8.12.10

L'Unione europea e il martello irlandese (di Roberta Carlini)

Da "Rocca" di novembre riprendo un articolo della nostra Robertina Carlini, come sempre chiara ed efficacissima nel far intendere le cose di economia a noi profani. Il tema è il debito pubblico, la vicenda irlandese, le politiche e le non politiche europee, le disgrazie italiane. Da leggere (S.L.L.).
Dublino, La Cattedrale di San Patrizio
Il martello irlandese
L’Unione europea è come un bambino con un martello in mano: vede chiodi dappertutto. La metafora è stata efficacemente usata dal premio Nobel Paul Krugman per descrivere l’ossessione del bambino-Europa: il chiodo, in questo caso, è il debito pubblico. E la scena del bambino con il martello si è ripetuta quando è scoppiata l’ultima grana europea, ossia la crisi irlandese. Una crisi originata dall’imprudente esposizione delle banche nella bolla immobiliare, quindi nata e crescita all’interno del settore finanziario privato; ma poi trasformata in un problema di debito pubblico. Anche in questa occasione si è ripetuto il copione delle altre crisi: riunioni d’emergenza, grandi medici (Fmi e Ue) al capezzale del grande malato, braccio di ferro, speculazione scatenata, intervento di salvataggio. Ennesima emergenza internazionale, di fronte alla quale il presidente dell’Unione europea ha addirittura paventato la fine dell’euro; ma che qui da noi è stata provincialmente usata come un salvagente per far galleggiare ancora per un mesetto il governo, nell’attesa dell’approvazione della legge di stabilità – nuovo nome dato alla vecchia legge finanziaria.

Irlanda, l’ex miracolo
La memoria, in campo economico e politico, è sempre più corta. Però stavolta il balzo è stato troppo repentino e tutti ancora abbiamo in mente le pagine dei giornali, le prediche degli economisti, i buoni voti degli analisti a proposito dei miracolosi risultati conseguiti dall’Irlanda. “La tigre celtica”, veniva chiamata. “Fate come l’Irlanda”, dicevano tutti. Basse tasse, flessibilità del lavoro, finanza veloce, crescita impetuosa. Eppure il miracolo irlandese è franata in pochissimo tempo, a causa del fatto che, come gran parte dei miracoli ai quali abbiamo di recente assistito, non posava su fondamenta solide. Era fondato sul debito, sul “leverage”. E quando la crisi del sistema bancario del 2008 ha messo in difficoltà i disinvoltissimi istituti di credito della “tigre”, il governo irlandese è intervenuto per evitare il tracollo. Ha salvato le banche con i soldi dei cittadini; e poiché questi non bastavano, ha fatto debiti sostituendo così al debito privato delle banche il debito pubblico. Non è stato il solo: un Rapporto della Commissione europea del maggio scorso rivela che da ottobre 2008 a marzo del 2010 i paesi europei nel loro insieme hanno stanziato 4.131 miliardi di euro per arginare gli effetti della crisi sulle proprie banche. Una somma enorme. Per avere un’idea della grandezza basti pensare che si tratta del 32,6 per cento del Pil europeo. E tale gigantesca operazione di salvataggio della finanza – non di fronte a un’emergenza imprevedibile, a un evento esterno, a una sciagura naturale, ma in seguito ai guasti derivanti dallo stesso ordinario modo di funzionare della finanza – è avvenuta in ordine sparso, d’urgenza e senza chiedere nulla in cambio. Un processo di blanda riscrittura delle regole del sistema finanziario è stato nel frattempo avviato, ma in forma debole e fuori tempo massimo. Il governo europeo – il faticoso processo decisionale che dovrebbe coordinare una zona con una sola moneta e tante sovranità politiche – si è trovato senza strumenti politici, istituzionali e anche culturali per far fronte alla situazione. Nel frattempo però le conseguenze dei salvataggi pubblici si sono fatte vedere e sentire, in misura diversa, sui vari bilanci nazionali. Molti paesi sono entrati in zona rischio rispetto ai parametri scritti nei trattati europei sui rapporti tra debito e prodotto, tra deficit e prodotto. Così finalmente i governanti europei si sono trovati di nuovo di fronte a un paesaggio conosciuto: il bambino col martello ha ritrovato il suo chiodo, il debito pubblico, e ha ripreso a martellare a casaccio.
Anche per l’Irlanda l’emergenza è arrivata sull’onda dei dati del rapporti tra deficit e prodotto, e come era già successo per la Grecia sono stati chiamati al salvataggio fondi europei e il Fondo monetario internazionale. L’urgenza, in questi casi, non è quella di fermare la crisi di sfiducia verso il sistema creditizio – quella che si temeva al momento dei bail-out delle banche – ma quella di fermare le scommesse della speculazione contro i paesi più deboli, più a rischio nella stabilità dei conti. La stessa pressione che ha portato la Grecia ad accettare tagli pesantissimi al bilancio, che ovunque sta portando a ridurre le spese e ridimensionare il settore e i servizi pubblici, con conseguenti esplosioni di protesta sociale, ma che pare non riuscire a far recedere l’Irlanda dalla manovra politica di cui va più fiera, ossia l’abbassamento delle tasse sulle imprese.
Non può sfuggire la gravità della situazione. Da un lato, i governi europei confermano la loro incapacità di passare a una fase nuova, in cui l’Unione sia a tutti gli effetti un soggetto politico-istituzionale capace di governare i tumulti della zona monetaria; anzi, questi stessi tumulti non sortiscono neanche un effetto minimo di concordia tra i vari paesi, che si aiutano solo nella misura in cui questo serve a salvare le rispettive banche ma che restano tra loro in competizione per attrarre capitali. E restano dunque in balìa dei movimenti e capricci di questi ultimi. Dall’altro lato però, tutto ciò non riporta la situazione al punto di partenza – politica debole, economia forte – perché il sistema economico-finanziario è minato dall’interno e dunque non fa che trasmettere crisi da un paese all’altro.

L’Italia è in salvo?
Ogni volta che un paese debole è preso di mira dalla speculazione, tutti gli altri si girano verso di noi. Stavolta tocca all’Italia? Ci salveremo? Finiremo come la Grecia? Ma anche per la crisi irlandese, come era già successo per le altre, il contagio non è arrivato. Rispetto alla grande crisi cominciata due anni fa, l’Italia è in una posizione anomala. Il suo sistema bancario è rimasto abbastanza – anche se non del tutto – al riparo dallo choc, i prodotti tossici che hanno avvelenato la finanza mondiale ce li avevamo anche noi ma in misura assai minore. Così, a cavallo tra il 2008 e il 2009 il governo italiano non è dovuto intervenire a salvare le banche, come molto altri governi hanno dovuto fare. In sé, la crisi finanziaria non ha aggravati i problemi delle casse pubbliche italiane, che già avevano un bel po’ di problemi ma che non si sono dovute sobbarcare anche quelli delle casse private delle banche. Tutto bene, allora? No. Perché se la crisi finanziaria da noi è stata un po’ più mite che altrove, molto più rigida è stata la gelata che in tutto il mondo è arrivata sull’economia: la crisi di domanda, la stretta del credito alle imprese e alle famiglie, le crisi aziendali, i licenziamenti e i mancati rinnovi dei contratti atipici. Dunque l’Italia, meno esposta al contagio finanziario, è stata investita da quello “reale”, dell’economia in carne ed ossa. Questo non è senza conseguenze per le casse pubbliche, investite da minori entrate – a causa della crisi – e da maggiori spese automatiche, come quelle per la cassa integrazione. Di qui un aumento del “rischio Italia”, che i mercati quantificano in quello che si chiama lo “spread”, la differenza tra i tassi a lungo termine sui titoli del debito pubblico italiano e gli altri, in particolare i “bund” tedeschi.
Proprio a causa di questo rischio e della necessità di piazzare a ogni scadenza titoli del debito pubblico sul mercato, il ministro Tremonti ribadisce a ogni pie’ sospinto la necessità del rigore nei conti, e il presidente della repubblica Napolitano ha fatto pressioni perché la manovra finanziaria – la “legge di stabilità” – fosse messa in salvo, a prescindere dall’esito della crisi politica. Un clima da emergenza e solidarietà nazionale, che è stato condiviso anche dall’opposizione in parlamento. Ma questo clima ha fatto passare del tutto in secondo piano i contenuti; e la risposta alla domanda essenziale: la legge di stabilità che il parlamento italiano si accinge a votare – prima di passare a occuparsi del futuro di Berlusconi e dello stesso Tremonti – mette davvero in salvo l’Italia? Serve approvare una manovra purchessia, per uscire dalla gravissima situazione dell’economia e della società italiana? Nella manovra di quest’anno – come in quelle del 2008 e del 2009, ossia le due manovre fatte da quando la crisi è iniziata – non c’è nessuna misura contro la recessione. L’Italia non ha mai discusso in parlamento della crisi, e non ha mai avuto un “pacchetto di stimolo”, al contrario degli altri paesi. Al contrario: la manovra va nella stessa direzione della recessione (è pro-ciclica, in termini economici) perché restringe la spesa pubblica nello stesso momento in cui si riduce quella privata. Non riduce le tasse, elargisce solo qualche bonus alle categorie più protette dal governo: per esempio, i pendolari avranno tariffe più alte sui treni, mentre i camionisti avranno di nuovo gli incentivi all’autotrasporto. Non aumenta la spesa per i settori che più incidono sull’innovazione e sullo sviluppo – a partire dalla ricerca e dalla scuola – che invece continuano a subire tagli. Non cambia le regole della protezione sociale, che continuano a coprire (poco e male) solo i lavoratori dipendenti della grande industria. E’ possibile – ma non è detto – che tutto ciò rassicuri i mercati, di certo non dovrebbe rassicurare i cittadini italiani.
Ma si ritiene – l’establishment ritiene – che sia necessario votarla e in fretta, per evitare di “finire come la Grecia e l’Irlanda”. Come ha detto Corrado Guzzanti: “Intanto, speriamo di non finire come l’Italia”.

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