26.7.10

Quacquaraquà. A proposito di Leonardo Sciascia e di Ignazio La Russa.


Al mio paese e in diversi altri della Sicilia una classificazione gerarchica tradizionale suole distinguere gli esseri umani di sesso maschile (non mi pare che includa le donne) in uomini, “uminicchi” e “quacquaraquà”. 
Altrove, senza che la sostanza cambi, la gerarchia si amplia e giunge fino a cinque gradi: tra gli uomini e gli “uminicchi” stanno i “mezz’uomini” e tra gli “uminicchi” e i “quacquaraquà” c’è la categoria dei “pigliainculo” o anche “ruffiani”.
Questa più articolata distinzione usa Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta, uno dei suoi primi romanzi, che svela anche il contesto di diffusione, uso e abuso di questo stereotipo. Infatti nel romanzo ad esporre la teoria (e a significarne il disvalore) è il capomafia don Mariano. 
In bocca a lui essa appare funzionale alla subcultura mafiosa ed alle sue pratiche criminali: questa odiosa, quasi razzistica, gerarchizzazione delle persone serve infatti a giustificare l’omicidio ed il primato della prepotenza, degli "uomini" sulle altre categorie. 
A me pare evidente il fondo arcaico, quasi tribale, e fortemente maschilista di siffatte teorie e ringrazio Sciascia per averle così efficacemente demistificate. Immagino peraltro che egli ponesse nella testa più che nei testicoli il fondamento di una possibile distinzione tra le persone: uno dei suoi eroi, credo il più amato, frate Diego La Matina, è da lui definito “siciliano di tenace concetto”. Il concetto è, appunto, un fatto di testa. Del resto, anche nella simpatia per Vittorini, perfino per quello un po’ manicheo di Uomini e no, Sciascia mostra con tutta evidenza che il suo modo di pensare non ricalca affatto quello di don Mariano e del suo ambiente e si fonda su principi del tutto diversi. Se una distinzione nella specie umana bisogna proprio fare - lascia intendere il maestro di Racalmuto - è quella tra chi si batte, come può, per la verità e la giustizia e chi (quasi disumanamente) compie, organizza o serve l’ingiustizia e per farlo propaga la menzogna.
A complicare la cosa c’è in effetti il finale del romanzo. Qui è ancora don Mariano a dire la sua, a commento del trasferimento del capitano Bellodi e della sua sostituzione con un altro ufficiale dei carabinieri. Dice, più o meno, il capomafia: “Quello era un uomo, questo è un quacquaraquà”. 
La collocazione strategica dell’affermazione, quasi una “morale della fiaba”, ha indotto qualcuno alla convinzione, secondo me del tutto errata, che Sciascia, entro certi limiti, condivida il modo di pensare del suo personaggio. Lo ha fatto, di recente, anche Andrea Camilleri. In realtà, la “cavalleresca” affermazione del boss, che riconosce all’avversario tempra di vero uomo, contribuisce a demistificare ulteriormente la mentalità mafiosa, la cui cifra vera non è il coraggio, ma la vigliaccheria. Don Mariano, infatti, promuove il capitano Bellodi da “sbirro”, qual era all'inizio del romanzo, a “uomo”, solo dopo che i suoi protettori politici lo hanno subdolamente fatto trasferire, mettendolo in condizioni di non nuocere.
Resta il fatto che il romanzo di Sciascia, sotto questo aspetto, si sia prestato a letture diverse e persino contrastanti. Credo che capiti spesso alle opere di letteratura, specie a quelle di maggiore spessore. Sembrano avere connaturata una peculiare ambiguità.
Scrivo queste considerazioni dopo che ieri Ignazio La Russa, dalla tribuna di Orvieto, recuperando accenti e toni della “maschia gioventù” combattente con “romana volontà”, ha minacciato il finiano Fabio Granata : “Dica nomi e fatti, se no è un quacquaraquà”. 
E’ – credo – una conferma di quanto vado qui scrivendo: la tassonomia di "uomini, uminicchi e quacquaraquà" va nettamente rifiutata. E’ roba non solo da mafiosi e da maschilisti generici, ma anche da fascisti servili e ignoranti.

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