12.9.10

Perchè c'è un popolo che ama Berlusconi e odia la sinistra. L'articolo della domenica.

Sabato 11, nella telefonata alla cosiddetta Scuola di Gubbio, il raduno di fine estate inventato da Baget Bozzo, il Cavaliere ha detto di essersi sempre tenuto lontano dalla “politica politicante”. L’espressione sembra aver sostituito nel suo linguaggio quella, un po’ usurata, del “teatrino della politica”. Non capisco quale ne sia esattamente il contenuto (penso che non lo conosca neppure il Cavaliere), ma credo di sapere quale messaggio egli intenda comunicare e ne trovo conferma in quel che sento in giro.

Qui dove sono, al paese natìo, compro il giornale da un tipo che si cimenta in molteplici attività: acquista, affitta e rivende immobili, commercia in vini e oli anche all’estero, fa qualche mediazione sui prodotti agricoli. Ama chiamarsi imprenditore, ma è un negoziante, un piccolo uomo d’affari che nulla intraprende di veramente rischioso. L’altra domenica mi fa: “Non immaginavo che Fini fosse così, che si infilasse in simili giri di bagasce, favoritismi e altre porcherie”. Avevo fretta, gli dissi solo che l’antagonista di Fini era nella materia molto più esperto. Per tutta la settimana ho risentito qua e là la stessa solfa, al supermercato, al bar, dal pescivendolo: “Non l’avrei mai detto che Fini …”. Venerdì sera, in attesa nell’affollata sala d’aspetto di uno studio professionale, incontro un vecchio compagno di scuola che fa l’agricoltore e arrotonda usando il camioncino per trasporti vari, un lavoratore che ha cresciuto i figli e mantenuto la famiglia ma con molta fatica. Ho udito anche lui dichiarare: “Da Fini non me l’aspettavo…”. E’ evidente che la “cura Boffo” ha funzionato.

Ho cercato questa volta di articolare il confronto con Berlusconi, spiegando. Ciò che si dice di Fini non è bello – gli dico - ma è niente rispetto a quel che si dice di Silvio, sul cui capo pendono accuse gravissime e documentate alle quali non ha mai dato risposte e per le quali, prudentemente, non ha mai sporto querela. Gliene cito alcune: la provenienza del denaro nei primi investimenti, la villa e la tenuta fregate alla marchesa Casati, i rapporti con Craxi, i falsi in bilancio, la corruzione dei giudici. Gli parlo delle feste a Palazzo Grazioli o in Sardegna, pubblicizzate da foto e registrazioni telefoniche, con politicanti stranieri in costume adamitico e giovinette cui il nostro, in veste di “Papi”, distribuiva gioielli tirati fuori dalle tasche. L’amico mi ascolta, ma non sente. Forse mi crede, ma non mi dà credito. Magari conosce già le cose che dico, ma non gliene importa. Nel suo modo di pensare, rispetto a Fini, Berlusconi è tutta un’altra cosa e per lui non c’è legge che valga, né penale né morale.

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Il Capo

Quando Berlusconi ripete che non fa “politica politicante”, che non partecipa al “teatrino” è a questo tipo di persone che manda un messaggio: io sono l’Imprenditore – fa capire – sono un uomo che fa politica ma è già un nababbo, che non h bisogno di rubare. Se pertanto ha incastrato marchese, aggiustato bilanci, fatto regali ai giudici e alle ragazzine sono fatti suoi. Il “politico politicante” si può giudicare e stigmatizzare, lui no.

E’, mutatis mutandis, come il “duce” del ventennio, cui si perdonavano senza esitazioni scappatelle, amanti, nepotismi, favoritismi, abusi d’ogni tipo, nascosti dalla stampa ufficiale ma da moltissimi diffusi, risaputi e creduti. Era il capo. E un capo fa ciò che gli pare: l’impunità ne aumenta la mitica invulnerabilità.

Anche Berlusconi, nell’idea che se ne sono fatta i suoi sostenitori, non può e non deve soggiacere alle regole che vanno bene per gli altri politici e deve poter usufruire, in quanto capo, di una sorta di extraterritorialità, appellandosi a un tribunale superiore a ogni altro, quello del Popolo.

Mussolini la sua superiorità, la differenza dai “politicanti” di mestiere pensava di averla guadagnata con l’interventismo e la guerra (poco importa se fatta o millantata), con la militarizzazione della politica, con i colpi di mano e la marcia che lo aveva condotto al potere. Aveva parlato lui stesso di “trincerocrazia”. Il Cav pensa di aver conquistato la primazia politica in primo luogo con il disprezzo delle regole televisive, forzando le leggi sull’emittenza, foraggiando Craxi e gli altri politicanti, imponendo progressivamente a tutti la sua “telecrazia”.

Verso di lui (come un tempo verso il “figlio del fabbro”) sembra vigere da parte del “popolo” un irresponsabile affidamento: ci si mette nelle mani di un Capo, ritenuto capace di fare gl’interessi di tutti per la sua scaltrezza, spregiudicatezza, amoralità, capacità di imbonimento e lo si lascia fare senza controlli o limitazioni. Il sogno originario era: Berlusconi continuerà ad arricchire se stesso e i suoi e pertanto, prima o poi, ci arricchirà tutti. Oggi con la crisi l’illusione s’è ridimensionata: Berlusconi salverà se stesso e i suoi e pertanto, in qualche modo, ci salverà tutti.

Non so se questo affidarsi sia parte del “carattere nazionale”, se confermi la tendenza che si attribuisce all’italiano di venire in soccorso del vincitore; so che esso è fortemente incoraggiato dal vuoto di speranza che è stato lasciato a sinistra.

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Il tradimento

A Nord come al Sud c’è un pezzo di popolo che stava a sinistra o era vicino alla sinistra che rifiuta l’attuale ceto politico del centro sinistra e della sinistra e si affida alla destra. Si tratta di proletari, sottoproletari e semiproletari, di lavoratori dipendenti del privato, di operai, casalinghe e commesse, di disoccupati, di pensionate e pensionati, di artigiani, piccoli bottegai e ambulanti. A Nord dividono il proprio voto tra la Lega e Berlusconi, al Sud e nelle isole votano Berlusconi. I loro nonni e padri e non pochi di loro avevano un tempo creduto nella sinistra che con Pertini esaltava l’incorruttibile “onestà” socialista e con Berlinguer rivendicava la “diversità” comunista: pensavano che gli uomini politici della sinistra non fossero “come tutti gli altri”; speravano che le idee, la moralità, i meccanismi di selezione e di rotazione in uso nella sinistra portassero nelle assemblee elettive, nei governi e nelle giunte uomini e donne disinteressati, pronti a difendere il valore dell’uguaglianza, impegnati a mettere fine al privilegio della ricchezza e allo scandalo della povertà.

Essi si sono sentiti e continuano a sentirsi traditi, e con molte buone ragioni. Hanno infatti assistito al rapido tramonto dell’Urss: il progetto di uguaglianza che dall’Ottobre del 1917 aveva segnato la storia del Novecento si è chiuso tra l’89 e il 91 nell’ignominia, nella vergogna generalizzata. In quella che era stata la patria ideale del socialismo e una superpotenza politica i gerarchi, a cominciare dai parenti di Brezhnev, si erano dedicati all’arraffa-arraffa, mentre le code per il cibo si allungavano.

Ma la disillusione popolare sulla sinistra nostrana non è stata meno cocente. Su come il craxismo abbia operato sul vecchio ceppo del Psi una mutazione genetica c’è poco da aggiungere. Ma anche il Pci, negli stessi anni, subiva una degenerazione: Berlinguer, quando insisteva sulla “questione morale” e sulla “diversità”, sapeva di rivolgersi anche ai “suoi”.

Queste tendenze all’omologazione si sono accentuate dopo la morte di Berlinguer: il grosso dei quadri del Pci, insediati nell’apparato, nelle istituzioni rappresentative e nel governo locale, sostenne la svolta di Occhetto come liberazione da ogni condizionamento egualitario, come abolizione di ogni freno inibitorio.

Da allora, ininterrottamente, i lavoratori, i pensionati, i poveri perdono reddito e diritti. Anche nei periodi di governo del centro sinistra, anche per le politiche del centrosinistra.

E intanto nel quadro postcomunista del Pds-Ds-Pd si sono affermati personalismi, carrierismi, arricchimenti ostentati, ammanicamenti con banchieri, finanzieri, costruttori, cementieri, stili di vita totalmente opposti alla tradizionale sobrietà. Il processo di corrompimento, del resto, non ha risparmiato neanche i residuati comunisti. Alla rischiosa apertura e alla radicale revisione del passato stalinista proposte da Garavini preferirono quasi subito logiche d’apparato. Ne nacquero due partitini, uno a volare alto con Bertinotti, l’altro a rinverdire memorie con Cossutta e Diliberto, entrambi inutili tranne che per i “compagnucci della parrocchietta”.

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Un paese di destra?

E’ dentro questa vicenda lunga che una parte significativa di classe operaia, di proletariato e di popolo, che votava o simpatizzava per il Pci, oggi non si limita a diffidare del ceto politico di sinistra, ma, senza fare molte distinzioni, lo odia. E quest’odio si trasmette anche ai più giovani, maturati dopo l’89 nelle fabbriche e nei quartieri popolari. A questo pezzo grande di popolo non importa che quegli altri siano anche peggio: quelli si sapeva già di che pasta erano fatti, non hanno tradito una speranza, non si sono accaparrati privilegi dopo aver predicato l’uguaglianza. Odiano la sinistra; e usano il diritto di voto a dispetto, contro la sinistra. Tanti non votano, ma molti – lo abbiamo già detto - si consegnano a Berlusconi. O alla Lega. O scambiano il voto con i favori di un notabile.

Bisogna guardare in faccia la realtà profonda del voto italiano senza accettare la storiella autoconsolatoria e autodifensiva che racconta D’Alema, quella secondo cui l’Italia sarebbe un “paese di destra”. Nel 1976 il voto del Pci, Psi, Dp e Radicali (allora chiaramente collocati a sinistra), superava il 45% dei voti e aree e sensibilità di sinistra erano ampiamente presenti nella Dc o in altri partiti come il Pri o il Psdi. L’Italia è diventata sempre più un “paese di destra” per le ignobili politiche e gli ignobili comportamenti dei gruppi dirigenti della sinistra, al centro e ancora più in periferia, dove i legami affaristici, i tratti arroganti, i clientelismi, gli arricchimenti leciti e meno leciti sono più visibili. E molti poveracci continuano ad affidarsi a Berlusconi, nonostante tutto, e a garantirgli uno “statuto” speciale, perché odiano la sinistra.

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Putrefazione e schifo

Oggi la situazione italiana è disperante. La crisi avanza e i poveracci vengono messi sotto col lavoro sottopagato, reso servile e pericoloso per la salute e per la vita; per altri c’è la disoccupazione senza protezioni; i deboli, i vecchi, i malati sono sempre più lasciati a se stessi; e nel generale disastro, come sempre, c’è chi s’ingrassa. Qualcuno nei giorni scorsi ha ricordato l’8 settembre del 43: una guerra perduta, il fascismo in disfacimento, un generalizzato “si salvi chi può”. Si respira la stessa aria in questi giorni: il “regime” dà molti e gravi segni di putrefazione prima ancora di essersi stabilizzato. Quel che avviene nei luoghi del potere politico è ormai noto a tantissimi. Il Cav si è imbolsito e mostra sempre di più i segni della follia dell’autocrate. Certi giorni si nega anche a Bonaiuti e Letta, i quali non sanno che cosa dichiarare; sta al telefono solo con le sue amate deputate che gli ripetono quant’è forte e virile. Nell’area di governo covano gli odi e i rancori e iniziano le rese dei conti. Bossi si mette accanto la Trota nei comizi per ridimensionare i suoi colonnelli che s’allargano. Tremonti se ne sta in cambusa, convinto che prima o poi arriverà il suo turno. E nel giro dei satrapi e dei peones tante guerre. Penso ai siciliani. A Miccichè, sempre sovraeccitato, chissà da cosa, tutte le volte che va a Roma e vede Schifani o Alfano saltano i nervi. Se ne scappa a Palermo e forse scapperebbe anche dal Pdl, se Dell’Utri glielo permettesse. Uno schifo. Uno schifo che può portare al disastro; anche perché a proteggere il Cavaliere ci sono i favoriti e le favorite che gli devono tutto e i meccanismi mediatici continuano a funzionare, anche da soli. L’immagine del Cavaliere, nonostante tutto, conserva un seguito ampio: in quelli che in alto e in basso, con lui al governo, hanno fatto fior di guadagni nei vent’anni trascorsi; e nei poveracci che odiano la sinistra e non sanno a che santo votarsi. Berlusconi non cadrà da solo e non basta una congiura di palazzo. Vale sempre il motto di Mao: “I reazionari sono fatti tutti allo stesso modo, come le immondizie. Se non li spazzi via, non se ne vanno da soli”.

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Un filo di speranza

Che fare a sinistra? Intanto dare forza a chi già resiste: i metalmeccanici della Fiom, gl’insegnanti precari, il popolo viola, per esempio. Sono isole poco comunicanti e diffidenti, ma sostenerli in ogni modo è la prima cosa da fare. E vale più un sostegno diffuso, di base, di associazioni e singoli, circoli, giornali cartacei e digitali, gruppi telematici, organizzazioni sindacali, sezioni di partito, va tutto bene. Bisogna essere in movimento, in piedi per rispondere al peggio. E’ possibile che la protesta si allarghi, che forze nuove si mettano in moto.

E lo sbocco politico? Molti, a sinistra, variamente schierati, sperano in Vendola. Il suo parlare, il suo rapportarsi al popolo minuto e ai giovani potrebbe segnare davvero una svolta di contenuti e buone pratiche. Ma non dipende solo da lui se si realizzerà e se potrà restituire alla sinistra obiettivi di lotta e di governo, moralità, solidarietà interna e fiducia popolare; molto dipende dal coraggio dei più giovani che con lui si schiereranno. Sapranno farlo con la generosità necessaria, rinunciando ad ogni protezione? Il rinnovamento generazionale, necessario a tutti gli organismi sociali vivi, nella sinistra italiana è diventato indispensabile. Serve nuovo entusiasmo anche per tornare a una politica partecipata e gratuita, riducendo al minimo i politici di mestiere e tagliandone drasticamente i privilegi da casta. Occorre una sorta di rivoluzione culturale che bombardi i quartieri generali e mandi in pensione, a tutti i livelli, i gruppi dirigenti della sinistra che hanno attirato sopra di sé tanta meritata acredine. E’difficile, ma può accadere.

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