Il compagno Eros Barone mi trasmette una sua acuta lettura della vicenda politica e umana di tre grandi comunisti italiani del Novecento, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, partendo dalle loro autobiografie. Così la presenta: “Avendo contratto, negli anni della militanza politica, un consistente debito intellettuale e morale con protagonisti e, insieme, testimoni retrospettivi del ‘secolo breve’ (1914-1991), quali Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luigi Pintor, ho ritenuto op-portuno attendere che il clamore suscitato dalla pubblicazione delle opere di carattere autobiografico composte da tale triade italo-marxista si estinguesse per pagare quel debito, per così dire, in un colpo solo e a ciglio asciutto”.
Propongo volentieri il testo di Barone ai frequentatori di questo blog in due parti relativamente autonome, la prima dedicata a Ingrao e Rossanda, la seconda a Luigi Pintor. (S.L.L.)
Parto dalle impressioni che ho ricevuto leggendo le memorie rossandiane intitolate La ragazza del secolo scorso (Einaudi, 2005), in cui l’autrice racconta le vicende non solo di una militante e di una dirigente comunista, ma anche di una ragazza e di una donna formatasi a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento: di una persona che, per esprimerci con le parole usate nel risvolto della copertina di quel libro, ha vissuto “la politica come educazione sentimentale”. Si tratta di una lettura coinvolgente, lucida e profonda, come sa chiunque abbia dimestichezza con lo stile, la struttura e il lessico che caratterizzano gli articoli della Rossanda che appaiono sul quotidiano “il manifesto” (si pensi all’ultima serie di questi articoli, come sempre icastici e illuminanti, denominati Note da lontano con un chiaro riferimento alle Lettere da lontano inviate nel 1917 da Lenin ai bolscevichi di Pietrogrado e di Mosca). La ‘Cassandra della sinistra’, epiteto che ben si addice a questa raffinata intellettuale di formazione milanese ed europea nel cui periodare e nel cui argomentare si avverte l’eco della lezione di filosofi come Antonio Banfi, Enzo Paci e Jean-Paul Sartre, mette impietosamente a nudo, sospinta dalla passione demistificante che anima la sua ‘critica-critica’, i difetti, le debolezze e le contraddizioni della sinistra del Bel Paese, a partire da quelli del suo (e nostro) amato Pci, di cui traccia in modo magistrale la parabola storica, politica e ideale, che ha portato questo partito a trasformarsi, attraverso una regressiva metamorfosi, da forza egemonica della Resistenza e del movimento operaio organizzato in partito di opinione social-liberista, del tutto incorporato nelle strutture economiche, politiche e ideologiche del sistema capitalistico-borghese. Sennonché, se l’epiteto di ‘Cassandra della sinistra’ or ora adoperato può apparire eccessivo, si tengano presenti, per bilanciare opportunamente il giudizio critico sulla Rossanda, da un lato il pessimismo, tra sociologico e storico, che è tipico di una certa cultura marxista occidentale, e dall’altro la parallela fisionomia di una Rosa Luxemburg in vesti togliattiane, che integra, sommandosi alla fisionomia indi-cata da quell’epiteto e completandone il profilo, la personalità, ad un tempo indomita, ipercritica e realista, di Rossana Rossanda.
Proseguo quindi, in questa succinta rassegna autobiografica della triade italo-marxista, con Pietro Ingrao, esponente di spicco, assieme al suo indimenticabile ‘alter ego’ Giorgio Amendola, di quella formidabile generazione degli anni Trenta del secolo scorso, per la quale l’adesione al comunismo costituì una ‘scelta di vita’. Con la sua figura che evoca l’aspetto di un augure o di uno sciamano e con la sua esotica cadenza ciociara Ingrao sembra ancora oggi, superata la soglia dei novant’anni, un personaggio ‘cosmico-storico’, quale appariva a noi, giovani militanti comunisti degli anni Settanta, quando seguivamo affascinati, nei comizi di piazza o nelle Feste dell’Unità, i grandi affreschi della ‘struttura del mondo’ che egli faceva nascere da-vanti ai nostri occhi servendosi con impareggiabile maestria delle arti suggestive dell’oratore e del poeta, oltre che degli strumenti di precisione del dirigente politico e del teorico marxista. Sennonché il lettore dell’autobiografia ingraiana Volevo la luna (Einaudi, 2006), che intenda valutare un percorso politico alla stregua dell’efficacia, dovrà prendere atto, oltre che di uno stile intensamente influenzato dalla lezione dell’ermetismo, quale si rivela nel ricorrere di parole-chiave come ‘evento’, ‘intreccio’ e ‘soggettività’, dell’infittirsi, via via che si procede nella lettura di questo resoconto sospeso tra storia e biografia, di parole come ‘errore’ e ‘sconfitta’, che si riferiscono sia alla vita del protagonista che alla storia del comunismo novecentesco. Del resto, nell’indice storico di questo volume dal titolo così impietosamente autoironico trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dall’‘indimenticabile’ 1956 (l’aggettivo, divenuto poi il sigillo di quell’‘annus mirabilis’, fu usato dallo stesso Ingrao) all’ondata terroristica che percorse l’Italia negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, sino al crollo, non previsto, dell’Urss. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Pci, nel 1969, dei dissidenti del “Manifesto” (allora rivista mensile), quasi tutti seguaci della sinistra ingraiana.
Né sono da dimenticare, tra gli episodi che hanno reso esemplare e, nel contempo, comune a tanti altri ‘ragazzi del secolo scorso’, la formazione di queste personalità eminenti, tanto quello che, con simpatica spavalderia, ricorda Ingrao a proposito dei confronti giovanili tra le “generose erezioni”, susseguenti al risveglio dal sonno, nella camerata di una caserma, quanto quello che la Rossanda ha il coraggio filiale (e la sapienza simbolica) di raccontare con un misto di inesorabile durezza materialistica e di meravigliosa levità femminile: l’esumazione della salma della madre al cimitero di Milano. “… trovammo un cranio perfetto, aggraziato… e perfette le falangi delle belle mani composte, che si sbriciolarono all’aria. Ma il torso era intero, come di cartapesta, mummificato dal nylon e dall’umidità di quella terra. Ci riprendemmo quando il becchino alzò la vanga per spezzarlo. Lo rompemmo noi con le mani, era leggero come un pane, una bambola o larva”.
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