18.9.10

Anime belle e socialismo: ritorno al futuro.

Rocco Mazzarone

Goffredo Fofi, nella sua rubrica su “l’Unità”, La domenica degli italiani, del 27 dicembre 2009, sotto il titolo Anime belle, le vite parallele (http://www.unita.it/news/93099/anime_belle_le_vite_parallele) prendendo spunto dalla pubblicazione delle loro biografie, disegnava il profilo di due figure importanti (e dimenticate) della storia repubblicana, quasi due exempla di moralità politica per l’anno a venire: Tullio Vinay, un pastore valdese che costruì a Riesi, in Sicilia, un’esperienza comunitaria molto importante anche sul piano politico e sociale, e Rocco Mazzarone, espressione di un meridionalismo fattivo che nella sua Lucania costruì esemplari interventi di medicina sociale. Ai due “maestri” Fofi accompagna un “maestra”, Bianca Guidetti Serra, avvocata e militante della sinistra, di cui recuperava una illuminante aforisma : “Non ci si mette in un’impresa di riforma del mondo con le misere forze di cui possono disporre un singolo, un piccolo gruppo, perché si è convinti che essa avrà buon fine, ma semplicemente perché è giusto così”. La storia – dice Fofi – non sembra dare ragione a persone come queste, integre e intransigenti, ma “agli opportunisti e alle canaglie” e tuttavia la loro vita resta lì a ricordarci un dovere da compiere, nonostante tutto.
C’è nel titolo un evidente riferimento a Togliatti che sovente polemizzò con le “anime belle” che non tenevano nel giusto conto le esigenze della politica con cui era inevitabile sporcarsi le mani se si voleva ottenere. Il riferimento non è sviluppato nell’articolo se non nella citazione dei “funzionari della politika” che non capivano i suoi discorsi perché troppo semplici. A mio giudizio il pezzo di Fofi è – come sovente accade – molto bello; e tuttavia rimane in esso e forse in Fofi una interna tensione irrisolta. Ho già proposto in questo blog una poesia di Brecht tra le più belle, Il dormitorio (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/una-poesia-di-bertolt-brecht-il.html). Mi pare che essa esprima al meglio la tensione di cui parlo. Racconta di un uomo che a New York la notte dà ricetto e letto ai senzatetto: questa sua azione fa certo del bene a quegli uomini che per quella notte saranno risparmiati dalla neve, dal vento e dal freddo, ma non muta il mondo e non rende più breve l’epoca dello sfruttamento. Brecht (lo si intende leggendo il testo) non costruisce affatto una rigida gerarchia tra due pratiche, una particolare (la fruttuosa carità verso quelle determinate persone), l’altra generale (la lotta politica per accelerare la fine del sistema dello sfruttamento); denuncia un conflitto, almeno apparente. Io credo che questo tempo orrendo, in cui la sconfitta obbliga la sinistra a ripensarsi, può portarci a una consapevolezza che aiuta a risolvere il dilemma di Brecht. Il comunismo novecentesco ha nei fatti ha subordinato tutto (o quasi) a una conquista del potere politico ritenuta salvifica; ha perciò letto come una deviazione dal compito principale, se non come “riformismo” o “filantropismo” le esperienze di intervento e di riforma sociale dal basso fondate sul qui ed ora, spesso assai limitate nelle dimensioni. Questo approccio è sbagliato e sotto questo punto di vista è bene tornare all’Ottocento, a un socialismo che tentava di far confluire in un solo grande alveo (“il gran partito dei lavoratori”) il fine di una trasformazione generale della società, la presenza politica nelle istituzioni, la lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento e per i diritti, il vasto tessuto comunitario e associativo che fa della solidarietà (il rispondere l’uno dell’altro) e della carità (l’amore per i propri simili) la molla per cominciare nel piccolo a cambiare in meglio le cose. Le esperienze di uomini e donne come Vinay o Mazzarone o Guidetti Serra o Capitini, per quanto limitate e in molti casi soffocate, non sono affatto una deviazione dal fine, ma una sua prefigurazione; ad allontanare la fine dell’era dello sfruttamento è stata assai più, sia tra i socialisti che tra i comunisti, la politica politicante che troppo spesso ha cercato nei fini l’alibi di pratiche che ribadiscono l’oppressione piuttosto che abbatterla.

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