L. Elio Lamia, nato in Italia da un’illustre famiglia, non aveva ancora lasciatola toga pretesta quando andò a studiare filosofia nelle scuole di Atene. Si stabilì poi a Roma conducendovi, nella sua casa dell’Esquilino, circondati da giovani depravati, vita voluttuosa. Ma accusato di intrattenere criminale relazione con Lepida, moglie di Sulpicio Quirino, personalità consolare, e riconosciuto colpevole, fu da Tiberio Cesare esiliato. Aveva allora ventiquattro anni. Nei diciotto anni che durò il suo esilio, egli viaggiò in Siria, in Palestina, in Cappadocia, in Armenia; e a lungo soggiornò in Antiochia, a Cesarea, a Gerusalemme. Quando, morto Tiberio, Caio fu acclamato imperatore, Lamia ottenne di tornare a Roma; e riuscì anche a recuperare una parte dei suoi beni. Ler sventure lo avevano reso saggio.
Evitò ogni commercio con donne di libera condizione, non brigò per avere impiego pubblico, si tenne lontano dagli onori chiudendosi nella sua casa dell’Esquilino. Scrivendo quel che aveva visto di interessante nei suoi lontani viaggi traduceva – come usava dire – le sue pene passate in divertimento delle ore presenti. E nel trascorrere di questo piacevole lavoro e nell’assidua meditazione sui libri di Epicuro, ad un certo punto si accorse, con un po’ di stupore e un qualche rimpianto che la vecchiaia incombeva. Al suo sessantaduesimo anno, tormentato da un reuma assai incomodo, andò ai bagni di Baia. Questo lido, un tempo caro agli alcioni, era allora frequentato dai romani più ricchi e avidi di piaceri. E già da una settimana Lamia viveva solo e senza amici dentro quella folla brillante, quando un giorno dopo il pranzo, si sentì disposto, fu preso dalla fantasia, di salire alle colline che, coperte di pampini come baccante, si affacciavano al mare.
Arrivato a un punto alto, sedette sul muretto di un sentiero, sotto un terebinto, lasciando che lo sguardo vagasse su quel bel paesaggio. Alla sua sinistra si dispiegavano lividi i Campi Flegrei fino alle rovine di Cuma. Alla sua destra Capo Miseno spingeva il suo acuto sperone dentro il Tirreno. Ai suoi piedi, verso occidente, la ricca Baia, seguendo la graziosa curva del lido, apriva i suoi giardini, le sue ville popolate di statue, i suoi portici, le sue terrazze di marmo: sull’orlo di un mare blu da cui affiorava il gioco dei delfini. Davanti a lui, dall’altra parte del golfo, sulla costa della Campania dorata dal sole che stava per tramontare, splendevano i templi, che facevano corona ai lauri di Posillipo, e nella profondità dell’orizzonte il Vesuvio rideva.
-----
Postilla
E’ l’incipit di un racconto di Anatole France (1844 – 1924), Il procuratore della Giudea, che, a quanto ne scrisse Leonardo Sciascia, “è un apologo – e un’apologia – dello scetticismo più assoluto (e quindi anche della tolleranza che ne è figlia)”. Fu uno dei primi volumetti, il quarto precisione, della collana più importante di Elvira Sellerio, “La memoria”, quella degli eleganti volumetti blu, a quel tempo stampati dalla Luxograph, la più rinomata ed elegante tipografia palermitana. Era il 1980 ed il racconto dello scrittore francese risaliva al 1902. Lo aveva scelto e tradotto proprio Leonardo Sciascia che della signora Elvira era il consigliere più ascoltato e che aveva inaugurato la collana con il libro su monsignor Ficarra (Dalle parti degli infedeli); e la sua postfazione resta un piccolo capolavoro del genere. Consiglio pertanto a tutti la lettura del libricino. L’incipit mi pare peraltro per il suo nitore stilistico, classico, per la suggestione che comunica il paesaggio che lo conclude, un vero pezzo di bravura. Di Anatole France certamente, ma non dubito che abbia efficacemente cooperato la mano del traduttore. (S.L.L.)
Nessun commento:
Posta un commento