9.5.10

Patti Smith a Terni (S.L.L. - da "micropolis" - febbraio 2002)

Quella qui pubblicata è una cronaca, la cronaca di un concerto ternano, niente di più. E non è opera di un giornalista specializzato e competente, ma di un non-giornalista tuttofare che seguiva l'evento per un mensile di politica. La colloco qui perché quella volta, per la prima volta, ho avuto l'impressione di scoprire la città, di intuirne qualcuno dei tratti meno appariscenti. E anche perché del concerto, di Patti Smith, del teatro, del pubblico, a più di otto anni, conservo un'impressione profonda. (S.L.L.)


Gira una voce: che Perugia, nonostante le sue Università, stia diventando una città sempre più conformista, borghese e filistea. Che ne siano prova, ad esempio, i cartelloni stagionali del Morlacchi o quelli del Festival della canzone d’autore. Tutto normalizzato, tutto sotto controllo, perfino la trasgressione.
Gira un’altra voce: che a Terni, nonostante il suo sindaco, il suo vescovo, il suo Agarini, qualcosa si muove, che c’è una gioventù attenta al nuovo benché non troppo incline alle mode. Che ne siano prova le stesse manifestazioni valentiniane, dentro le quali circolerebbe, insieme a tante melensaggini, anche qualcosa di autenticamente scandaloso, cioè di critico.
Forse queste voci sono ingannevoli, come tutte le generalizzazioni. Forse hanno ragione gli amici che raccomandano prudenza nei giudizi e dicono che Terni, la maggior parte delle sere, è una città morta, che fuori dal mese di San Valentino l’offerta culturale è scarsa e che la gioventù del luogo è omologata a quella di ogni altro luogo del globo. Pure nessuno mi toglie dalla testa che qualcosa di vero, in quelle voci, c’è. Il fatto che l’ottimo organizzatore della rassegna della Canzone d’Autore abbia preferito piazzare a Terni piuttosto che a Perugia i Madredeus e Patti Smith, qualcosa alla fin fine significa.
L’impressione è confermata dallo spettacolo che dà il pubblico al concerto di Patti Smith, la sera del 16 febbraio, al teatro Politeama. Il concerto, a quel che si sa, è uno dei pochissimi che la Smith terrà quest’anno in Europa, 5 o 6, ma non è stato pubblicizzato a dovere: qualche manifesto qua e là, ma niente conferenze stampa specificamente dedicate a questo spettacolo o presenze pubblicitarie sulla grande stampa. Il senso di misura e di sobrietà nell’organizzazione è forse dovuto alla certezza che il pubblico avrebbe lo stesso stipato il teatro. La gente che arriva all’inizio viene da fuori, perugini, romani. In genere gente di cinquanta o quarant’anni. Un medico perugino che conosco mi fa: “Anche tu reduce?”. “No, io cronista”. La paura di trovarmi nel bel mezzo di un raduno nostalgico sparisce presto. Arrivano donne e uomini, ragazze e ragazze di quasi tutte le età, dai quindici ai sessant’anni. Chi conosce l’ambiente mi spiega che sono quasi tutti ternani o dei centri viciniori. Non ci sono le pellicce, né c’è l’abbondanza di capi griffati che caratterizza i pubblici perugini: tanto casual di qualità discreta, ma di prezzo abbordabile. Del resto anche i biglietti si possono acquistare con 25 Euro.
Tanti, ma non paragonabili alle 120 mila lire di certi concerti perugini di Umbria Jazz. Le trasgressioni nelle pettinature, nelle barbe, nei gesti, sono presenti, ma contenute. Niente mi toglie dal cervello la convinzione che, se questa folla mi piace, dipende dalla storia operaia di questa città.
Lo stesso stile sobrio avverto quando, con qualche ritardo, Patti Smith entra da sola sulla scena. Non è un concerto rock spinto, del genere di quelli, che con il suo gruppo, ha realizzato l’estate scorsa a Firenze ed a Cesena. Qui cerca altre sonorità la celebre poetessa, cantante, pittrice americana, l’ultimo vento della beat generation. All’inizio legge poesie, d’amore e di pace, sue e di Borroughs. Conosco assai male l’inglese ed intendo poche parole. Pure il fascino della lettura è grande, la voce insieme profonda e roca, ma la pronuncia ed il ritmo sono taglienti. Si parlerà pure di pace e d’amore, ma non c’è nulla della melensaggine che impera e si sublima nelle celebrazioni valentiniane. Del resto la scaletta è stata preparata insieme a Susan Sontag, un’altra che come Patti non ha ceduto al richiamo e al ricatto della guerra di Bush.
Patti padroneggia la scena eccellentemente: viene avanti nel suo vestito rigorosamente unisex come i modi, poi indietro, poi di lato, sorride qualche volta. Parla poco. Più tardi, quando comincerà a cantare, le verrà anche da sputare. Apparirà sobrio ed elegante anche questo gesto. Anche se non ha ancora sessant’anni, mi succede come a De Amicis con la mamma sua: più la guardo e più mi sembra bella. Saprò dopo che l’impressione è comune a tante altre e altri. Il concerto, come mi spiegano quelli che ne sanno più di me, s’impernia sull’acustica, sui movimenti della voce, sul rapporto della musica con le parole. L’accompagna alla chitarra Oliver Ray, che ha trent’anni e che, come Patti spiegherà, in un’unica, tollerabile, concessione al santo di Terni, sta con lei da sette. Non mi pare che sia particolarmente bravo e gli esperti me lo confermano, ma la presenza e la voce di Patti bastano e avanzano per fare “l’evento”. Il bel pubblico segue attentissimo e applaude convinto, senza gli eccessi che usano coi divi. Si lascia trascinare a battere il ritmo quando la Smith intona i suoi pezzi più noti ed orecchiabili, Be cause the night e People have the power.

micropolis febbraio 2002

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