Propongo qui sotto una pagina che mi pare di grande vigore morale e comunicativo, quella che conclude Il negro e l’Altro di Frantz Fanon. Ne condivido soprattutto la preghiera finale. (S.L.L.)
La sfortuna dell’uomo di colore è d’essere stato reso schiavo. La sfortuna e l’inumanità del bianco sono d’aver ucciso l’uomo. Ancora oggi la sfortuna d’entrambi consiste nell’organizzare razionalmente questa disumanizzazione. Ma io, uomo di colore, nella misura in cui mi diventa possibile esistere in assoluto, non ho il diritto di confinarmi in un mondo di riparazioni retroattive.
Io, uomo di colore, non voglio che una cosa: che mai lo strumento domini l’uomo. Che cessi per sempre l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Vale a dire di me da parte di un altro. Che mi sia permesso di scoprire e di volere l’uomo dovunque si trovi.
Il negro non esiste. Non più del bianco.
Tutti e due debbono allontanarsi dalle strade inumane che furono quelle dei loro rispettivi antenati, finchè nasca una autentica comunicazione. Prima di impegnarsi nel senso positivo, la libertà deve fare uno sforzo di disalienazione. Un uomo, al principio della vita, è sempre congestionato, affoga nel contingente. La disgrazia dell’uomo è d’essere stato bambino.
E’ attraverso uno sforzo di ripresa su se stessi e di spogliamento, attraverso una tensione permanente della loro libertà che gli uomini possono creare le condizioni d’esistenza ideali d’un mondo umano.
Superiorità? Inferiorità?
Perché non cercare semplicemente di toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro?
La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?
Alla fine dell’opera ci piacerebbe che si sentisse come noi l’aperta dimensione di ogni coscienza.
Mia ultima preghiera: “O mio corpo, fai sempre di me un uomo che si interroga”.
Da Il negro e l’Altro, Il Saggiatore, Milano, 1965
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