26.8.10

La pasta frolla (di Pietro Fanfani)

Lo Spedale di Pistoia
E' qui postata una novelletta di Pietro Fanfani (1815 - 1879), letterato e funzionario dell'istruzione pubblica, autore (con Rigutini) di un celebre vocabolario ottocentesco. Il suo ritardatario purismo, avversato dal Carducci e dai suoi "amici pedanti", è all'origine di un toscaneggiare letterario che io trovo assai divertente. Tema del raccontino è una giovanile collettiva esperienza culinaria, non priva, specie nel finale, di qualche risvolto sociale.

Nei primissimi anni della mia gioventù, quando mi ero messo a studiar le scienze mediche nella scuola assai fiorente che era in que' tempi allo spedal di Pistoja, tra quelli spedalini, come si chiamavano gli scolari, che tutti passavano per scapati e un po' rompicolli, io ero forse il più rompicollo ed il più scapato di tutti.

Una volta che tutta la mia famiglia era andata in campagna, proposi ad alcuni miei compagni spedalini di fare un desinare in casa mia: ciascuno portasse una pietanza, e coceremmo ogni cosa noi nella cucina mia: io, che spesso avevo veduto fare la pasta frolla alla mia povera mamma, che mi voleva tanto bene, e alla quale davo tanti dispiaceri, io avrei fatto per il desinare una bella torta di pasta frolla, reputandomi un gran che nell'arte del pasticciere.

Non prima erano usciti di casa i miei, che la occupammo noi; e ci mettemmo al lavoro. Uova, farina, burro, zúcchero, latte per far la crema, tutto era preparato per il mio gran lavoro: scamiciato, sbracciato, con un grembiale dinanzi, mi metto all'opera, spettatori e assistenti tre o quattro di que' miei compagni. Faccio il mio monticíno di zúcchero e farina; faccio il buco nel mezzo, ci metto tre o quattro rossi d'uovo e del burro, e comincio a impastare, maneggiando e rimestando quell'intriso che parevo un pasticciere de' più consumati; ma quella pasta non voleva stare insieme. C'è poca farina, dice uno degli assistenti; e io metti della farina, e maneggia, e rimesta; la pasta tiene: Bravo, bene, sentiamo. Non sa di nulla! e tutti ad una voce ci troviamo d'accordo che ci vuol dell'altro zúcchero: fo il buco, metto lo zúcchero, impasto; ma era venuta dura come un sasso. Qui bisogna metterci del burro: - fo il buco da capo, metto il burro; lavoro di dita e di mani; e intanto la massa cresceva maledettamente.

Ma che ti par pasta frolla codesta? esclama Pippo Pacini; la pasta frolla dev'esser gialla, e codesta par pasta da pane. E io piglio altri quattro rossi d'uovo, fo il solito buco, impasto, e mi preparo a spianare. Eccoti un altro che ne assaggia un pezzetto: Ma che hai fatto? o se non si sente il dolce! e tutti una gran risata. - Qua lo zúcchero; - e venuto lo zúcchero, giù zúcchero senza misericordia: ma allora non istava più insieme.

Per farvela corta, ora rimettendo zucchero, ora burro, ora uova, ora farina, venne una massa spropositata di pasta, la quale ogni altra cosa poteva essere da pasta frolla in fuori. Mi misi poi a far la crema per il ripieno; e col solito modo dell'aggiungere e levare ingredienti, impazzò ogni cosa.

Ma la torta doveva pur farsi: spianai la pasta, a distender la quale ci volle una téglia spropositata, benché il foglio della pasta lo avessi fatto molto grosso, per adoprare tutta quella gran massa: misi la crema sopra il primo strato della pasta; la ricoprii con quell'altro strato; ci feci sopra de' girigògoli pur di pasta, e un bel contorno: inzafardai ogni cosa col chiaro d'uovo, e la mandai in forno, tenendomi per un pasticciere più bravo di Doney.

Venuta l'ora del desinare, si mangia e si beve lietamente: di parecchj fiaschi vedemmo il fondo, ed erano lì quattro bottiglie di vin santo da beversi sulla mia torta. Ecco la torta, ecco la torta. Si mette in tavola questo gran teglione che l'occupava tutta. Permìo! questa è l'arca di Noè. - Chiamiamo gente che ci ajuti a finirla. – Guarda guarda, quante screpolature! Insomma chi ne diceva una, chi un'altra.

Io la cominciai ad affettare, e la prima fetta la presi per me. Mi cascò il fiato: la crema a quel mo' impazzata, pareva una torta di panìco; e quella pasta non si sapeva di che sapore fosse: in alcuni punti era risecchíta; in altri flòscia e inzuppata; qua e là ci erano rimasti de' gavòccioli duri come palle da schioppo. Ora sto fresco! -

E di fatto, come prima que' demonj ebbero assaggiato questo pasticcio, non vi so dire se gli scherni e le canzonature piovevano: il più benevolo complimento fu quello di battezzare la famosa torta col nome di Polpettone, e di paragonare me a Gragnuola, che chiamavasi così un di questi chiccaj da ragazzi, vecchio, súdicio e sciatto, il quale andava attorno con una sua tegliaccia di paste, che i ragazzi compravano a un quattrin l'una, e che ad una persona pulita non ne sarebbe giovato a toccarle neppur co' guanti. Votammo però le quattro bottiglie di vin santo; ed io stavo lì a succiarmi tutte le canzonature per il polpettone, ridendo e bevendo con essi: poi, a quel mo' mezzi brilli, andammo col teglione sul terrazzino di casa mia, e a quanti ragazzi passavano, a tanti scaraventavamo un pezzo di quella torta, i quali tutti allegri se la pappavano e ne portavano a cielo me, che l'avevo fatta.

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Da Novelle ed altri ghiribizzi. Un'altra delle novelle del Fanfani è presente in questo blog ( http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/08/sero-sapiunt-phryges-una-novelletta-di.html )

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