11.12.10

La marchesa del Châtelet (dalle "Memorie" di Voltaire)


Ero stanco della vita oziosa e turbolenta di Parigi, della folla dei saputelli, dei cattivi libri stampati sotto l’approvazione e il privilegio reali, delle cabale degli uomini di lettere, delle bassezze e del brigantaggio dei miserabili che disonoravano la letteratura. Mi imbattei, nel 1733, in una giovane signora che la pensava pressappoco come me, e che prese la decisione di andare a passare qualche anno in campagna, per coltivarvi il suo spirito lontana dal tumulto del mondo: era la marchesa del Châtelet, la donna che fra tutte in Francia aveva disposizione per ogni scienza.
Suo padre, il barone di Breteuil, le aveva fatto insegnare il latino, di cui ella padrona quanto la signora Dacier: sapeva a memoria i più bei passi di Orazio, Virgilio e Lucrezio; tutte le opere filosofiche di Cicerone le erano familiari. Il suo interesse dominante era riservato alle matematiche e alla metafisica. Raramente si sono trovate in una sola persona, più che in lei, una maggior misura di intelligenza, una maggior finezza di gusto, unite all’ardente desiderio di istruirsi; con ciò ella non amava meno il mondo e tutti i divertimenti della sua età e del suo sesso. Tuttavia abbandonò ogni cosa per ritirarsi in un castello diroccato ai confini della Champagne e della Lorena, in una terra assai ingrata e aspra. Abbellì questo castello, ornandolo di gradevolissimi giardini. Io vi costruii una galleria; vi creai un bellissimo gabinetto di fisica. Mettemmo su una ricca biblioteca. Alcuni luminari vennero a filosofare nel nostro ritiro. Per interi anni, avemmo con noi il celebre Koenig, che è morto professore a Le Havre e bibliotecario della principessa d’Orange. Mapertuis venne con Jean Bernouilli.
Insegnai l’inglese alla signora del Châtelet, che nel giro di tre mesi arrivò a conoscerlo bene quanto me e leggeva, indifferentemente, Locke, Newton e Pope.
Altrettanto rapidamente apprese l’italiano; leggemmo insieme tutto il Tasso e tutto l’Ariosto. Talché, quando Algarotti venne a Cirey, dove portò a termine il suo Newtonianesimo per le dame, la trovò abbastanza istruita nella sua lingua per darle degli utilissimi consigli di cui ella fece tesoro. Algarotti era un veneziano assai amabile, figlio di un ricchissimo mercante; viaggiava per tutta l’Europa, sapeva un po’ di tutto, e a tutto trasmetteva la sua grazia.
Non pensavamo ad altro che ad istruirci in quel delizioso rifugio, senza preoccuparci di sapere ciò che avveniva nel resto del mondo. la nostra più grande attenzione fu a lungo concentrata su Leibni e Newton. La signora del Châtelet si dedicò dapprima a Leibniz, e sviluppò una parte del suo sistema in un libro molto ben scritto, intitolato Institutions de fisique. Non cercò affatto di parare questa filosofia con orpelli stranieri; una simile leziosaggine non riantrava affatto nel suo carattere virile e schietto. Il suo stile s’improntava alla chiarezza, alla precisione e all’eleganza. Se ma si è saputo dare una qualche verosimiglianza alle idee di Leibniz è in questo libro che bisogna cercarla.

Postilla
Le Mémoires pour servir à la vie de M. de Voltaire, écrits par lui-même tradotte da Alfonso Zaccaria, con il titolo di Memorie furono nel 1980 uno dei primi titoli (il quinto per l’esattezza) della straordinaria collana di volumetti blu della Sellerio, “La memoria”, a quel tempo diretta da Leonardo Sciascia, che personalmente curava la selezione e la scelta. Il testo fu pubblicato per la prima volta in un anno fatidico, il 1789, nell’ultimo volume dell’edizione postuma delle opere volteriane curata da Kelh. Ne era tema fondamentale il tempestoso rapporto di Voltaire con Federico di Prussia, un’amicizia finita male dopo il tentativo di collaborazione in un governo “illuminato”, tant’è che queste memorie in Francia erano state pubblicate autonomamente, col titolo Vie privée du roi de Prusse nel 1914, altra data significativa, l’inizio per i francesi della Grande Guerra antitedesca.
Il brano che io riprendo, all’inizio del racconto volteriano è un ritratto di una grande donna, Gabrielle Émilie Le Tonnelier de Breteuil, marchesa du Châtelet, (Parigi, 17 dicembre 1706 – Lunéville, 10 settembre 1749), che fu grande matematica, fisica e scrittrice, uno dei più grandi ingegni non solo dell'intero XVIII secolo ma di ogni tempo.
Il 12 giugno 1725, appena diciannovenne, sposò il marchese Florent Claude du Châtelet all’epoca trentenne e ne ebbe tre figli. Il rapporto sentimentale più importante e duraturo della sua vita fu quello con il grande Voltaire. I due, come racconta il maestro dell’illuminismo, vissero insieme nel castello di Cirey-sur-Blaise, nell’Alta Marna, senza nascondere la loro relazione, con una libertà rara perfino tra le classi elevate. Fu un sodalizio che fece scalpore: lui all’apice del successo letterario, le immersa nella mondanità. La lunga presenza di Voltaire a Cirey, un vero e proprio esilio, fu determinata anche da un interdetto regio che qui non si cita: aveva osato esaltare le libertà inglesi. Il filosofo, dal canto suo, contribuì cospicuamente, con il proprio denaro ai lavori di restauro del castello e alla formazione della ricca biblioteca.
Nel 1746, innamorata del poeta Saint Lambert, Emilie lasciò Voltaire e, per quest’amore che dicono non ricambiato volle affrontare una pericolosa gravidanza, che portò a morte lei e la neonata. Fu assistita negli ultimi momenti da Voltaire, col quale era rimasta in ottimi rapporti, oltre che da Saint Lambert.
Nel 1749, poco dopo la morte di Emilie, Voltaire scrive a un'amica: “Je n'ai pas perdu une maîtresse mais la moitié de moi-même. Un esprit pour lequel le mien semblait avoir été fait (non ho perduto un'amante ma la metà di me stesso. Un'anima per la quale la mia sembrava fatta)”. Una donna siffatta era forse più della sua metà e una relazione come quella tra i due resta nei sogni di molti intellettuali. Sono persuaso che anche Leonardo Sciascia amasse la signora du Châtelet. E, si parva licet componere magnis, anch’io. (S.L.L.)

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