23.1.11

Contro Berlusconi. Aventino o piazza? L'articolo della domenica.

Un amico assai caro oltre che polemista politico puntuto ed efficace è anche discreto analista. Un tempo azzeccava anche le previsioni, ma, da quando c’è in ballo Berlusconi, le sue facoltà predittive sono in ribasso. Dal dicembre del 1994 ne ha antiveduto la morte politica almeno una decina di volte, con immutata convinzione, ma tutte le volte ha dovuto poi riconoscere lo scacco. Temo che in lui l’immaginazione politica sia depotenziata dalla forza del desiderio.
Ora s’è fatto più prudente. Dice che il Cavaliere è come quel tipo che non fa che entrare e uscire dagli ospedali, ogni volta cavandosela e proclamando il proprio totale risanamento; aggiunge: “Prima o poi  ci rimane”.
L’errore del mio amico è di metodo, è nella convinzione che uno così, con il suo conflitto d’interesse, la sua incultura, la sua ciarlataneria, i suoi giri intercambiabili di politici prostituiti e prostitute politicanti, non può durare, che prima o poi il potere vero (che egli considera cosa più seria) lo espellerà dal suo seno.
Non è così che funziona. L’uomo ha accumulato una potenza economica che gli permette di irridere chi continua a trattarlo da parvenu e mostra una protervia, un senso dell’impunità che affascina i più consolidati potentati economici, finanziari o religiosi, dato che riesce a sintetizzare in un monstrum inimitabile tutto il peggio della tradizione italiota, dalla recitazione da guitto all’amoralità, dalla cialtroneria al bigottismo, superando in sfrontatezza i più riusciti personaggi di Alberto Sordi.
Come che sia i cardinaloni, i banchieroni, i rampanti manager maneggioni e le residue belle famiglie del capitalismo italiano non faranno niente per buttarlo giù. Continueranno piuttosto a prendere le distanze tutte le volte che il “Cavaliere del Cacchio”, avendo ampiamente superato ogni limite di decenza e buon gusto, sembrerà vacillare; ma continueranno ad usare il potere di lui per ottenere favori di ogni sorta.
Una tattica analoga segue la Lega di Bossi e Calderoli. Forte di un consenso costruito sul fallimento delle sinistre novecentesche e di una ideologia comunitarista che ricorda più il nazismo che il fascismo, la Lega spregiudicatamente usa con Berlusconi l’arma del ricatto ottenendo, soprattutto al Nord, fette di potere sempre più ampie, senza mai abbandonare l’ispirazione secessionista con la connessa vocazione totalitaria.
E’ infine un’illusione che il colpo di grazia possa venire a Berlusconi dai Fini e dai Casini che l’hanno a lungo sostenuto e il cui potere d’attrazione diminuisce ad ogni tentativo fallito, o dai frondisti del Pdl di cui di quando in quando si vocifera.
“La reazione è simile alle erbacce – diceva Mao – se non la sradichi non smette di crescere”. Vale anche per la mala pianta rappresentata da questo governo e, più in generale, dal berlusconismo. Non si può sperare che si dissecchi da sé, è indispensabile un'azione che oggi non sembra avere la forza necessaria.
L’opposizione parlamentare di centrosinistra è, del resto, quella che è. L’intransigente Di Pietro è ridotto all’impotenza. Ha sempre rifiutato di costruire altro che un partito personale, in cui i gruppi dirigenti a tutti i livelli dipendano da lui. Ma su questo terreno Berlusconi è assai più forte: ha più televisioni, più giornali, più denari e si compra i parlamentari che il molisano riteneva cosa sua.
Nel Pd, dopo mesi di tensioni, torna oggi un po’ di entusiasmo per il conato unitario del Lingotto e Scalfari nel sermone domenicale di “Repubblica” si esalta per il ritorno di Veltroni. Il vecchio e barbuto giornalista non ha mai portato fortuna ai leader per i quali si è schierato con più convinzione (De Mita e Spadolini, per esempio), ma la rinnovata infatuazione per l’ex sindaco di Roma e per il suo immarcescibile nuovismo mi pare un segno di accentuata senescenza, al limite del rimbambimento.
Piace anche a me la scelta del Pd, che questa volta sembra unanime, di smetterla coi traccheggiamenti e di chiedere oltre alle dimissioni di Berlusconi nuove elezioni, ma tutto questo mal si concilia con le disponibilità che sembrano riaffacciarsi sul federalismo fiscale ed altre consimili aperture di dialogo a destra. Bisogna aspettare i fatti.
Mercoledì scorso su “Il fatto” Paolo Flores ha avanzato alle opposizioni parlamentari una proposta: che compattamente escano “da un Parlamento che il Puttaniere ha già trasformato nel suk dei voti all’incanto” e si riuniscano “separatamente e pacificamente in una Pallacorda che rappresenti quanto ancora resta dell’Italia civile, per provare a salvarla e ricostruirla”. A me l’iniziativa più che la Pallacorda rammenta l’Aventino. Se realizzata avrebbe esattamente gli stessi limiti che i comunisti di Gramsci attribuirono all’Aventino quando ne uscirono. Le forze dei parlamentari “separatisti” sarebbero oggi ostili a un’iniziativa di piazza come allora rifiutarono la proposta comunista dello sciopero generale; si affiderebbero oggi al capo dello stato come gli aventiniani aspettarono, invano, il sostegno del re.
Credo pertanto che il terreno più idoneo alla cacciata di Berlusconi sia la piazza e penso che lo sciopero indetto per il 28 dalla Fiom sia l’occasione propizia e possa avere non solo un grande impatto, ma anche una capacità di trascinamento. Questione morale e questione sociale appaiono, del resto, sempre più legate. E lo strapotere padronale che ha trovato il suo acme nel diktat marchionnesco (ipocritamente chiamato referendum) di Pomigliano e Mirafiori è l’altra faccia del berlusconismo. Sarebbe troppo, tuttavia, chiedere ai metalmeccanici della Cgil di farsi carico di reclamare in prima persona le dimissioni del governo. Tocca ad altri dare, in primo luogo con la massiccia presenza e la combattività, questo contenuto alla giornata di lotta di venerdì prossimo: il movimento degli studenti, il popolo viola, il popolo dei precari, associazioni, forze politiche della sinistra. Una manifestazione grande e forte può essere per tutta l’Italia che non ne può più un grande segnale, può spingere all’azione i riluttanti, alla parola i silenti e accelerare la fine politica del tenutario di Villa Arzilla, dei suoi tirapiedi, delle sue cortigiane.

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