Un invalido a Stepanokert, capitale del Karabakh |
Su “La Stampa” del 18 luglio 2010 Vittorio Emanuele Parsi da Baku, capitale dell’Azerbaigian, racconta delle displaced persons, dei progughi che sono arrivati 15 o 20 anni fa dal Nagorno Karabakh. ( http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=10558025 )
Li intervista in un campo profughi e in un non lontano condominio che il governo azero, utilizzando per la costruzione una quota dei proventi energetici, ha destinato a un gruppo di famiglie fuggite dalla guerra e vissute dal 94 in una fabbrica dismessa.
Il Nagorno era una enclave a maggioranza armena dentro i confini dell’Azerbaigian. L’Unione Sovietica aveva garantito una relativa autonomia alla regione, seppure all’interno della repubblica azera.
Nell’88, nel clima di disfacimento dell'Urss, il parlamento della regione vota la secessione e la riunificazione con la repubblica armena. Ne nasce una sanguinosa guerra attraverso la quale gli armeni del Nagorno, appoggiati non solo dall’Armenia ma anche dalla Russia di Eltsin, riescono ad aver la meglio sugli azeri e, prima della tregua del 1994, operano una quasi totale pulizia etnica. I profughi sono più di settecentomila sui circa sette milioni dell’Azerbaigian. Nelle interviste di Parsi leggo una quasi insostenibile nostalgia negli anziani, che espongono come sacre icone le foto delle loro nozze in villaggi ove non potranno tornare, parlano dei sepolcri dei loro padri e dei loro nonni. I più piccoli, anche loro iscritti nelle liste dei displaced, giocano con i fuciletti. Non ci sarebbe niente di male, se i loro innocenti giochi di guerra non venissero inquinati da un precoce odio e risentimento.
Nell’88, nel clima di disfacimento dell'Urss, il parlamento della regione vota la secessione e la riunificazione con la repubblica armena. Ne nasce una sanguinosa guerra attraverso la quale gli armeni del Nagorno, appoggiati non solo dall’Armenia ma anche dalla Russia di Eltsin, riescono ad aver la meglio sugli azeri e, prima della tregua del 1994, operano una quasi totale pulizia etnica. I profughi sono più di settecentomila sui circa sette milioni dell’Azerbaigian. Nelle interviste di Parsi leggo una quasi insostenibile nostalgia negli anziani, che espongono come sacre icone le foto delle loro nozze in villaggi ove non potranno tornare, parlano dei sepolcri dei loro padri e dei loro nonni. I più piccoli, anche loro iscritti nelle liste dei displaced, giocano con i fuciletti. Non ci sarebbe niente di male, se i loro innocenti giochi di guerra non venissero inquinati da un precoce odio e risentimento.
E, a sentire il mondo politico azero, nonostante le trattative non ancora chiuse, prima o poi la guerra potrebbe tornare. Il vice ministro degli esteri Azimov dice a Parsi: “Non ci sono più azeri in Nagorno Karabakh, mentre noi vogliamo che armeni e azeri possano vivere liberi e al sicuro, sotto la sovranità armena”. C’è una nota di speranza, tuttavia, nell’articolo. Un giovane di 28 anni, Anar Usubov, racconta della sua fuga nel 1992: le truppe armene lo catturarono in una foresta con tutta la famiglia. Fu liberato dopo quattro giorni, ma di molti suoi parenti non si è saputa più niente. Ora si è laureato a Baku in relazioni internazionali e lavora nell’organizzazione dei profughi. Dice: “Mi chiedi se la pace sia possibile? Non lo so, con franchezza. Ma con altrettanta franchezza ti dico che da qualche parte bisogna pur cominciare”.
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