani o con gli assassini dello sceicco. I fascisti lo usavano come simbolo dell’Italia forte e vigorosa che pretendevano di rappresentare, ma il suo interprete, Bartolomeo Pagano, non volle prendere la tessera. Il figlio Oreste testimonia: “Non era certo il tipo da mettersi da quella parte lì. Lui rimpiangeva molto i tempi prefascisti: ammirava Giacomo Matteotti… e per lavorare non aveva bisogno della tessera”. Tanto più che nel 1926, quando aveva 48 anni, cessato per la crisi dell’industria cinematografica il suo impegno d'attore, tornò a Genova. Lo aveva detto: “Sono un camallo che non ha mai smesso di lavorare con le mani, anche se passando di grado avrei potuto farlo. Adesso c’è il cinema. Io faccio quel che c’è da fare lì, e poi ritorno”. Non potè riprendere il lavoro, perché il diabete e il cinema (lavorava senza controfigura) ne avevano indebolito la forza, ma tornò a giocare a scopone e a bocce, a parlare di navi, di carichi, di sacchi da trasportare alla Società di mutuo soccorso di Sant’Ilario, cui s’era iscritto tanti anni prima, quando questa era apertamente un covo di socialisti. Stefano della Casa scrisse su “Fuorilinea” del gennaio 1993 che egli ritrovava l’identità soprattutto nel suo essere sociale, che aveva l’orgoglio del proprio lavoro, tipico del salariato che non conosce ancora il taylorismo e la catena di montaggio, e che si ritrovava pienamente solo in quelle strutture (la Carovana, la Società di Sant’Ilario) dove forte era il senso di solidarietà e di appartenenza di classe. I camalli vecchi e nuovi con cui trascorreva le serate guardavano a lui come a un mito vivente, ma con più affetto che riverenza. E si racconta che la gente di Genova, quando senescente lo vedeva passare per gli stretti “caruggi”, si voltasse ancora meravigliata a guardarlo e che, più che Maciste, lo chiamasse “il gigante”. Morì nel 1947.

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