Dal numero di ottobre di una rivista mensile bresciana, "Una città", che coraggiosamente prospetta, contro ogni statalismo burocratico, un socialismo che si costruisca dal basso per associazione, fondandosi sulle comunità locali e sui municipi, recupero questa intervista di Massimo Tesei a Guido Viale.
Viale, che ha pubblicato per Laterza, nel 2009, La civiltà del riuso: riparare, riutilizzare, ridurre, vi articola in proposte concrete le sue analisi. Mi pare materiale utilissimo per un dibattito a sinistra. (S.L.L.)
Dopo esserti occupato dei rifiuti e dei problemi relativi al loro smaltimento, nel tuo ultimo libro affronti, da vari punti di vista, un tema in qualche modo contiguo, il riuso.
Essendo un libro sul riuso in generale, ho cercato di affrontarlo con uno sguardo allargato, sintetizzando poi quattro argomenti. Il primo è storico e antropologico e riguarda il fatto che il ricorso al nuovo potrebbe essere solo una parentesi nella storia dell’umanità, perché fino alla rivoluzione industriale la maggior parte delle cose che circolavano erano fatte per durare e venivano usate per generazioni dalla stessa famiglia, e anche quando passavano di mano, venivano riutilizzate o riadattate. Per esempio, per tutta la storia dell’umanità i poveri si sono vestiti con gli abiti dismessi dai ricchi. Nel mondo contemporaneo, se noi pensiamo alla nostra vita, alla nostra casa, lì per lì siamo indotti a credere che sia tutto nuovo, nel senso che l’abbiamo comprato noi. In realtà anche noi facciamo un ampio ricorso al riuso. Magari nella nostra casa c’è solo un pezzo di antiquariato che spicca, ma in realtà quello che ci circonda non sempre è davvero nuovo. La stessa casa spesso prima è stata usata da qualche altra famiglia. Non parliamo di ciò che la circonda: ad esempio le strade e poi l’assetto urbano, che quanto più è usato e riusato tanto più è di pregio. Se poi entriamo nello specifico, qualcuno potrebbe rimanere sorpreso: quando andiamo al ristorante ci mettiamo in bocca forchette che sono già state in bocca di molte persone, ma se andiamo in un mercatino e troviamo delle posate usate, prima di comperarle pensiamo "Chissà chi le avrà usate!”, andiamo all’albergo e ci infiliamo fra lenzuola in cui ha dormito moltissima altra gente, o ci asciughiamo con asciugamani con cui molti altri si sono asciugati, e via di questo passo... In realtà questa percezione che la nostra vita è necessariamente e inevitabilmente fatta di molto riuso, dovrebbe essere più consapevole, così da riavvicinarci a un uso più sereno di cose dismesse. Il principale ostacolo per una maggiore diffusione del riuso è proprio questo stigma, o questo senso di emarginazione, che accompagna il ricorso al riuso. Questo è un problema che si trovano di fronte anche quelli che lavorano in questo settore, in particolare quando sono cooperative sociali, Onlus, associazioni, spesso mossi da intenti ambientali o sociali.
Ma chi sono i "clienti”?
Sul versante dei clienti di cose riusate, si può dire che sostanzialmente siamo di fronte a due tipi molto diversi: da una parte ci sono gli snob, quelli che fanno ricorso al riuso per dare un tono o una caratteristica al loro stile di vita - questo vale tanto per gli abiti come ovviamente per i mobili e per le abitazioni: una casa di campagna in pietra è una cosa diversa da un villino di cemento armato costruito ex novo - e per farlo bisogna avere un capitale culturale piuttosto sostenuto, cioè avere la capacità di presentarlo come un dato distintivo e qualificante della propria personalità; dall’altra parte troviamo quelli che fanno ricorso alle cose usate perché non possono permettersi le cose nuove, a partire dall’automobile, che è uno dei beni per i quali il riuso è più diffuso.
Il ricorso all’automobile usata qualifica immediatamente una persona come qualcuno che non ha la condizione economica per potersene permettere una nuova. E a maggior ragione questo vale per gli abiti - meno, adesso, perché molti vestiti nuovi cinesi costano meno dell’usato - poi sicuramente per i mobili e per molti altri beni, compresi quelli che vengono ormai buttati via, perché per questa reticenza a ricorrere all’usato, molti preferiscono fare sacrifici e comprare cose nuove, piuttosto che presentarsi come chi fa uso di cose usate o aggiustate.
Allora, la prima cosa è lavorare per la diffusione di un capitale culturale adeguato ad affrontare con disinvoltura, con aisance direbbe Bourdieu, il ricorso all’usato, come fanno le persone che lo sanno fare, perché nessuno si senta più in imbarazzo se i suoi gusti o i suoi orientamenti o la sua condizione personale gli suggeriscono di fargli comprare dei beni usati. Questo primo punto secondo me è molto importante.
Ma questo comporta una sorta di rivoluzione culturale...
Una rivoluzione culturale un po’ è già in corso, perché di fronte a una parte della gioventù che cresce sempre di più col mito del marchio, ce n’è un’altra, sicuramente minoritaria, che invece si fa un punto d’onore di servirsi dell’usato. Il secondo argomento, legato al primo, ma più profondo, è la rivalutazione del valore affettivo che ci lega agli oggetti. Gli oggetti, soprattutto i beni durevoli, attraversano per un certo periodo la nostra vita, la caratterizzano e poi ne scompaiono. Nei sentimenti che accompagnano il rifiuto viscerale che abbiamo per la discarica o per l’inceneritore o per le stazioni ecologiche e, in fondo, per qualsiasi forma di smaltimento, c’è anche la percezione che dentro i rifiuti, dentro il fumo dell’inceneritore o nella tomba della discarica, c’è sempre una parte della nostra vita che se ne va. Ma il problema è che gli oggetti, nel bene e nel male, segnano la nostra vita perché questa non è fatta di puro spirito, ma anche di rapporti materiali con le altre persone, in genere mediati proprio dagli oggetti. Per esempio dai vestiti che indossiamo, dal cibo che mangiamo in comune, dalle cose che facciamo insieme, che hanno quasi sempre bisogno di strumenti materiali per essere portate a termine, da un cd a un televisore, da una bici alla seggiola su cui sediamo. Ci accorgiamo in particolare del valore affettivo dell’oggetto quando ci troviamo di fronte al problema di sbarazzarcene, per esempio svuotando uno scaffale, un armadio o, ancor di più, un appartamento di una persona che è morta e che ci è stata cara.
Per affrontare questo aspetto nel tuo libro fai ricorso anche alla letteratura...
Gli artisti sanno descrivere i sentimenti meglio di un sociologo o di un economista. In particolare mi sono riferito molto a due testi, uno si intitola Come ho svuotato la casa dei miei genitori, di Lydia Flem, una psicanalista francese, pubblicato in Italia qualche anno fa, in cui l’autrice racconta di aver trovato la casa della madre morta piena zeppa di oggetti tutti in ordine, e ha una difficoltà enorme a sbarazzarsene. D’altronde non li può tenere e quindi, alla fine, decide di donarne uno ciascuno alle persone che lei conosce, ma cercando di donare ogni oggetto alla persona giusta, quella che lei sente o intuisce che potrebbe apprezzarlo, capirlo, accoglierlo. Insomma, è un viaggio dentro le proprie viscere, perché ogni oggetto le ricorda qualcosa dei genitori, qualcosa della sua vita. L’altro libro è un testo dello scrittore pesarese Paolo Teobaldi, che si intitola La discarica, in cui invece la storia riguarda una coppia che si separa in malo modo, e lui resta a sgombrare l’appartamento dove ha vissuto con la moglie per 30 anni. Anche questo appartamento è pieno zeppo di roba perché la moglie non buttava via niente, ma tutto è tenuto nel massimo disordine e nella trascuratezza, per cui ogni pacco che prepara da buttare via gli ricorda qualche episodio sgradevole di questa vita coniugale con cui lui vuole chiudere completamente. Se noi riuscissimo a prestare maggiore attenzione agli oggetti con cui viviamo, e a fare emergere di più, quando sono ancora in vita e utili, questo rapporto, avremmo anche meno la tendenza a sbarazzarcene, e questo può diventare un paradigma alternativo a quello dell’usa e getta, che è dominante nella civiltà dei consumi. Il paradigma dell’usa e getta è che ogni oggetto non è che il supporto materiale di una funzione, per esempio un rasoietto per radersi. Quando cessa la funzione, lo gettiamo e contribuiamo a produrre quella montagna di rifiuti che ci affligge ogni giorno di più. Invece, legando più strettamente l’oggetto alla funzione e rivalutando anche il supporto materiale e il legame affettivo che noi possiamo sentire, potremmo dare un senso alla volontà di prolungarne la vita; o di sceglierli in maniera da poter coltivare questo rapporto affettivo. E questo potrebbe avere anche un grosso peso nel superare - cosa che comunque dovremo fare - la civiltà dell’usa e getta, perché è evidente che non si può andare avanti con un’aggressione così intensa alle risorse della Terra e con una produzione così mostruosa di rifiuti e di scarti senza più nessuna possibilità di riutilizzo. Il terzo punto riguarda la quantità straordinaria di cose che buttiamo via, e sto parlando di beni durevoli, non di beni temporanei come gli alimenti o come gli imballaggi degli alimenti, che pure possono anche loro essere oggetto di riuso. Ma su questo intendo tornare con qualche esempio e qualche dato. Infine, il quarto punto è che, per prolungare la vita degli oggetti, è necessaria una maggiore attenzione agli oggetti, non solo nella dimensione affettiva come ho già detto, ma anche nella dimensione tecnica, cioè saper fare la manutenzione, saperli aggiustare quando si rompono, o avere a disposizione all’interno della propria comunità un numero sufficiente di persone capaci di ripararli a costi accessibili. E’ importante anche un’informazione che renda queste persone raggiungibili, perché molto spesso noi abbiamo difficoltà a trovare non solo un idraulico, ma anche uno che ci aggiusti il lettore di cd o il telefonino. In realtà c’è una dialettica fra l’industria, che fa cose sempre meno riparabili, e la progressiva scomparsa dei riparatori, per cui quando le cose si rompono non resta che buttarle via. E quando si riparano, succede che, se ad esempio a rompersi è il contachilometri, devi cambiare tutto il cruscotto dell’automobile, e quindi la riparazione è un togli e metti, mentre una volta si riparava la lancetta del contachilometri.
Insomma, se gli oggetti sono fatti per non essere riparati, è anche difficile mantenere in piedi una comunità di artigiani che sappiano riparare. Ma contemporaneamente il fatto che non ci siano più artigiani che sappiano riparare, fa sì che per l’industria sia un plus fare degli oggetti usa e getta, tanto è scontato che, anche se tu li volessi riparare, non lo si può fare. Per esempio, nella storia del computer il monitor è cambiato tre volte, prima era in bianco e nero, poi a colori, poi è diventato piatto. La tastiera non è cambiata mai, o forse è cambiata una volta, adesso ha il collegamento wireless; la scatola, la torre del computer, non è cambiata mai, semplicemente sono cambiati i driver, che si potrebbero sostituire.
Ciò che invece è cambiato molte volte è il processore, e la cosa intelligente sarebbe stata consentire, man mano che lo sviluppo tecnologico lo permetteva, di poter cambiare il processore. Invece buttiamo via tutto quanto, anche se il 90% potrebbe essere conservato. Nelle fotocopiatrici alcuni hanno già cominciato a costruire macchine offerte in comodato o in affitto, dove la carrozzeria viene conservata intatta e viene cambiato solo il pezzo che si logora o che può essere sostituito da uno più funzionale. E’ una cosa utile e intelligente, ma incontra enormi difficoltà perché in molti capitolati di appalto degli enti pubblici l’oggetto deve essere nuovo. La 3M è già stata oggetto di contenziosi perché aveva vinto bandi con offerte più basse dal punto di vista economico perché contenevano di nuovo, di tecnologicamente aggiornato, soltanto quello che doveva esserlo, non tutta la carrozzeria.
In effetti l’usa e getta sta facendo venir meno anche il fai da te, la capacità di ognuno di noi di arrangiarsi nelle piccole riparazioni…
Non c’è dubbio che a tutti noi farebbe bene imparare un po’ di manualità e saper mettere le mani sulle cose che usiamo quotidianamente, ma la complessità tecnologica di molte delle apparecchiature moderne rende la cosa inarrivabile. Però, l’arte della manutenzione potrebbe essere coltivata meglio e si potrebbero trovare sedi dove venga insegnato un mestiere che tra l’altro potrebbe avere delle altissime prospettive occupazionali. Se ci fosse un numero adeguato di riparatori diffuso sul territorio, anche per la grande industria potrebbe tornare ad essere un plus mettere in vendita oggetti facilmente riparabili anche se magari costano un pochino di più. Mi hanno fatto l’esempio dei ferri da stiro: ormai per ripararli bisogna avere delle chiavi speciali che non si trovano nemmeno in commercio perché le hanno soltanto i produttori, per cui è difficilissimo aprirli. Quindi è scontato che quando un ferro si rompe lo butti via e ne compri un altro. Allora, mettere in commercio dei ferri da stiro che si possano aprire e in cui cambiare la resistenza o altro, potrebbe essere un vantaggio. Ma al di là degli esempi innumerevoli che possiamo fare, occorre insistere sulla figura del riparatore, perché è l’uomo artigiano di cui parla Sennet: quello che unisce a una grande manualità e a una grande competenza tecnica un’attenzione speciale, che in molti casi può anche essere amore per l’oggetto, pensiamo a un restauratore.
Ritrovare quella manualità, una volta molto sviluppata e che oggi si è persa nel lavoro ripetitivo, far tesoro di competenze tecniche, a volte di grandissimo livello, e averne cura con un continuo aggiornamento per tenere il passo con il progresso tecnico, rappresenta il superamento di quella ripetitività del lavoro propria del fordismo, che ha separato rigidamente il lavoro esecutivo manuale, istupidito fino al limite della monotonia, trasferendo tutta la componente intellettuale del lavoro negli organismi direzionali e di coordinamento; anche lì poi parcellizzati in modo che nessuno ha più la visione complessiva di quello che sta facendo. E allora, nell’ambito del superamento del fordismo, la figura del riparatore è sicuramente quella che racchiude in sé, da un lato, le componenti fondamentali della figura dell’uomo artigiano, ma, dall’altro, anche le potenzialità effettive di inserimento in un tessuto economico cambiato.
Tu avanzi una proposta ulteriore, che definisci utopica, puoi raccontare?
La proposta è questa: trasformare le stazioni ecologiche, che oggi funzionano come sedi di conferimento di rifiuti ingombranti, in strutture molto più ampie, dove, anche avvalendosi delle modifiche che dovrebbero essere introdotte nella legislazione grazie alla nuova direttiva dell’Unione Europea, a monte del conferimento ci sia una struttura delegata a selezionare i beni che possono essere rimessi in commercio o da cui si possano ricavare parti riutilizzabili. Alle spalle di questi impianti dove viene selezionato e accumulato il materiale potrebbero esserci anche dei laboratori attrezzati per la lavorazione di questi oggetti, per utilizzare una parte del materiale, in maniera didattica, sotto la guida di esperti, per insegnare a riparare certi oggetti. In due modalità: una del fai da te, organizzando corsi per i cittadini qualsiasi, ma soprattutto mettendo a disposizione dei macchinari, penso a un tornio o a una fresa, che nessuno avrebbe né la possibilità né l’interesse a tenersi in casa, perché se uno li usa, lo fa una volta o due all’anno o nella vita; ma che invece, ovviamente sotto la sorveglianza di un esperto, potrebbero essere utilizzati da tutti.
L’altra modalità potrebbero essere dei corsi più specializzati per chi volesse venire inserito in quest’attività, lavorando in corpore vili sul materiale che effettivamente si trova in questi luoghi.
Resta il problema della commercializzazione di questi oggetti…
C’è un ostacolo costituito dall’attuale legislazione che non consente la vendita di ciò che viene consegnato a chi gestisce i rifiuti. Punto. Dopodiché, in violazione consensuale della legge, è permesso anche oggi ad alcuni soggetti particolari di metter le mani su alcuni rifiuti ingombranti. E così a Torino, e tra un po’ a Roma, ci sono cooperative sociali che hanno degli accordi con le aziende di nettezza urbana per cui qualcosa possono intercettare. Il limite maggiore di queste pratiche è che quello che riescono a salvare lo mettono direttamente in vendita loro, restringendo il giro potenziale. Bisognerebbe poter sfruttare tutti i circuiti dell’usato specializzato, nel senso che c’è già chi sa aggiustarlo e valorizzarlo. Per dire, chi vende libri usati non sa vendere i vestiti e non sa vendere i giradischi d’epoca o i mobili d’antiquariato, mentre il mercato è in grado di valorizzare queste specializzazioni, fino ad arrivare, quando è il caso, al negozio degli antiquari. Allora, vista l’enorme mole di beni usati disponibili se questo tipo di stazione ecologica si diffondesse, il problema non è rimettere immediatamente in vendita le cose che si sono aggiustate, ma fare periodicamente delle aste perché vengano avviate ai canali del mercato che già ci sono.
In questo settore lavora una grandissima percentuale di stranieri senza permesso di soggiorno, che altrimenti non potrebbero avere accesso a questo mercato. Molti vanno a frugare nei cassonetti. Se questi beni venissero messi all’asta, e vi potesse partecipare anche una Onlus, sarebbe poi responsabilità sua gestire i rapporti con le comunità con cui è in contatto. Non si tratterebbe di una trappola per legalizzare questi lavoratori, ma di una chance per permettere loro di lavorare in condizioni migliori e quindi di avere meno opportunità di delinquere, e contemporaneamente di salvare una quantità di beni straordinariamente grande che oggi il mercato non è in grado di assimilare.
E’ importantissimo trovare il modo per regolarizzare questi circuiti, anche se questo non vuol dire legalizzare ipso facto la posizione di chi ci lavora, ma certo significa fare in modo che più materiale venga recuperato e meno ne venga smaltito con una potenziale ricaduta sull’occupazione e sul sostegno ai lavoratori stranieri.
Dicevi del riuso dei beni durevoli...
Sono molto legato a una Onlus romana, che si chiama "L’occhio del riciclone”, che lavora con una comunità rom, e da 10 anni fa inchieste sui rifiuti generati dai beni durevoli, per promuoverne il recupero e il riciclaggio. Questa organizzazione ha messo a punto una metodologia per distinguere a colpo d’occhio e con competenze tecniche, quello che si può recuperare, rivendere oppure utilizzare per aggiustare altre cose o per fare altri oggetti. E’ anche legata a una cooperativa di donne che faceva lavori di sartoria, aggiustaggio di vestiti usati e dismessi. Ma hanno scoperto che a Roma, dove esiste ancora la raccolta indifferenziata con cassonetto stradale, molti rom lavorano frugando nei cassonetti e recuperando oggetti di piccole dimensioni, quelli che possono stare nei cassonetti. "L’Occhio del riciclone” ha scoperto che la comunità rom impegnata in questa attività conta circa tremila persone, la maggioranza donne e bambini, anche piccoli. Ha fatto anche degli screening sul materiale recuperato e pare che la quantità di beni rimessi in circolo sia superiore a quanto si potrebbe recuperare dalle stazioni ecologiche, che peraltro a Roma sono in misura assolutamente insufficiente.
Tre anni fa avevano stimato che il valore, solo a Roma, del commercio dell’usato era di circa 30 milioni di euro l’anno. Ma c’è di più: Massimo Perbellini, che è il presidente di Mercatino srl, un’azienda che fa vendite dell’usato in conto terzi con 150 punti vendita in franchising (conto terzi vuol dire che se tu hai qualche oggetto di un certo valore di cui vuoi sbarazzarti, lo depositi presso uno di questi negozi e se lui riesce a venderlo riscuote una percentuale), sostiene che il valore delle vendite in conto terzi si aggira oggi in Italia intorno al miliardo di euro all’anno. Perbellini ritiene che se si potesse recuperare tutto quello che viene buttato via nelle riciclerie o nei punti di consegna degli ingombranti, si potrebbe arrivare a un valore di circa 12-13 miliardi di euro all’anno.
Per non parlare dell’occupazione, perché queste son tutte attività ad altissima intensità di lavoro, anche se a bassissima remunerazione. O meglio, quasi tutte, perché poi dentro questa catena ci sono anche gli antiquari, che recuperano, magari comprandolo al mercatino, il pezzo di valore; e molti antiquari sono persone straricche.
A livello internazionale qualcosa si sta muovendo. Nel 2008 l’Unione Europea ha varato una nuova direttiva quadro sulla gestione dei rifiuti, in cui sono cambiate molte cose; una delle più significative è che nella gerarchia delle priorità che dovrebbero regolare la gestione dei rifiuti, che tradizionalmente era: prima ridurre, poi riciclare, cioè recuperare materia, poi recuperare energia solo da quello da cui non si può recuperare materia, poi smaltire in discarica soltanto quello che rimane, è stato introdotto un nuovo gradino, che è "preparazione per il riutilizzo”, da inserire fra "riduzione” e "riciclo”.
La differenza è che con il riciclo recuperi soltanto il materiale, invece con il riutilizzo recuperi l’oggetto nell’uso a cui era precedentemente adibito.
Il quadro che fai sembra molto difficile da realizzare, anche perché il singolo da solo può fare poco.
Tutte le cose di cui parliamo sono difficilissime e sempre più difficili... Abbiamo però due leve su cui contare. Da un lato la vita sta diventando sempre più difficile per un numero crescente di persone, che dall’oggi al domani restano senza fonti di reddito; uno scenario che rende la risposta potenziale a certi problemi più urgente. Dall’altro il livello su cui possiamo lavorare è esclusivamente culturale, ma non nel senso della predica o della teoria, ma basandoci su esempi concreti.
Prendi l’esperienza dei Gas, i gruppi d’acquisto solidali. Non c’è dubbio che sia un’esperienza esemplare, ma si sta diffondendo. Se poi si faranno le stazioni ecologiche per promuovere il riuso, anch’esse potranno diffondersi. Di cose così ce ne sono tante altre, che si stanno moltiplicando a iosa.
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