13.8.10

Oliver Stone: "Racconto il coraggio dei leader sudamericani"

In un’intervista concessa a Nathan Gardels, partendo dal suo recente documentario A Sud del confine, Oliver Stone parla dell’America latina, dei suoi nuovi leader, della finanziarizzazione crescente dell’economia mondiale, del ruolo di Wall Street. Gli strumenti analitici che utilizza non coincidono necessariamente con quelli che preferisco, ma le attendibili informazioni e la lettura dei processi mi sembrano molto utili. Riprendo l’intervista dalla traduzione di Carla Recchia su “La Stampa” del 10 agosto 2010. (S.L.L.)

Mr Stone, come si vede nel suo recente documentario «South of the Border», la diplomazia statunitense e i media americani hanno reagito con ostilità all'emancipazione dei poveri e degli indigeni in Venezuela, Bolivia, Ecuador, Paraguay e, in certa misura, Brasile. Perché questo?
«Suppongo che sia dovuto al vecchio impulso imperialistico degli Stati Uniti verso l'America Latina: la protezione degli interessi delle imprese americane e il sostegno alle dittature militari durante tutta la Guerra fredda. Gli Stati Uniti restano ostili a chiunque sia di sinistra e arrivi al potere nel loro “cortile di casa”, a chi pensa che le risorse di un Paese appartengano al suo popolo. Per la prima volta dalla conquista spagnola, in America Latina i leader assomigliano alle persone che governano. In Venezuela Hugo Chavez ha avuto un’infanzia povera. In Bolivia Evo Morales è un sindacalista indio. Il brasiliano Lula è stato un leader sindacale e non ha avuto una buona istruzione. E tutti e tre sono stati diverse volte in carcere. Per la prima volta nella storia moderna gran parte del Sud America è fuori dal controllo degli Stati Uniti e anche del Fondo Monetario Internazionale dominato dagli Usa. Nel 2003 il Fmi aveva 20 miliardi di dollari in prestiti a Paesi dell'America Latina, oggi ne ha circa uno. Lula racconta nel film come ha resistito ai tentativi del Fmi di fargli riconfermare i prestiti al Brasile. Voleva sottrarsi alla dipendenza. I media statunitensi tendono a ignorare il fatto che la maggior parte dei poveri sta meglio oggi che sotto i passati regimi».

Eppure anche figure chiave della sinistra latinoamericana sono critiche nei confronti di Chavez, Morales e compagnia. Jorge Castaneda, ex ministro degli Esteri del Messico, divide l'America Latina tra la sinistra «irresponsabile» di Venezuela, Bolivia e Argentina e quella «assennata» di Brasile e Cile. La sua preoccupazione è che le «irresponsabili» politiche anti-globalizzazione e di spesa populista, sulla falsariga di Juan Peron, riporteranno l'America Latina al vecchio ciclo di inflazione, stagnazione, governo personalista e autoritario, corruzione e disillusione. C'è qualcosa di vero in queste critiche, a suo avviso?
«Oggi l'inflazione colpisce di più la classe media. E questo è un problema. In Venezuela l'inflazione era oltre il 100% nel 1996, due anni prima che Chavez fosse eletto la prima volta. Sotto di lui danneggia meno i poveri, perché ora hanno alloggi agevolati, istruzione e assistenza sanitaria. Per quanto riguarda il ruolo personalista e autoritario in stile peronista di Chavez, nel film l’ex presidente argentino Nestor Kirchner affronta l’argomento e dice: “Hugo mi piace, è un amico, ma gli dico che dovrebbe avere venti Hugo pronti a succedergli anziché pendere dalle sue labbra”. Questo è un problema. Se chiedete a Hugo, dirà: “Mi piacerebbe essere il presidente fino al 2020 per consolidare i miei cambiamenti”. Vuole un terzo mandato perché il Venezuela ha bisogno di attenzione costante per cambiare. Poi però mi ha detto: “Voglio lasciare. Prenderò la mia pensione e tornerò a vivere una vita confortevole nel mio villaggio”. Hugo Chavez non è un uomo ricco. Stando al potere non ha guadagnato un centesimo. Non è stato corrotto. Però membri del movimento chavista sono stati coinvolti in casi di corruzione. C'è una cattiva gestione, manca personale competente. Ci sono lamentele sulla corruzione del potere giudiziario, così come c'erano prima di Chavez. I suoi zelanti chavisti a volte sono i suoi più grandi nemici. Fanno cose stupide, perché sono così paranoici riguardo all'opposizione. Nessun dubbio, questi problemi esistono. E Chavez cerca di arginarli quando può. Ma davanti alla recessione non è stato così pronto con gli stimoli, come, per esempio, Morales in Bolivia. Come risultato, i suoi nemici sono alle porte. Sono sicuro che le prossime elezioni esprimeranno insoddisfazione. Ma se perde, se ne andrà. Rispetterà la legge. Ma il punto cruciale del mio documentario è come Chavez e altri leader in tutta l'America Latina stiano dando ai poveri una possibilità che non hanno mai avuto. La Banca Mondiale e le Nazioni Unite hanno entrambe riportato che l’estrema povertà in Venezuela è diminuita del 70 per cento sotto Chavez».

Alla fine del documentario lei dice di essere contro il capitalismo predatorio e per il capitalismo benevolo. E intanto sta girando il seguito del suo film del 1987, «Wall Street». Lì la battuta chiave di Michael Douglas era “l'avidità è bene”, qui “l'avidità è legale”. E’ questa la sua opinione sul modo in cui il capitalismo americano si è evoluto nel corso degli ultimi due decenni?
«Beh, sì, è calzante. Quello che ha portato al crollo delle banche è stata la speculazione sui soldi altrui - il gioco d'azzardo - nei traffici complessi di titoli altamente rischiosi per raggiungere “l’obiettivo” - cioè profitti più elevati. Evidentemente c'era qualche frode e un po’ di disinformazione da parte di agenzie di rating. Ma in gran parte era tutto legale. Il vero problema è se a banche come Goldman Sachs debba essere consentito fare affari per se stesse. Anche se la nuova legge di riforma pone il limite del 3,5 per cento nei loro fondi di investimento, e anche se queste operazioni sono quotate in una borsa pubblica, hanno ancora molto margine per questi giochetti. Il problema ora è che il timore di inflazione ha indotto la Fed a mantenere i tassi di interesse così bassi che vi è ben poco sui depositi bancari e così chi ha risparmi è costretto a rivolgersi al volatile e rischioso mercato. Siamo tutti spinti a forza nel giro dei casinò. Se Goldman Sachs e gli altri si occupassero solo di fondi di investimento, non ci sarebbero problemi, facciano quello che vogliono, si assumano i loro rischi. Ma non dovrebbe essere consentito a una banca commerciale a copertura federale di mettere a rischio i patrimoni di altre persone combinando guai che poi il governo è costretto a sistemare. Ci sono state banche che si sono comportate bene in questa crisi, ad esempio la Royal Bank of Canada, l’unica banca che ci ha permesso di girare nei loro locali. Non aveva nulla da nascondere. Il nostro sistema finanziario è andato in malora quando Sandy Weill ha reso Citigroup un supermercato finanziario che teneva insieme tutto, dal settore bancario tradizionale alla negoziazione di titoli di debito delle carte di credito. Le corporazioni finanziarie sono cresciute come enormi megaliti tra il 1970 e il 2008».

Quando ha deciso di fare il sequel «Wall Street: money never sleeps»?
«Lo abbiamo deciso sulla scia del crollo finanziario del 2008. Abbiamo fatto un bel po’ di ricerche prima di girare, parlando anche con i giovani banchieri che lavorano a Wall Street da appena due o tre anni e con persone che erano state alle riunioni chiave nel settembre 2008, quando iniziò il crollo e si decise di salvare le banche».

Il sottotitolo, «Money Never Sleeps»” (il denaro non dorme mai), riflette la continua finanziarizzazione dell'economia americana nel corso dei decenni?
«Sì. Nel film, il personaggio di Michael Douglas, Gordon Gekko, sottolinea un dato statistico: le società finanziarie rappresentano il 47 per cento dei profitti delle società americane di oggi. Negli Anni 80 credo fossero il 15 per cento. L'usura è diventata la più grande industria americana. L'avidità è legale».

E’ stato un problema ritrarre il contorto, opaco e noioso business della finanza in un film drammatico?
«Abbiamo dovuto esagerare e semplificare. Nei documentari e nei libri si può andare dritto al punto. In un film lo si deve mettere in scena. Ma, mentre l’economia è cambiata, le scelte della vita sono le stesse, i problemi sono gli stessi: l’avidità è buona? Funziona? I valori umani sono più importanti di quelli finanziari? Tutte questioni che ciascuno di noi a modo suo deve affrontare».

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