9.4.10

Adesso i muri non urlano più (Gian Luigi Beccaria - "Tuttolibri" 27 febbraio 2010)

Una riflessione dell'ottimo "professore" torinese, gian Luigi Beccaria, su come sono mutate, nella funzione e nel linguaggio, le scritte murali dal 68 ad oggi.

Nel Sessantotto erano «tele» di parole, oggi nient'altro che imbrattature mute

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I muri cittadini grondano di scritte d’ogni colore. Per lo più non sono opera di «graffitari» (o writers, come li chiamano internazionalmente, con anglismo che da noi si comincia a usare intorno al 1993), i quali hanno una qualche intenzione d’arte. Sono colatura di vernice che non si «esprime» a parole, ma soltanto imbratta, e basta. Certamente, esprime un disagio, una protesta: la scritta si fa sul muro in quanto luogo istituzionalmente vietato, come fare la pipì nei giardinetti, in un aiuola pubblica. Va contro le norme della convivenza.

Qualcosa vorranno pur comunicare. Con la differenza però che, sin dai tempi dei graffiti di Pompei, i muri hanno parlato, ma con parole. Oggi non più. Quest’Italia-spray non si esprime a parole. Salvo i sempre più rari «Sara ti amo», tutto è colatura di vernice, sgorbio di bomboletta che soltanto sporca, segno di riconoscimento inespresso, come gli schizzi del cane che segna il territorio. Per questo ricordo con maggior piacere, quanto a intelligenza espressiva, le scritte della contestazione studentesca, anni Sessantotto e seguenti. Il muro era diventato la tela su cui i giovani contestatori pensavano di liberare se stessi, ma in forma di parole, non con imbrattature mute.

«I muri della città saranno i nostri urli», si leggeva, «Liberiamo la creatività», «Spazio all’immaginazione», «La fantasia uccide il potere», «Ho voglia di fare il matto». Si pensava che i muri potessero essere un mezzo di comunicazione diretto, immediato, «democratico». Ingenua utopia! Come quando ci si rivolgeva agli operai «finalmente liberati», capaci finalmente (Lotta continua, anno II, num. 3) di trasformare «il sordo e muto sabotaggio di tutti i giorni in un atto liberatorio, collettivo» con «le scritte, le incisioni di cui si stanno riempiendo i muri delle fabbriche italiane, prima nei cessi, nei refettori e negli spogliatoi, adesso anche nelle officine e negli uffici».

Follie, finché si vuole. Ma fantasia, ironia, creatività ce n’era da vendere. Le scritte più belle e riuscite erano tutto sommato quelle non politiche (anche perché quando si trattava di attaccare l’avversario, si ricadeva nella retorica dei luoghi comuni). Il muro era diventato il luogo privato, dove il personale poteva essere socializzato, comunicato: «Giovanna non ti amo più / E mi dispiace», oppure «Ho finito i soldi», «A forza di ascoltarmi mi sono ridotto male». Su una lavagna dell’Università, a Bologna, nella prolungata occupazione del ’77 qualcuno aveva scritto: «Ho sempre avuto paura della DC / incomincio ad aver paura del PCI / ma il mio problema di fondo rimane quello di Caterina».

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