9.9.10

Lavatrici di ieri, povertà di oggi (di Roberta Carlini per "La Rocca" di Assisi)

Questo articolo è inquadrabile nel genere “recensioni” ed è, nel suo genere, un testo esemplare, da offrire come modello ai ragazzi che studiano giornalismo. Roberta Carlini vi espone con chiarezza i contenuti del libro e le intenzioni degli autori svolgendo con artigianale impegno, e così nobilitando, quelle che Fortini chiamava “attività intellettuali servili”; nello stesso tempo individua i nodi cruciali e problematizza l’esposizione, facendo venire la voglia di leggere il libro e di prendere partito.

Per i libri di economia e di politica economica conosco un solo recensore che regga il confronto con “Robertina”, un perugino che vive a Vicenza, Roberto Monicchia, detto “Robertino”, che ogni mese racconta un libro su “micropolis”. Qualche anno fa Monicchia raccolse in un "pamphlet" della editrice perugina Giada (Il mondo a pezzi), un un buon numero di articoli. Tuttora li si legge con gusto e utilità come sintesi critica dei dibattiti di economia e politica nei primi anni del millennio; e anche come profezia (allora tutt'altro che scontata) della crisi incombente. (S.L.L.)

Nel ’65 – appena quarantacinque anni fa, quando è nata la generazione che adesso dovrebbe essere tra le colonne portanti della società – meno di una famiglia su quattro aveva in casa la lavatrice. La metà invece aveva già in casa la televisione. E’ un dato che colpisce, nella miriade di numeri sapientemente illustrati in una particolare storia economica della società italiana: quella de Le famiglie italiane, scritta dagli economisti della Banca d’Italia Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, per la collana del Mulino dedicata alla divulgazione di base delle scienze sociali, e intitolata appunto “Farsi un’idea”.

Ecco, per farsi un’idea di come sono andate le cose per la generazione di donne e uomini che adesso è in pensione, ricordiamoci questi numeri: dal ’55 al ’65 la percentuale di famiglie – ma diciamo pure: di donne – in possesso di lavatrice è salita dal 2 al 23%. Tanto. Ma ancora pochissimo, rispetto ai bisogni. Quel dato dice che tre donne su quattro dovevano lavare a mano lenzuola, vestiti e biancheria pur essendo disponibile e accessibile una fantastica tecnologia che poteva evitare quella fatica. Una tecnologia lenta a trasformarsi in benessere collettivo. Più veloce era stata la diffusione di tv e frigorifero, il cui possesso balzò negli stessi anni dal 10 al 50% delle famiglie. Ci si chiede perché, mentre si immaginano soddisfatti capifamiglia – breadwinner, dicono gli economisti – sedersi davanti alla tv in bianco e nero comprata a rate mentre qualcuna lava le camicie. Poi si va alla pagina successiva, e si vede un’altra evoluzione non neutrale della tecnologia, più recente: il possesso di cellulari, balzato dal 21 al 73% tra il ’97 e il 2004 (ma adesso staremo molto più su); e quello dei computer, per il quale l’ultimo dato è più recente, e parla di una diffusione al 46,1% delle famiglie nel 2006; in tre casi su quattro, si precisa, al possesso dei computer si associa una connessione internet. Che di certo conta – o potrebbe contare, dipende dagli usi – almeno tanto quanto la lavatrice, nella diffusione del benessere collettivo.

Il libro di Cannari e D’Alessio non è incentrato su lavatrici e telefonini; ma lo spiccare di alcuni dati di questo tipo fa capire come la lettura ponderata dei numeri possa emancipare l’economia da quella “dittatura del Pil” che adesso è da tutte le parti sotto accusa e processo. Anche da parte degli stessi autori del libro, economisti di rito ortodosso – non certo dei pericolosi picconatori della “scienza triste” – che però assumono e spiegano in parole semplici tutte le novità che sono intervenute, con particolare visibilità negli ultimi anni, nella misurazione di “ricchezza, povertà e felicità”. Il libro si apre proprio con un capitolo, “misurare il benessere”, che di questo dibattito riporta il succo e il senso; e poi ne sviluppa le premesse, evitando di fare una storia dei bilanci delle famiglie italiane tutta centrata su una limitata misurazione di Pil, consumi e redditi. Che ovviamente sono importanti, ma che non spiegano quello che è il paradosso centrale attorno a cui si sviluppano i dilemmi delle famiglie italiane: perché alla costante ascesa degli indicatori di benessere materiale non corrisponde una parallela e proporzionale ascesa degli indicatori, soggettivi e oggettivi, del benessere e della felicità pubblica? Colpa della rappresentazione dei media, come dice il padrone e presidente di gran parte dei nostri media? Colpa di una “crisi di crescita”, per cui quando ci si emancipa dai bisogni più immediati e materiali le aspettative e le pretese diventano più alte? Colpa delle forti diseguaglianze che caratterizzano il nostro paese, e che ovunque – è stato argomentato nel libro brillante di Wilkinson e Pickett La misura dell’anima – rendono più infelici e meno competitive le società? Colpa della globalizzazione, che ci mette a confronto con chi fa meglio, più velocemente e con più mezzi? O è colpa della nostra incapacità collettiva a tener dietro a tutti questi mutamenti messi insieme?

Sono domande cruciali, non solo per l’interesse teorico di un libro – importante, proprio perché divulgativo -, ma soprattutto per la fase critica in cui è tornato ad avvitarsi il nostro sistema, mentre la scena politica non se ne cura e recita un soggetto tutto autoreferenziale. Il viaggio nei numeri raccontato nel libro risponde a molte di queste domande, e soprattutto sottolinea l’importanza dell’ultima, del fattore politico e istituzionale. “I grandi cambiamenti che hanno caratterizzato la società italiana hanno generato bisogni nuovi cui le istituzioni non sono sempre stato in grado di dare risposte adeguate”, si legge nel libro. E i cambiamenti, e vederli rapidamente scorrere in numeri, sono davvero grandi: il passaggio rapido da una società di giovani a una società di anziani; da un paesi di emigrazione a un paese di immigrazione; da strutture familiari allargate a nuclei familiari ristretti; e insieme, l’ascesa dell’occupazione femminile, la forte crescita dell’istruzione superiore e universitaria, il balzo della proprietà delle abitazioni… Tutti fenomeni che spesso hanno un impatto non univoco sul benessere e sulla convivenza sociale.

Prendiamo per esempio l’aspetto distributivo: l’eguaglianza, valore un po’ fuori dalle mode politiche degli ultimi decenni. A guardarne l’andamento generale, l’indice che misura il grado di diseguaglianza della società italiana ci dice due cose: che siamo una delle società più diseguali del mondo ricco, allineati con gli anglosassoni; e che la diseguaglianza si è progressivamente ridotta negli anni ’60 e ’70, per poi riprendere a crescere e infine stabilizzarsi. Un dato che riflette una storia nota – l’ascesa del potere organizzato del lavoro dipendente, e l’esito delle rivendicazioni sul salario e sul welfare negli anni ’70, e poi il suo declino -, ma che nasconde molte altre sfaccettature. Ad esempio, il progressivo ridursi del ruolo redistribuivo della famiglia (evidente quando si comparano gli indici delle famiglie e quelli degli individui); l’andamento a fisarmonica del rapporto tra la categoria dei dipendenti e quella degli autonomi/imprenditori, con questi ultimi che si sono ripresi rapidamente il terreno lasciato nel decennio “egualitario”; e il disastroso gap generazionale. Gran parte della riduzione della diseguaglianza, si legge nel libro, è dovuta al fatto che aumentano i percettori di reddito: e questi aumentano soprattutto tra gli anziani. Il che non vuol dire che i vecchi sono tutti ricchi, ma che certo sono più ricchi di trent’anni fa; e questo rende la società nella media più “eguale”, ma va anche a compensare, nelle medie, l’aumento della diseguaglianza tra i giovani e tra le generazioni.

Rischiamo di essere una società assai più disuguale di quel che sembra. E anche molto poco attrezzata al futuro, per una serie di criticità che – se si esclude quella “storica” del divario Nord/Sud, clamorosamente confermata negli anni – negli ultimi tempi si sono andate tutte addensando sulle fasce giovani della popolazione: l’incertezza lavorativa; i deludenti dati sugli esiti scolastici – i test internazionali sulle competenze, che fanno da contraltare ai numeri positivi sulla diffusione di lauree e diplomi; le difficoltà abitative; la scarsissima mobilità sociale e generazionale. Gli autori non si iscrivono al partito del declino o del pessimismo: servono più istituzioni e più collaborazione, dicono, ripartendo equamente il peso tra politica e società, e rifiutando implicitamente il facile luogo comune per cui il bene sta tutto di qua e il male tutto di là.

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