20.6.10

Il capo. L'articolo della domenica.

Nel presentare la cosiddetta “campagna d’estate” del Pd, prima nella conferenza stampa, poi nella manifestazione di ieri, Pier Luigi Bersani ha sottolineato come il suo Partito democratico aspiri ad essere “il Partito della Costituzione”, come la nostra sia la “Costituzione più bella del mondo” e come “sia lei avanti, mentre noi restiamo indietro”.

E’ una scelta da valorizzare, anche perché, nel Pd e intorno ad esso, accanto al partito della Costituzione c’è un altro partito, quello delle “riforme condivise”. Gli esponenti di questo partito mettono sempre le mani avanti, sottolineano che il loro riformismo istituzionale comporta l’aggiornamento solo della seconda parte della Costituzione e non prevede interventi sulla prima; tuttavia è difficile pensare che mutamenti ordinamentali profondi, realizzati anche attraverso la legislazione ordinaria, e riguardanti la forma di stato e di governo, l’equilibrio tra i poteri, il sistema dei controlli, le leggi elettorali, non incidano anche sui principi fondamentali, sulla loro interpretazione ed applicazione se non sulla loro formulazione.

Faccio un esempio evidentissimo. Il cosiddetto “federalismo fiscale” prevede la fissazione di standard minimi nei servizi che la Repubblica garantisce per consentire il godimento dei diritti indicati dalla Carta. Il risultato sarà che solenni affermazioni come “la Repubblica tutela la salute”, “la scuola è aperta a tutti”, “la Repubblica tutela il lavoro” saranno in pratica corrette con un “dove più dove meno”. Non sono così ingenuo da pensare che già oggi non ci siano differenziazioni territoriali profonde nel godimento dei diritti sociali, ma quello che oggi è uno stato di fatto da rimuovere, diventerà la norma e la normalità, accettabile ed accettata.

In verità, mentre Bersani assume una posizione che fu tradizionalmente del Pci berlingueriano per cui la Carta non era un feticcio da conservare ma la bussola del cambiamento, altri, in modi e forme diverse, insistono sul fatto che bisogna mettere fine “alla lunga transizione” e pensano che bisogna farlo in questa legislatura, anche se i rapporti sono favorevoli alla destra.

Berlusconi, evidentemente, preferisce escludere l’odiata sinistra dal nuovo “arco costituzionale” e vorrebbe “fare da sé”, procedendo per annunci e colpi di mano, per avanzate e ripiegamenti, senza un’apparente strategia, ma con grande chiarezza sui fondamenti fascistici del nuovo assetto. C’è un proverbio siciliano che recita “cu cumanna fa liggi”. Berlusconi vorrebbe appunto tradurre in leggi i desiderata del fascio di ceti e di interessi che si è agglomerato intorno a lui: l’esautorazione e l’emarginazione dall’area delle decisioni del movimento dei lavoratori, uno Stato sociale minimo, la massima tolleranza fiscale verso i ceti proprietari, la libertà d’impresa senza vincoli sociali ed ambientali e senza troppi controlli di legalità, la difesa dei privilegi delle corporazioni più forti, etc. Il tutto condito da una concentrazione e personalizzazione del potere politico a sua volta sostenuta da una ideologia populista.

Il partito delle “riforme condivise” vuole andare nella stessa direzione, ma senza spingersi troppo avanti. Nessuna meraviglia: mercato, liberalizzazione, privatizzazioni, semplificazione politica sono da due decenni la bussola dei “riformisti” e dei "nuovisti" del centrosinistra, non la Costituzione "invecchiata". Essi sperano che quei poteri forti che prediligono le "riforme condivise", banche e grande industria, alla fine l’abbiano vinta e, magari con l’aiuto della magistratura, li liberino dal “pazzo”; o che, comunque, nella destra vincano i dialoganti e che la follia del Cavaliere sia messa sotto controllo. In ogni caso la parola d’ordine è: senza Berlusconi se possibile, con Berlusconi se necessario. Ma l’accordo va fatto.

Ora Bersani sembra voler muoversi su un’altra lunghezza d’onda; non sappiamo dire se ce la farà. Lo schieramento degli “accordisti” è forte e fa riferimento ad entrambi i “cavalli di razza” del partito, D’Alema e Veltroni, il Massimo che ci provò con la Bicamerale e il Walter autore del “patto Veltrusconi” prima delle elezioni del 2008. Accordista è poi la pattuglia del “liberal”, quella di Morando e (dio ce ne scansi) Petruccioli, e pure quella degli “innestati” (Ichino, Colaninno etc.). Ma il capo degli accordisti (altro che capo dello Stato!) è al Quirinale, è Giorgio Napolitano, che dall’alto del suo magistero un giorno sì un giorno sempre raccomanda dialogo e condivisione, bacchetta il governo ma anche i suoi critici intransigenti, si atteggia a difensore della Costituzione ma ne proclama e reclama la revisione condivisa. L’untuoso ed intrigante migliorista non esita a frenare qualche istinto belluino presente tra berlusconidi e leghisti, ma sulle cose che davvero contano tace ed acconsente.

Faccio un altro esempio, la vicenda di Pomigliano d’Arco che ora in troppi tendono a sottovalutare e a silenziare. Lì si firma un accordo che condiziona il mantenimento dello stabilimento alla rinuncia da parte degli operai a diritti costituzionali che dovrebbero essere indisponibili (il diritto allo sciopero, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il diritto alla salute); lì sindacati asserviti al governo e al padronato organizzano un referendum tra gli operai, sotto il ricatto del licenziamento, che è l’irrisione della democrazia. Ci si aspetterebbe che l’inquilino del Quirinale, quotidiano esternatore e sistematico esercente della “moral suasion”, pronunci sull'argomento poche parole e nette, ma lui preferisce parlare d’altro, anche di cose giuste e importanti, ma altre; non è il garante della Costituzione “più bella del mondo”, ma partecipe di una “Costituzione materiale” che sottomette il lavoro e promotore della sua formalizzazione.

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