5.12.10

Aldo Natoli. Un comunista senza partito. ("micropolis" - novembre 2010)

Da "micropolis" di novembre riprendo la pagina dedicata al nostro Aldo Natoli, medico e latinista, partigiano e comunista, dirigente storico del Pci romano e fondatore de "il manifesto", studioso di Gramsci, di Mao e dello stalinismo. Essa comprende una breve premessa e un brano da un suo poco noto intervento perugino (S.L.L.).
Comunista senza partito
E’ morto nei giorni scorsi Aldo Natoli. I coccodrilli ne hanno esaltato la poliedricità (medico, politico, parlamentare, giornalista, storico), ne hanno ricordato l’impegno antifascista e il carcere, il ruolo di primo piano nel Pci romano, le battaglie contro il “sacco di Roma” in Consiglio comunale, l’eresia del “manifesto” e la radiazione dal partito.
Anche dal “manifesto”, di cui fu uno dei padri fondatori, Aldo si allontanò gradualmente, al tempo delle reciproche cannibalizzazioni nella sinistra estrema durante gli anni settanta, senza mai smettere del tutto la collaborazione con il "quotidiano comunista", ma dedicandosi prevalentemente alla storia del comunismo novecentesco con tre interessi centrali: lo stalinismo, Gramsci e Mao.
Nel gruppo dei fondatori del “manifesto” Aldo Natoli fu quello che operò la rottura più profonda con il mito di Togliatti, che su altri non cessa tuttora di esercitare il suo fascino. Alessandro Portelli, che ha raccolto negli anni ottanta le sue memorie, nel ricordarne l’amore, ricambiato, per la Roma proletaria, racconta di un tranviere che lo ferma e gli chiede “Natoli, che fai” e di lui che risponde “il comunista senza partito”. E’ una definizione che  ci commuove e in cui ci riconosciamo, che ci rende fieri di averlo avuto compagno e maestro.
Una delle sue ultime uscite pubbliche si ebbe, infatti, a Perugia, il 22 settembre del 1990, per un convegno organizzato da Segno Critico. Lo avemmo relatore e commensale e imparammo molto dall’uno e dall’altro. Il tema del Convegno era Scenari della transizione nell’Est europeo e vi partecipavano in buon numero studiosi provenienti dall’Est, tra cui Victor Zaslavskij, Vladimir Shubkin e Agnes Simonyi. Abbattuto da qualche mese il muro di Berlino, sopravviveva l’Urss di Gorbaciov  e resisteva in qualcuno di noi la speranza di un’ordinata transizione dal socialismo delle caserme a un socialismo civile. Aldo ci spiegò come la catastrofe economica dell’Est affondasse le sue radici nel modello economico-sociale staliniano e ce ne indicò alcuni elementi costitutivi: direzione statale, centralizzata e burocratica; enorme espansione della burocrazia (al tempo si parlava del licenziamento di 18 milioni di persone per ridurre l’apparato statale); obiettivi della pianificazione verificati “a peso”, con scarti e prodotti invendibili e inservibili in percentuali altissime; massiccio impiego di forza lavoro non qualificata. Natoli contestava in radice quello che per gli amanti del modello sovietico ne era il punto di forza e la principale attrattiva: la piena occupazione. L’intervento fu inserito nel volumetto degli atti curato da Renato Covino e Massimo Florio. Ne ripubblichiamo qui una parte, esemplare di un approccio razionale e appassionato, che demoliva i miti e non mollava sui principi.

Mosca 1930. Un'operaia dell'industria tessile "Il nuovo mondo"
Lo stalinismo e l’enorme inerzia delle masse (di Aldo Natoli)
Fu il mantenimento della piena occupazione, ovvero della disoccupazione occulta entro fabbriche che avrebbero potuto funzionare con un terzo della forza lavoro, fu questa la causa ideologica e politica che impedì il rinnovamento tecnologico dell’apparato industriale sovietico, la causa del disastro degli ultimi venti anni.
Forse si dirà: ma ciò avvenne perché si volle mantenere il principio “socialista” della piena occupazione. Ma di quale socialismo? Forse, ma neanche questo è certo, del “socialismo reale”, non certo di quello di Marx. Per Marx il socialismo, primo stadio del comunismo, avrebbe dovuto essere una fase di transizione verso lo stadio superiore, attraverso “l’aumento infinito della produttività del lavoro” e la contemporanea liberazione della persona umana. Questa, per Marx, è la chiave per aprire la porta del comunismo.
Ma nell’Urss staliniana gli operai, fin dalla fine del 1928, quando, di fatto, furono soppressi i sindacati, avevano perduto ogni diritto e ogni libertà. Shubkin ha già detto quale fu il ruolo della violenza e della coercizione, e “l’inerzia”, “l’apatia”, “l’assenza di mobilitazione sociale” (di cui anche Zaslavskij ha parlato), non si possono comprendere se non in questo quadro complessivo. La spoliticizzazione della classe operaia russa (in crudo contrasto con le celebrazioni rituali della “coscienza operaia”, “del ruolo dirigente della classe operaia”), escluse da ogni partecipazione politica attiva, si accompagnò alla demoralizzazione della sua dignità di lavoratore-produttore. Quale può essere “l’etica del lavoro” di un operaio che lavora poco e male (tre ore su otto, diciamo) in una fabbrica in cui non sa di essere superfluo, ma dove l’occupazione e il salario (sia pure basso) sono garantiti dallo Stato, e quando gli è data la possibilità di trovarsi un secondo lavoro fuori dalla fabbrica e così arrotondare il proprio reddito?
La spoliticizzazione della classe operaia si accompagnò ad una atomizzazione della vita sociale e a un riflusso nel “privato”.
Insomma, la realizzazione del lavoro per tutti in un regime di privazione di ogni diritto politico, in una situazione di bassi salari e di scarsità di beni, ha promosso la ricomparsa, tollerata già dagli anni precedenti all’avvento di Gorbaciov, del lavoro privato, entro rapporti materiali e sociali privati e paralleli rispetto alla sfera pubblica, ormai remota e preclusa. Il paradosso consiste nel fatto che l’operaio garantito dallo Stato in omaggio a un principio socialista mistificato (che io chiamerei operaio di Stato), quell’operaio, garantito dallo Stato viene risucchiato dall’alienazione privata, asociale e antisociale. Un autore cecoslovacco, che ha studiato negli anni 70 questi processi nel suo paese, lo ha definito “un contratto sociale di tipo nuovo”. Colgo l’occasione per notare che questo fenomeno – che nulla ha a che fare con il socialismo e il comunismo marxiano – fu esportato dall’Urss in tutti i paesi del suo blocco est-europeo.
La base reale del fenomeno fu, dunque, il modello di sviluppo estensivo, alimentato dall’impiego di lavoratori in maggioranza a bassa qualifica, in un quadro tecnologico, in generale, arretrato. Ciò ha garantito la piena occupazione (ma anche promosso il doppio lavoro), con il sovraccarico nelle imprese di manodopera sottoutilizzata, con salari relativamente bassi ed egualitari, senza un rapporto certo con il prodotto del lavoro. Da qui si origina la scarsa incentivazione del lavoro in un sistema produttivo in cui l’indice di valutazione era il prodotto lordo prescritto dagli organi centrali della pianificazione. Da qui la bassa produttività, per non parlare degli sprechi e del parassitismo. Come pure, lo sottolineo ancora, la profonda deformazione dell’etica del lavoro, che io non credo possa essere curata con iniezioni di fede religiosa.
“L’enorme inerzia delle masse” che Gorbaciov ha più volte denunciato, ha alla sua origine un fatto strutturale, inerente al modello di sviluppo […]. Questa è l’eredità più pesante dello stalinismo, che nulla ha a che fare con le analisi di Marx, ma mitizzata dal marxismo-leninismo e forse più affine a modelli ormai arcaici di epoca precapitalistica. E la classe operaia, uno strato sociale geneticamente dipendente dallo Stato è, per questo, come la burocrazia, conservatore. 


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