Questa puntuale, ironica e drammatica rievocazione dell'arrivo in un paese siciliano degli Alleati, nel 1943, fu pubblicata nel 1950, nel primo numero della rivista letteraria "Galleria", edita a Caltanissetta da Salvatore Sciascia. Leonardo Sciascia, che dell'editore-libraio era solo omonimo, fu il principale animatore della rivista.
La Sicilia è fascista fino al midollo.
Mussolini
Meno caffè nelle tazze e meno zucchero nel caffè;
ecco quello a cui i più saranno sensibili.
(“Diario” di André Gide, 13 luglio 1940)
Il primo separatista fu in Sicilia il generale Roatta. Accanto a manifesti che ricordavano ai siciliani i Vespri e li invitavano a un nuovo vespro “tra la sabbia e il mare”, dove secondo Mussolini le truppe d’invasione si sarebbero arrestate, altri ne comparvero più piccoli e meno vistosi – e i siciliani che vi incollarono gli occhi a leggerli e a rileggerli, appresero che italiani e tedeschi erano pronti a fiancheggiare il loro vespro, che non c’era niente da temere, tutto era saldo lubrificato pronto allo scatto. Qualunque cosa ne dicano oggi i separatisti, a qualunque lontananza e continuità si rifacciano per affermare il mai addormentato spirito d’indipendenza dei siciliani, fu il generale Roatta il primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.
D’altra parte i siciliani erano palesemente convinti, quanto il generale Roatta lo era segretamente, che la guerra era già decisa in favore degli alleati e che, se un vespro c’era da accendere, quelli con le aquile in testa dovevano farne le spese. In proposito una storiella girava per i caffè e i circoli; una delle tante storielle che maliziosamente chiosavano i bollettini delle operazioni, i commenti di Appelius, i rapporti dei gerarchi.
Un ufficiale dell’esercito passeggia dentro la stazione in attesa del treno; in senso inverso passeggia un ufficiale della milizia. E poiché c’è un punto in cui si vengono incontro e si sfiorano, accade all’ufficiale dell’esercito di pestare un piede a quello della milizia. Si scusa e vuole riprendere a passeggiare, ma l’altro lo ferma, non sa che farsene delle scuse. L’ufficiale dell’esercito gli offre di pestare in cambio il proprio piede, ma quello non sente ragione; e vengono alle mani. In quel momento arriva un treno; un viaggiatore apre lo sportello per scendere, carico di valigie e di ombrello; vede quei due che se le danno; lascia la valigia e con l’ombrello corre a dare addosso a quello della milizia, gridando agli altri ancora sul treno: “Avanti, che cambia bandiera!”.
Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Così americani e inglesi erano attesi; magari vagamente, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevens, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto.
Ma la notte del 9 luglio scoppi lontani e lontano sbocciare di luci cangianti svegliarono i siciliani. Gli alleati sbarcavano, ma nemmeno i siciliani della costa pensavano che lo sbarco fosse quello buono e definitivo; una puntata d’assaggio come a Dieppe, credevano. Quando l’indomani sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato d’emergenza ha inizio quella che, senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca dell’invasore. Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano di un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventennio di diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura, che un capo abbia mai offerto ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di “razione K” dell’esercito nemico. Era giusto…Tuttavia pensiamo che l’Italia, la pena e la vergogna dell’Italia là dove era più forte e più pura, rimase tra le pareti di case i cuoi specchi non conobbero per un ventennio le camicie nere gli emblemi i ritratti di Mussolini: le finestre chiuse, chiusi i portoni, chiuse soprattutto le cantine.
(Bisogna avere in certi casi avere non l’impudenza, ma l’onestà di ricordare. Oggi che in special modo i liberatori, cioè – e il duce riassume la sua maiuscola).
La mattina del 10 gli americani erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri; ma era compreso in una zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino alla costa, erano entrati in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte veneti. I siciliani non erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i carri armati, e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i margini della zona.
Dunque i feriti giungevano e finivano proprio là dove il regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi. Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente fasciava le loro ferite; ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare. Non avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancora meno il segretario politico. C’era, sì, una colonia della GIL piena di buone cose e dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei soldati che perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era altrimenti nero che l’orbace. Allora i giovani cercarono di rimediare alla meglio, quei pochi giovani del paese che erano ancora capaci di sentire qualcosa di buono. Cominciarono dal più ricco del paese, pieni di speranza gli chiesero un po’ di farina, del latte, qualche uovo. L’uomo non disse né sì né no, si ritirò con la figlia nelle altre stanze; e rivenne fuori con dieci lire delicatamente sospese tra pollice e indice, quasi si trattasse di una farfalla dalle ali preziose. Dieci lire, per dei soldati che perdevano la guerra, un sacrificio. La gente più povera, quella che unica ricchezza ha i figli, dava più largamente: pensava, appunto, ai figli lontani. E così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo delle gallette e del corned beef americano.
Già un venditore ambulante era riuscito a passare dalle linee americane alla nostra zona, che gli americani non si decidevano ancora ad occupare. Portava, come la colomba di Noé il ramo di ulivo, un paio di Chesterfield e qualche quadretto di zucchero. Nonostante i carabinieri volessero deserte le strade, intorno gli si raccolse una gran folla. Quando il venditore ambulante accese una delle sigarette, intorno ci fu quel ieratico silenzio che accoglie gli eventi capitali.
Gli americani, spiegava il venditore ambulante, non vengono perché credono ci siano ancora i tedeschi. Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avvicinarono ad incontrarli. La popolazione in attesa si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere ritratti di Mussolini opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. Ma gli americani ancora non venivano. Passarono due autocarri carichi di soldati tedeschi; la popolazione taceva e i tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al piede, seduti per quattro, avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato. L’indomani passarono ancora due tedeschi con un’automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più giorni non sentivano, mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato, sbucarono improvvisamente sulla piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, né tirò fuori un pacchetto di Africa e le lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità di diffuse al gesto del caporale.
La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, “cannate” di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta.
La kermesse era al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava, dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammucco d’intesa: “Vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo insieme tutte le buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola”. Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva , la macchina fotografica di qualche soldato scattava.
Nel frattempo un contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra: ma la notizia non incrinò la generale allegria.
Eravamo al punto in cui, in una festa che si rispetti, le danze si accendono. Qualcuno in realtà danzava, intorno a quella bandiera, come abbiamo visto, mal capitata. Ma la danza di circostanza era in preparazione. Si chiamava il ballo delle spie.
Le spie della federazione, ormai certe di essere rimaste disoccupate: le persone che, pur avendone la vocazione e l’ambizione in vent’anni non erano riuscite a divenire spie delle federazioni; tutti coloro che da anni covavano risentimenti non troppo chiari – eccoli disegnare il ballo mascherato delle delazioni. Mentre il popolo si scatenava nell’ebbrezza, il vecchio avvocato C., con mano tremante di gioia, intestava una specie di supplica: “Onorevole Comando Militare Alleato di…”, e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti locali che, da ex massone passato al fascismo, mai lo avevano tenuto nella giusta considerazione.
Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri, furono l’indomani prelevati; e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo, da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrare strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi.
Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.
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