10.9.10

Luigi Pintor e "il manifesto": un maestro involontario. (da "Servabo")

Ho già proposto in lettura il capitolo IX di Servabo (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/09/luigi-pintor-gregario-lunita-da-servabo.html ), il libro di memorie di Luigi Pintor pubblicato da Boringhieri nel 1991. Qui si propone il XII, dedicato alla “replica avventurosa” della giovinezza di giornalista, alla nascita de “il manifesto”, il quotidiano che Luigi inventò e, in più riprese, diresse. Il precetto dell’antenato cui s’allude nella conclusione coincide con il titolo del libretto, “servabo” appunto, che secondo quanto Pintor stesso scrive “può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile”. Sugli avventurosi inizi del “quotidiano comunista”, allora allocato in via Tomacelli 146, si può vedere in questo stesso blog la testimonianza di Rina Gagliardi (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/via-tomacelli-146-di-rina-gagliardi.html). (S.L.L.)

Il vecchio ingranaggio è in pezzi ma il momento della rassegnazione e della resa non è ancora arrivato. L’ordine non regna ancora sotto il cielo, focolai ardono ancora da ogni parte, nelle infime periferie e nelle metropoli esuberanti. Se appiccheranno un nuovo incendio o siano sparsi residui fumanti è difficile da stabilire, ma lo stato d’emergenza non può essere ancora revocato. Di diverso c’è che adesso bisogna camminare sulle proprie gambe.

Mi trovo dopo trent’anni in un giornale povero, simile di nuovo a una comunità o a una scuola, ma questa volta con regole proprie e senza severi maestri. Maestro involontario questa volta sono io. Non so dire se sia una seconda giovinezza o un amore senile, le due cose coincidono spesso. Di certo è una replica avventurosa, con le attrattive e i disinganni di ogni replica. E’ divertente spolverare il vecchio teatro, riattrezzare le quinte, ricalcare il palcoscenico con i vecchi costumi, provare le luci e guardare le sedie vuote della platea in attesa del pubblico che forse verrà e forse no.

Sono come sempre un gregario nell’animo e ricomincio con la stessa diligenza ad accumulare mille pagine di calendario. E’ una vita sempre improvvisata, con le stesse abitudini artigianali, lo stesso odore di inchiostro e piombo, le stesse dispute sproporzionate e gli stessi errori, anche se non è più d’uso fare l’alba e se meno innocenti distrazioni prendono il posto dei giri notturni in camioncino. Ogni reverenza è bandita, la libertà o la licenza sconfinano piacevolmente nell’anarchia.

Sono giorni d’invidia per uno come me. Questa generazione di figli cammina con un’altra leggerezza, le ragazze sono tutte bellissime, tutti hanno strani abbigliamenti e dormono pacificamente nelle aule scolastiche dove noi avevamo tremato. Tutti parlano un linguaggio primitivo ma parlano sempre, come noi non avremmo osato, e sono sicuri di sapere anche quello che non sanno affatto. Gli operai girano in corteo con i tamburi di latta. Molti dei signori che abitano in sontuosi palazzi o siedono in alte cattedre si vedono esposti al dispetto. Sono forse effimere vittorie che tuttavia la generazione dei padri e delle madri, con la sua guerra e i suoi sogni e le sue pene, non ha mai conosciuto.

In questa comunità, fortilizio dell’ultima rivoluzione, spiccò il terzo giorno un gran cartello cinese contro il maestro involontario che ero io. C’era finalmente qualcuno che vendicava la soggezione dei nostri anni giovanili. Sapevo che questo spirito ribelle si sarebbe presto acquetato, che avrebbe conosciuto le nostre stesse delusioni, che ci aggiravamo in una catacomba soleggiata e non era il caso di confondere i nostri fumi d’incenso con la polvere da sparo. Ma tenevo per me queste consapevolezze perché era bene che cento fiori fiorissero.

Un inconveniente dell’età è di vedere in anticipo gli errori che ciascuno ripete nel rincorrersi delle generazioni, secondo una legge che si direbbe naturale. Così ho visto anche questa replica inciampare negli stessi ostacoli, la fantasia cedere il passo agli schemi che imprigionano la mente, le nuove intuizioni scivolare nelle vecchie credenze, l’amicizia rovesciarsi nella competizione, i mezzi e i fini dissociarsi tra loro come immancabilmente accade.

Eppure quest’avamposto nel deserto dei tartari, sorto in obbedienza al precetto del mio ignoto antenato, ha resistito quasi per miracolo a molte intemperie, non ha abbassato del tutto le insegne, non è stato ingloriosamente invaso dai rovi come altre superbe fortezze che si dicevano inespugnabili. Per alcuni ha fatto le veci di una minuscola isola verde, un’isola garbata. E qualche volta mi capita di pensare che anche i molti fantasmi che popolano i miei ricordi l’abbiano frequentata.

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