Da ragazzo preferivo la Vanoni a Mina e, a causa di Ornella, talora litigavo aspramente con mio fratello Vittorio, che, invece, era “minista” fin dalla più tenera età. Sulla Vanoni non ho, tutto sommato, cambiato idea; su Mina sì. Non era affatto un’“urlatrice”, ma una voce capace di tutto. Per questo in attesa di ribattere, visto che non si scannerizza bene, un grande pezzo della nostra sempre viva Rina Gagliardi sulle eroine della lirica, propongo qui (da “il Riformista” del 18 marzo 2010) un articolo su alcune eccezionali voci femminili: Mina appunto, ma anche la Callas e la Olivero (S.L.L.).
Una stella come l'eterna Callas
Si può essere grandi interpreti musicale anche sulla base di una “voce piccola” (come per esempio è oggi il mezzosoprano Cecilia Bartoli). Poi, però, ci sono le voci grandi, anzi le voci eccezionali, caratterizzate da estensione, potenza, ricchezza di armonici, quasi sempre anche da un timbro del tutto, appunto, fuori dal comune. Quante ne nascono in un secolo? Poche, ovviamente. E lasciano dietro di sé tracce mitiche – come è accaduto a Enrico Caruso, con la sua «cavata da violoncello» o al basso russo Fjodor Scjaliapin o al più recente, ma assai meno fondato, Luciano Pavarotti. Ma sono forse soprattutto le voci femminili a toccare i vertici dell’eccezionalità canora.
Tra le cantanti così dette pop, non solo italiane, Mina Anna Mazzini, in arte semplicemente Mina, è una di queste voci elette. Tanto che ha trascorso gli ultimi trentadue anni di carriera essendo, appunto, soltanto una Voce – lontana dai palcoscenici, dalle Tv, dai concerti e affidata interamente alla produzione discografica. Con un successo e un prestigio che continuano a non venir meno, come attesta il profluvio di celebrazioni che si terranno in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 25 marzo.
La voce – e il personaggio – di Mina esplosero alla fine degli anni ’50, rivoluzionando a forza di rock l’Italia ancora prigioniera di una tradizione melodica ormai alquanto impigrita. Ma in tempi molto rapidi assurse al ruolo di cantante “assoluta” – “absoluta”, sciolta, da schemi rigidi e limiti di repertorio. Quella voce divenne capace di interpretare tutto, dal jazz alle grandi melodie classiche di ogni Paese – e cantò in effetti nelle lingue più svariate, fino al giapponese. Universale e assoluta com’era stata Maria Callas, il soprano più leggendario del XXesimo secolo – il parallelo è di critici serissimi, come Rodolfo Celletti.
Che cosa accomuna, dunque, Mina e la Callas? Non è solo la straordinaria ricchezza della voce, capace di espandersi, in entrambe, su tre ottave e di raggiungere grandi livelli di virtuosismo. É la tensione interpretativa, quella che Verdi chiamava la «parola scenica», a rendere unico il loro modo di eseguire un brano musicale dotato di un testo – si tratti di un’aria o di un recitativo. o di una più semplice canzone. É l’intensità espressiva del loro canto, capace di illuminare da dentro - con la padronanza tecnica, la variazione anche impercettibile, il fraseggio originale - il senso profondo di quello che stanno cantando. Insomma, sono due speciali, specialissime cantanti-attrici, non, però, nel senso che si dà comunemente a questa espressione (la capacità di muoversi sulla scena e di usare tutto il corpo, qualità per altro che l’una e l’altra possedevano in alto grado), ma in quello vocale e comunicativo: la verità dei sentimenti o delle situazioni che di volta in volta rappresentano - il pathos, il dolore, l’allegria, il conflitto lacerante, la disperazione, la malinconia e mille altre – è sempre interna alla musica, alla parola musicale.
Quando la Callas, nella famosa scena della pazzia della Lucia di Lammermoor, si inoltra nei difficili trilli della cadenza, fino ad allora eseguiti, anche impeccabilmente, come un supremo esercizio di abilità, riesce di colpo a restituire il colore tragico e l’aura irreale, delirante, che quei gorgheggi devono esprimere – come si confà a una giovane donna che ha smarrito la ragione e ha appena commesso un delitto. Quando Mina interpreta una canzone che ha fatto storia, Se telefonando (l’unico pezzo leggero scritto da Ennio Morricone), la affronta proprio come un piccolo melodramma concentrato (la fine di un amore «cresciuto troppo in fretta») – dal pianissimo dolce, quasi vellutato, dell’attacco sale via via al forte del finale, assecondando in toto, con il pieno dispiegamento della voce, il carattere inesorabilmente ascendente del brano. Due esempi, tra i tanti che si potrebbero fare, per capire che cosa rende uniche, ciascuna a suo modo, ciascuna nel suo ambito, due cantatrici per tanti versi imparagonabili.
Ma c’è un altro parallelo a cui ci chiama il calendario. Gli astri hanno fatto nascere, il 25 marzo del lontano 1910, un’altra gloria dell’Italia canora: Magda Olivero, uno dei massimi soprani lirici del ‘900. La quale si accinge quindi a compiere i suoi primi 100 anni, e in condizioni di relativa freschezza vocale: l’anno scorso, quando di anni ne aveva appena 99, la Olivero ha stupefatto il pubblico intonando un’aria (Paolo datemi pace) tratta dalla Francesca da Rimini di Zandonai.
Quando aveva soltanto 83 anni, e si era ritirata da tempo dalle scene, incise una selezione dell’Adriana Lecouvreur, una delle opere che erano state sue per molti anni. Insomma, una longevità vocale a dir poco stupefacente. Quanto alla vocalità, pur essendo in possesso di una tecnica molto solida nonché di un perfetto controllo del fiato, la Olivero privilegiò il repertorio novecentesco – Puccini, Cilea, appunto, Mascagni, Catalani, insomma gli autori della così detta giovane scuola. In scena, da lei emanava una forza drammatica eccezionale, una sorta di impeto febbrile che emozionava anche le pietre – tanto che fu, a torto, accusata di verismo, lei che, tra le poche incisioni discografiche realizzate in gioventù, dopo il debutto del ’33, ci ha lasciato la più perfetta e virtuosistica interpretazione di Sempre libera, l’aria-simbolo della Traviata.
Ha senso un parallelo artistico tra Mina e Magda Olivero? Forse no, forse sono davvero due voci molto diverse – un altro critico eccellente ha scritto che, se Mina si fosse dedicata all’opera, sarebbe stata un soprano rossiniano, un «soprano drammatico di agilità» come fu in effetti la Callas e com’era stata, nell’Ottocento, la grandissima Maria Malibran (un’altra nata di marzo, guarda un po’, e per la precisione il 24 marzo 1808). In ogni caso, nemmeno un paio di anni fa, Mina l’ha affrontato il Puccini tanto caro alla Olivero – con una cifra stilistica, però, leggera, soft, sognante, lontanissima (non solo per ragioni vocali ma psicologiche) da ogni eccesso passionale. Il vero tratto comune, a ben pensarci, è la durata della carriera e la prolungata freschezza vocale: Mina Mazzini può ben pensare di avere di fronte a sé nientemeno che un altro trentennio di musica e canzoni. Per la gioia di un altro paio di generazioni di fans e melomani.
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