1.
Ci sono circolari dei presidi sulle supplenze occasionali. Non si può stare lì a fare le proprie cose, tollerando che i ragazzi si industrino con compiti, battaglie navali, aeroplanini di carta. Ne andrebbe dell’immagine della scuola. Bisogna sempre inventarsi qualcosa per tenerli in esercizio: proporre quesiti, affrontare temi, risolvere problemi, disegnare iperboli, consultare lessici, ripassare regole, cantare inni, di preferenza patriottici.
Io organizzo giochi di società, passabilmente letterari.
“Facciamo plot” - è il nome con cui ho ribattezzato quel passatempo innocuo che consiste nell’inventare in gruppo una storia, un pezzo per ciascuno.
Lo uso anche come sondaggio. La classe è un piccolo ma significativo campione casuale che consente di verificare sperimentalmente i trend dell’immaginario giovanile. Non è cosa da poco.
La traccia della storia che segue l’hanno disegnata in una prima di liceo classico ragazze e ragazzi di sedici anni. Io l’ho colorata.
2.
Pomeriggio, autunno, periferia urbana, una di quelle strade larghe, circondate da ipermercati, magazzini del risparmio, fonti delle calzature, fatte apposta per automobili che sembrano far le gare, dove devi stare attento anche sui marciapiedi, strettissimi. Piove e tira vento.
Un ragazzo cammina veloce. Ha un ombrello che non riesce a tenere ben aperto per l’impeto degli aquiloni: ogni tanto si ferma e tenta di rimetterlo in sesto. Invano. Porta abbigliamento casual tutto mollo, jeans, maglione nero largo e lungo fino alle ginocchia con sopra una camicia a scacchi, bianca e rossa, completamente sbottonata, scarponcini da trekking. Sul volto peluria rada e lunga, brufoli, impazienza.
Frenata, inzaccheratura. La parte inferiore dei jeans è del tutto zuppa, le calze non si vedono, le si può immaginare.
Automobile, grande, lussuosa, di un blu non troppo scuro. Si è fermata accanto a lui, ma il ragazzo tira dritto senza voltarsi.
La macchina adesso procede al suo fianco, al suo stesso ritmo. Spruzzo continuato. Sul volto del ragazzo, in un mix variabile, sorpresa, paura, fastidio e, ancora, impazienza.
Cerca di guardare dentro l’automobile con la coda dell’occhio. C’è solo il conducente e non riesce a vederlo. Si ferma di botto, si volta. Si ferma anche la macchina, si apre la portiera. Donna! Sui trenta, fascinosa, truccatissima, impermeabile nero.
“Sali”- secco.
Perplessità.
L’autista porta le mani sul bavero ed apre l’impermeabile. Sotto è nuda, stupenda. Richiude.
Perplessità, meraviglia e sgomento. Curiosità. Non più impazienza.
Riapre, richiude il soprabito (?!).
Disserra, rinserra.
Tre volte, quattro, sette, dieci. A un ritmo sempre più veloce, frenetico infine.
Il ragazzo pensa, risolve, sale, si siede. Infradicia tappeto, coprisedile in pelle (o similpelle) di leopardo, cambio e freno a mano, con i vestiti, molli. E con l’ombrello, rotto. Non si vuole richiudere.
La donna si abbottona, dal collo alle caviglie.
Il ragazzo la guarda, chiede parole, cerca spiegazioni anche tacite, nell’espressione, nello sguardo. Partono. Impassibile, quasi inespressiva. Guida sicura. Velocità moderata.
Dopo un chilometro svolta a destra. Viale asfaltato, alberato, dritto, lungo, un paio di chilometri.
Nuova svolta, ancora a destra. Stradone in terra battuta, sul margine oleandri. Rallentamento.
In vista, a cinquecento metri, una villa di costruzione moderna, volumi regolari, squadrati, due piani, ocra, tante finestre; parco con prato e alberelli, pochi, larghezza duecento metri, profondità cento, con l'edificio al centro; recinto in ferro battuto su base in mattoni; cancello metallico tra colonne in muratura a sezione quadrata, alto quanto il recinto. Tre metri, forse due metri e cinquanta.
In prossimità del cancello ulteriore rallentamento. Passo d’uomo. La donna estrae dal tascone destro del trench un telecomando, preme un bottone. Il cancello si apre lentamente, dai due lati, ma la donna non entra nel parco con la macchina, sterza, ancora a destra. Accosta l’automobile al recinto, non lontano dal cancello, si ferma, spenge il motore, tira fuori la chiave, la mette nel tascone, destro. Guarda il ragazzo nel volto, perplesso e teso come tutto il corpo. Non più inespressiva, caso mai enigmatica.
“Vieni” - secca.
Il ragazzo la segue, senza pensare.
Trenta metri di vialetto, costeggiato da palme nane. Sparse per il prato sculture astratte, sfere sormontate da cubi, parallelepipedi disposti di traverso, tronchi di cono capovolti.
Piove, ancora. E l’unico ombrello è quello del ragazzo che continua a non funzionare, nonostante i suoi sforzi di rendersi utile riparando la signora.
Di fronte un portoncino in massello, non so qual noce, uno di quelli che arrivano dal sud est asiatico, fabbricato in serie, decorato a riquadri stile soap-opera nordamericane, battente unico. La donna apre con una chiave a spillo estratta dal tascone, sinistro.
Entrano. Sala molto ampia, quadrata, piuttosto spoglia. Pareti chiare, vuote. Di fronte, al centro, una vetrata scorrevole; accanto ad essa, dal lato destro un appiccapanni circolare, con bastoniera e ombrelliera, di acciaio brillante, dal lato sinistro un grande vaso cinese con dentro un fascio di fiori, finti. Sulla parete sinistra un caminetto, due poltrone di pelle, chiara, un portariviste con una sola rivista, illustrata, un mobiletto bar di resina colorata con una sola bottiglia di whisky, Glenmorangie, e tre bicchieri di robusto cristallo, lunghi. Sulla parete destra due passaggi senza infissi.
Il ragazzo corre a riporre l’ombrello scassato. Rimane semiaperto.
La donna richiude il portoncino con un doppio giro di chiave, a spillo, e poi osserva il ragazzo dalla testa ai piedi, di davanti, di dietro e dai lati. E’ imbarazzatissimo, sembra rimpicciolirsi.
Il caminetto è acceso. Si direbbe che in casa c’è qualcuno.
Ora la donna ha sguardo diverso. Partecipe, suadente, perfino malizioso. Parla. Timbro e tono mutati. Voce caldoumida: “Fai asciugare gli abiti su una poltrona e distenditi sull’altra. Serviti un whisky. Io vado a fare una doccia. Puoi leggere, intanto”.
Il ragazzo aspetta che la donna vada via per svestirsi.
Non se ne va: “Su, spogliati!”.
Lui, esitante, ubbidisce. Resta in slip a righe rosse e blu, maglietta bianca a mezza manica, di cotone, calzettoni bianchi, di quelli di spugna, economici, con un disegnino colorato, fradici.
La donna resta lì. Insiste: “Tutto! C’è il caminetto per scaldarti”.
Nudo. Un verme. Si rannicchia, sulla poltrona. L’ambiente è caldo, ma trema.
Lei torna ad osservarlo, attentamente, ma non molto a lungo. Ora si avvia verso la vetrata.
Il ragazzo la vede da tergo mentre sbottona l’impermeabile nero. Ne contempla la nudità posteriore mentre lo colloca sull’attaccapanni. Ne ammira la flessibilità del corpo, mentre si toglie le scarpe, altissime, e il portamento nel camminare.
Scompare. Dietro il vetro, opaco. Il ragazzo rimane lì, scombussolato.
Non fa a tempo a riaversi. Rumore di serratura che gira. Il portoncino d’ingresso si apre.
Uomo! Trench chiaro sopra un completo grigio spigato, in ottima lana, inglese come le scarpe, nere e solide. Camicia avana di seta, cravatta blu a pallini, bianchi.
La sicurezza del padrone di casa e l’aspetto del marito. Fisico asciutto, da sportivo. Statura ragguardevole. Capelli castani, folti, qualche pelo grigio alle tempie, baffi brizzolati. L’età dei mariti. Indeterminabile. Più di trenta e meno di cinquanta.
Vede il ragazzo, nudo sulla poltrona. Nella sua espressione sorpresa. Subito dopo rabbia.
Si affretta a richiudere il portoncino e ad appendere l’impermeabile. Si ferma lì, accanto all’attaccapanni, nel suo completo spigato, grigio. Guarda il ragazzo, con espressione grave, accigliata, severa
Il ragazzo, nudo sulla poltrona di pelle chiara, non può più rimpicciolirsi.
Tacciono, tutti e due. Per alcuni minuti. Cinque, forse otto, lunghi più degli anni.
Rumore dalla vetrata. Si apre. E’ la donna. La richiude. Indossa un accappatoio con la cintura, bianco, di piqué, come quelli di alberghi già prestigiosi ora in decadenza.
Volto bellissimo, anche senza trucco. Espressione di spaesamento.
La donna guarda: il ragazzo, nudo, raggomitolato sulla poltrona di pelle chiara; l’uomo, fermo in piedi vicino a lei, accanto all’appiccapanni.
Perplessità.
Poi dice:
“Boh!”.
3.
Nella classe c’erano più ragazzi che ragazze e sono stati loro ad impostare il racconto. Garantiti dall’assenza di registro, hanno voluto dimostrare alle compagne, mediamente più mature, di essere alla loro altezza, spregiudicati e navigati. Le compagne li hanno lasciati dire, forse irridendo in cuore alle loro inesperte fantasie.
Sul finale c’è un mistero. L’ultima ragazzina del gruppo, una di paese, di quelle timide, che non parlano neanche se interrogate, alla domanda “cosa dice la signora?”, tace un bel po’ per l’imbarazzo. Poi dà la risposta di cui nel racconto.
Una risposta? o un blocco dell’immaginazione?
Boh!
Salvatore Lo Leggio
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