16.5.10

Il cattivo tempo della Perugia-Assisi. L' articolo della domenica.


Alla Marcia Perugia-Assisi di oggi non ho potuto partecipare. Tra un picco di pressione arteriosa e una visita graditissima non ho potuto fare neppure il breve tratto che avevo preventivato. Me ne dispiace. Ma a giudicare dal Tg3 nazionale, cioè dal telegiornale “istituzionalmente” più amico, dalla collocazione della notizia, dal suo stesso spazio, dai confronti che suscitava, mi pare che l’operazione, da più parti tentata, di ridimensionarne il peso e il significato sia riuscita. I centomila partecipanti non solo non hanno avuto, come altre volte era pure accaduto, la prima pagina, ma sono stati messi a confronto con i duecentomila della piazza del Papa, della manifestazione di solidarietà alla Chiesa ratzingeriana messa in campo in questa domenica.

Io credo che bisogna in primo luogo ringraziare quelle e quelli che hanno marciato, dai residui “compagni” con o senza partitino di appartenenza agli scout come sempre numerosi e colorati, dai giovani di “Libera” ai tanti marciatori “puri”, disorganizzati, che sono colonna portante del “popolo della pace”. In un tempo e in un paese in cui le spinte identitarie, le chiusure, gli egoismi appaiono sempre più dominare la scena politica e culturale, l’implicita polemica contro nazionalismi ed imperialismi, contro razzismi ed egoismi di classe, e in un giorno freddo, ventoso, piovoso come quello di oggi, quelle sono persone che rivelano coraggio e positivo impegno.

Eppure - me ne sono reso conto soprattutto dalle manifestazioni di contorno che a Perugia hanno preceduto la Marcia e dagli stessi volantini di propaganda - l’iniziativa non morde, non trova risposte ed echi fuori dalla cerchia, numerosa ma chiusa, dei pacifisti largamente intesi.

La ragione fondamentale di tutto ciò è la terribile crisi economica e finanziaria che ha colpito il capitalismo internazionale e che fortemente si avverte anche nell’Occidente più opulento. In questo contesto, ad esempio, funziona meno l’impianto vagamente terzomondista in cui si innestava la cosiddetta “Onu dei popoli”, una serie di confronti su sviluppo, cooperazione internazionale, vecchie e nuove povertà, cui partecipavano Ong e movimenti di tutti i continenti, manifestazione che per parecchi anni ha accompagnato la Marcia della Pace ed ha avuto il maggiore successo nel 2003, l’anno d’oro del “movimento dei movimenti”. Da allora non è che povertà e sottosviluppo siano scomparsi o che l’Africa abbia sconfitto la fame e le epidemie, ma con la disoccupazione marciante e la miseria incombente anche dalle nostre parti, tutto questo sembra più lontano. I manifesti che ricordano lo scandalo della morte per fame o i bravi ragazzi che ci chiedono firme sotto un appello a Berlusconi in favore della cooperazione internazionale e degli aiuti ai popoli indigenti ci appaiono perciòun po' anacronistici, fuori tempo e fuori luogo.

C’è forse un’altra ragione della sordina che ha circondato la Marcia, salvo poche lodevoli eccezioni. Ed è che manca oggi un obiettivo unificante, una causa sentita come urgente, un nemico (da “convincere” più che da combattere, e nondimeno un nemico).

Quando la marcia nacque e per un paio di decenni l’obiettivo principale fu la lotta per il disarmo, nucleare e non solo. Nemici da convincere allora ce n’erano a iosa, al punto che ognuno poteva scegliersi il proprio: le grandi potenze Usa e Urss, i blocchi militari contrapposti, la bomba, i cannoni e i siluri, gli eserciti, i generali, i caporali eccetera eccetera.

La Perugia-Assisi fu fin dalle origini una manifestazione plurale e aperta: Capitini ottenne che vi partecipassero i preti e i comunisti, gli amici dell’Urss e qualche filoatlantico, seppure moderato. Non era un raduno di neutralisti e neppure soltanto di pacifisti e di nonviolenti, ma di tutti coloro fossero disposti ad affermare che la pace è un valore e la guerra un disvalore, che la corsa al riarmo andava fermata e che l’Italia poteva da subito lanciare un segnale unilaterale al mondo: ridurre le proprie spese militari. Era un obiettivo da molti condivisibile e facilmente consentiva il dialogo e l’incontro tra due grandi tradizioni politiche e culturali, quella del movimento operaio socialista e comunista e quella cristiana cattolica. L’uno e l’altro campo erano certo percorsi da suggestioni militariste. I vescovi allora cresimavano “soldati” e i giovani dell’Azione cattolica si proclamavano “falange di Cristo redentore”. Il Pci, il Psi, la Cgil reclutavano “militanti” e tanti a sinistra parlavano del “grande esercito del proletariato”. Ma il movimento socialista aveva sempre proclamato con l’inno di Turati “Guerra al regno della guerra, morte al regno della morte”; tanti cattolici dal canto loro trovavano nel Vangelo e in alcuni Santi come l’assisano Francesco un incoraggiamento ad abolire il nemico amandolo e non sopprimendolo. Anche più tardi, quando arrivò la guerra in Vietnam, l’incontro fra queste tradizioni fu efficace e la Marcia, insieme al disarmo, incessantemente pretese la fine dei sanguinosi bombardamenti e il dialogo tra le parti.

Dopo la fine dell’Urss la Marcia doveva inevitabilmente conoscere un riaggiustamento. La cosa presentava qualche difficoltà e non mancò qualche edizione poco felice, ma bisogna dare atto a Lotti, che ne fu l’artefice, di averlo operato con successo e non senza un certo rigore logico. La lotta contro la povertà e la fame è da sempre connessa alla battaglia del disarmo. Chi può, ad esempio, dimenticare il presidente Pertini di “riempite i granai, svuotate gli arsenali”? L’assemblea dei popoli delle Nazioni unite e l’ispirazione “terzomondista” più tardi facilmente si incontrarono con Seattle e il movimento per un “altro mondo possibile”, mutuandone peraltro anche alcuni limiti. L’obiettivo comune di un tempo (il disarmo), infatti, sfumava e si affermava l’impianto pluralista, un po’ sommatorio del “movimento dei movimenti”. Ognuno marciava per la sua pace. Intanto tornava la guerra. Prima la Jugoslavia e il Kossovo, poi l’11 settembre 2001, l’Afghanistan e l’Iraq. Tornava anche il nemico da convincere: l’amministrazione del secondo Bush, la sua politica egemonica, la pretesa di esportare la democrazia con i bombardamenti chirurgici e gli eserciti occupanti. Erano nuove ragioni per la Marcia.

Nel tempo ancora un po' indecifrabile di Obama, la Marcia è alla ricerca di una sua fisionomia. Alla base della sua incapacità di incidere c’è - lo si è detto - la grande crisi finanziaria ed economica, ma non è senza effetti il suo rapporto con la politica italiana. L’istituzionalizzarsi della manifestazione, la costruzione intorno ad essa di strutture e di apparati, la conseguente necessità di finanziamenti pubblici aveva avvicinato l’organizzazione della Marcia al Pci e alla sinistra Dc già negli anni settanta e ottanta. La nascita degli Enti locali per la pace e il loro attestarsi a Perugia ha garantito la crescita dell’iniziativa anche nella cosiddetta Seconda repubblica, quando, per le nuove dinamiche di schieramento, la Tavola degli organizzatori si è sempre più legata al centro-sinistra e alla sua parte preponderante, l’Ulivo-Pd. Ma, contemporaneamente, nel Pd scemavano pacifismo e disarmismo. Per esempio, da quando D’Alema indossò l’elmetto per la guerra in Kossovo e i bombardamenti a Belgrado, molti, troppi in quell'area politica hanno lavorato in direzione opposta alla riduzione delle spese militari. Tutto è servito a giustificare il nuovo orientamento, il presunto prestigio dell’Italia, l’umanitarismo a buon mercato, la minaccia del terrorismo islamico, fatto sta che proprio ieri, mentre i pacifisti si preparavano alla Perugia-Assisi, due fondazioni, legate al Pd, entravano in polemica su questioni di politica militare. Quella di D’Alema, Italiani-Europei, che vorrebbe l’Italia specializzata in operazioni di peace-skipping, l’ICSA di Minniti (presidente onorario Cossiga), un dì delfino di D’Alema oggi franceschiniano, che sostiene l’ipotesi di interventi più incisivi e, all’occasione, più aggressivi. Ognuna delle due fondazioni ha i suoi generali di riferimento; l’una e l’altra vorrebbero un (seppure diverso) potenziamento dei sistemi d’arma.

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