Un compagno onesto e generoso, Aurelio Fabiani, della Casa Rossa di Spoleto, qualche giorno fa non nascondeva la sua gioia nel leggere i risultati delle elezioni del 28 e 29 marzo: “Un non voto che ha colpito Centro Destra e Centro Sinistra. Un non voto che è diverso dal passato, perché è andato oltre il me ne frego, o il non ci credo, per dire ci avete stufato, con la vostra corruzione, con le risse tra poteri dello stato, con il vostro servilismo con chiunque appartenga alla crema danarosa di questo paese, sia esso industriale, bancario, mercante internazionale o padroncino di provincia”. Un voto contro il ceto politico, a suo dire, e quella che chiama”dittatura bipolare”; la tesi è che “anche se non sono tutti uguali, si rassomigliano tremendamente tutti” e che Centro Destra e Centro Sinistra meritano allo stesso modo la punizione.
"Mai confondere le proprie illusioni con la realtà" - diceva il vecchio Marx. E credo che invece il buon Aurelio si illuda quando s’immagina un non voto di ribellione e non invece qual è, di rassegnata disperazione.
Un approccio specularmente consolatorio intravedo anche nelle parole di un blogger che si firma Sed e commenta le elezioni da un bel sito da cinefili con un nome culinario: “court bouillon”. Per lui malauguratamente la disaffezione al voto non sembra troppo preoccupare “i politici”. Non nega la sconfitta del centrosinistra, ne condanna anzi la sottovalutazione da parte dei capi del Pd; e tuttavia sembra credere che alla base di essa sia la mancanza di un vero programma. La ricetta che il riformista Sed propone mi pare non meno illusoria di quella del rivoluzionario Fabiani: bisognerebbe accantonare “l’idea del vincere come ossessione unica e riconoscibile” ed “elaborare il tema non meno affascinante del governare”. In verità con questi uomini e con questo profilo il Pd non andrà mai più al governo e comunque non saprebbe governare un fico secco.
Leggo infine, su “Repubblica”, più di un commento consolatorio: analisti che spiegano come il successo della Lega nasca in realtà da una caduta di consensi ridotta (solo duecento mila voti in meno rispetto alle politiche) a fronte di un più grave salasso subito da Pd e Pdl. Il non detto di siffatti ragionamenti è che, con i necessari aggiustamenti di coalizione, di proposta politica e programmatica, di leadership, sia possibile per il centro sinistra arrivare alle elezioni del 2013 competitivo e, perché no, vincente.
Una illusione, un po’ patetica, sembra infine animare anche quei compagni della sinistra che su Facebook promuovono gruppi in favore di Vendola candidato premier del centrosinistra. Sono un ammiratore di Nichi e assegno un valore strategico alla sua vittoria in Puglia; ma parlare adesso di “candidati premier” mi sembra un perseverare nell’errore che portò alla sconfitta il piacione Rutelli prima e il piacente Veltroni poi, nell’idea cioè che la vittoria della destra dipenda solo o soprattutto dalle capacità comunicative del leader.
Non credo che la cosa più urgente da recuperare a sinistra sia una leadership personalizzata e, meno che mai, un’immagine, ma piuttosto una capacità di “visione” e, insieme, “l’analisi concreta di una situazione concreta”. Ci avviciniamo a un punto di svolta, forse di non ritorno. Le votazioni di domenica scorsa (elezioni regionali e locali - si diceva fino a qualche settimana fa - che non decidono del governo del paese) segnalano una differenza profonda con quanto accade in quasi tutta Europa, dove ad ogni elezione parziale sfiducia e astensionismo sembrano punire i governi in carica, tutti inadeguati alla crisi. In Italia invece i risultati del voto consolidano un assetto di potere odioso, che determinerà milioni di tragedie nelle vite dei poveri e porrà lo Stato, con tutta la sua forza, al proprio servizio. Studiata nei particolari, la decade preelettorale di manganellamento mediatico mirava a condurre in massa i meno resistenti alle sirene mediatiche del Grande Imbonitore o al dolce veleno del razzismo leghista a votare come pecore.
La chiave di questo percorso è stata la reciproca garanzia che si sono dati l’autocrate mediatico e i gerarchi della curia vaticana. Intorno alla cricca di Berlusconi e ai vertici vaticani il sostanziale allineamento di Confindustria, delle associazioni padronali, delle corporazioni professionali più potenti fa presagire un “fascio” di tutti i poteri forti; un fascio che affascina soprattutto i deboli, i tanti bisognosi di protezione. Il maggiore elemento di disturbo di questo progetto è tutto interno ed è rappresentato dalla Lega comunitarista che nel Nord Italia si accinge a ripercorrere la strada di un potere pervasivo e totalizzante.
La nascita di quello che oggi Marco Revelli su “il manifesto” acutamente chiama “regno del Nord” non impedisce tuttavia una fase di intensa collaborazione con Berlusconi e con ciò che rappresenta. Non tanto con il suo “partito”, un’accolita di pretoriani e cortigiani, ma con quella parte della “nazione” italiana, di cui Berlusconi rappresenta l’autobiografia, quella più cinica e corrotta, in alto e in basso. Del Cav Revelli scrive che “proprio nulla, di ciò che è e di ciò che fa, era sconosciuto” che “tutti i suoi vizi, quelli privati come quelli pubblici, erano noti”. La campagna elettorale ha chiarito anche i suoi propositi: primo fra tutti eliminare o mettere sotto tutela ogni contropotere attuale o potenziale, dalla magistratura al sindacato. La costruzione di un nuovo regime metterà pertanto insieme la concentrazione del potere con un equilibrio economico nettamente favorevole al Nord; essa richiederà una sanzione legislativa a tutto campo, dalle riforme istituzionali alla riscrittura del diritto (o del non diritto) del lavoro.
La domanda cruciale, a questo punto, riguarda l’opposizione parlamentare. E’ decisamente sconcertante la solita, insopportabile solfa del presidente Napolitano per il quale si sarebbe riaperto il confronto politico e sarebbe ora possibile “fare insieme le riforme”. Quella del capo dello Stato non è ovviamente una costatazione di fatto: di tutto sembrano avere voglia Bossi e Berlusconi fuorché di dialogare. Lo stesso Fini, per molto tempo idolo della sinistra “dialoghista”, è tornato nei ranghi. Quella di Napolitano, in realtà, è la riproposizione di una pratica da sempre cara agli opportunisti e sintetizzabile nella massima “se non puoi avere la maggioranza, accontentati dell’unanimità”. E’ evidente però che gli sconfitti delle elezioni non hanno oggi nessuna possibilità di condizionare le scelte dell’asse Berlusconi-Bossi: di un nuovo regime costituzionale e sociale possono essere i cofirmatari, non certo i coautori. Peraltro oggi la destra si sente forte al punto di affrontare un referendum costituzionale che plebiscitariamente sancisca un nuovo assetto statuale marcatamente e squilibratamente presidenzialista. Alla scadenza si preparerà da subito, anche inserendo tra le proposte di riforma alcune misure anticasta per imbrogliare il confronto. La sinistra potrebbe apparire baluardo di ingiustificati privilegi e inutili mangiatoie.
E’ su come resistere e contrattaccare che dovrebbe ragionare l’opposizione, su come attrezzarsi per i due prevedibili anni di bombardamento televisivo a reti unificate sulla riforme della destra. Invece di imbarcarsi in dialoghi o cimentarsi in proposte di riforma elettorale che non hanno alcuna possibilità di passare o di proporre candidati premier, sui temi dei costi della politica (numero dei parlamentari, appannaggi, province, etc.) potrebbe giocare d’anticipo, obbligando a discutere delle sue proposte. Ma l’attuale ceto politico di tutto il centro sinistra (incluso il movimento dipietrista così affollato di trasformisti) è solo capace di mendicare un ruolo subalterno nel regime prossimo venturo. L’obiettivo sembra essere quello di salvare qualche strapuntino in Parlamento, qualche amministrazione regionale e locale in una sorta di “democratura” alla Putin. Poco importa se ciò comporterà una regressione delle libertà, un restringersi dei diritti civili e sociali, la sottomissione del lavoro subordinato, in primo luogo di quello operaio. La missione che si propongono è “salvare il salvabile” per sè e per la propria famiglia: indennità, prebende, buonuscite e vitalizi; quanto al resto vale anche per loro il motto aureo di Cetto La Qualunque: “in culo agli operai”.
analisi molto acuta e realistica da far leggere e divulgare. Prima che sia troppo tardi...
RispondiEliminaLa tua analisi è lucida, corretta e pienamente condivisibile, ma fa male, fa veramente male. Forse è per questo che mi aggrappo all’idea – e lo faccio sempre quando non mi resta che il coraggio della disperazione – che il futuro non si possa prevedere. Perché lo determinano forze che non controlliamo. Quando un uomo, ritenendo di non avere più nulla da perdere, ritrova il coraggio o ha un soprassalto di dignità? Quante ingiustizie, quanti imbrogli, quanta rabbia ognuno di noi può reggere convertendola dentro in depressione, apatia e rassegnazione, prima di esplodere?
RispondiEliminaNon lo so, ma temo, come te, che all’arroganza e alla prepotenza di chi ci governa non si possa rispondere più con i balbettii di Bersani, con gli scontri/incontri televisivi tra maggioranza e opposizione, con i giri di valzer di Napolitano.
Ci vorrebbero uomini nuovi, animati da passione civile e rigore. Chi ha queste doti viene osteggiato e ridotto al silenzio (Di Pietro è aggredito da destra e da sinistra!) Uomini con queste caratteristiche sarebbero in grado di opporsi elaborando e organizzando strategie difensive, non stantii burocrati di partito logorati da lotte di potere. Io non ne vedo, ma... aguzziamo lo sguardo...