11.3.11

Bianciardi e Garibaldi (di Massimo Raffaeli)

Luciano Bianciardi
Prosegue su “Tuttolibri”, il supplemento culturale del sabato allegato a “La Stampa”, la rassegna sui “libri dei 150 anni”, di quei libri cioè che, più significativamente, hanno raccontato non solo il Risorgimento ma anche quello che accadde dopo la proclamazione del Regno d’Italia, a partire dei primi anni. Il 15 gennaio è stato il turno dei libri (di storia, di divulgazione storica, misti di storia e d’invenzione) di Luciano Bianciardi. Nel pezzo qui “postato” Massimo Raffaeli, oltre a tracciare un profilo dello scrittore grossetano, ne sostiene il sostanziale “gramscianesimo”. L’anarchico Bianciardi non nascondeva, infatti, la sua umana simpatia per Giuseppe Garibaldi, il più legato al popolo e il più disinteressato dei facitori dell’Italia, ma ne leggeva la vicenda come una sconfitta, resa più gravosa dal tradimento dei più vicini. (S. L.L. )  
  
Per l'anarchico-scrittore l'Unità fu fatta male, contro il Generale
Il Risorgimento come rivoluzione senza rivoluzione: è la tesi che Antonio Gramsci affida ai Quaderni del carcere ed è quella che, tacitamente, attraversa tutta quanta l'opera di un cultore della materia, Luciano Bianciardi (1922-1971), il firmatario de La vita agra (1963) cioè il romanzo che se da un lato testimonia in presa diretta l'avvento del boom economico, dall'altro ne costituisce la più cruda messa in mora.
Bibliotecario nella sua Grosseto, poi a Milano redattore in Feltrinelli (nei cui uffici ha scritto Il lavoro culturale, ’57, e L’integrazione, ’60, due libelli che annunciano sia la drammatica risoluzione del rapporto di lavoro sia la fuoruscita dalla cosiddetta società affluente), Bianciardi è un ex sbandato dell’8 settembre che ha preso parte alla Liberazione unendosi agli angloamericani, ma a vent'anni di distanza, in piena Guerra fredda, è costretto a riconoscere che, ancora una volta, si è compiuta in Italia una rivoluzione senza rivoluzione.
Se la sua opera narrativa sembra infatti rimuovere la Resistenza e tacerla alla maniera di un tabù, viceversa la recupera al completo nell’iconografia di Garibaldi e nell’epica dei Mille. Lo testimonia Da Quarto a Torino (1960), un'agile cronistoria scritta per il centenario ad uso delle scuole, nel suo stile pungente, cui seguono per diretta filiazione Antistoria del Risorgimento. Daghela avanti un passo (1969), l'albo illustrato Garibaldi (postumo, 1972) e una quantità di contributi giornalistici che si richiamano tutti, sotto traccia, alla lezione di Gramsci secondo cui l'Unità si è realizzata nei modi della «guerra regia» e della annessione piemontese grazie al talento del «diabolico conte» Cavour; mentre Garibaldi, genio della strategia militare, è presto andato fuorigioco sia per l'immaturità o l'impotenza politica del Partito d'Azione (vedi, specialmente, il fumoso misticismo di un Mazzini) sia per la sostanziale estraneità delle plebi meridionali, una Vandea ostile e ipotecata da legittimisti e sanfedisti di ritorno.
Va da sé che per Bianciardi, come afferma in Daghela avanti un passo, l'Unità è un miracolo e anzi un miracolo equivoco, portatore di mali divenuti cronici: «guerra dei briganti, convinzione radicata nel popolo che lo stato sia oppressore, un’astratta entità ostile che si fa viva solo per esigere le tasse e mandarci a far la guerra, analfabetismo sottile e perfido razzismo interno, per cui i terroni sarebbero cittadini di seconda categoria, la mafia mai sconfitta Tutto ciò non sapremmo spiegarcelo, se non ragionando che l'Unità fu fatta male. Contro Garibaldi».
Perciò quando Bianciardi fugge da Milano e va a nascondersi a Rapallo, perseguitato dal successo de La vita agra, da anarchico randagio e già avviato all'autodistruzione, ha appena consegnato a Rizzoli La battaglia soda (’64) cioè il romanzo della delusione e del rancore dove, in un vernacolo sapido e insolente, egli si traveste da Giuseppe Bandi, grossetano e camicia rossa, autore de I Mille: da Genova a Capua (1886), collocando la vicenda tra Aspromonte e Mentana, quando fu chiaro a tutti, per le mene della politica politicante e per gli sfregi ripetuti a Garibaldi in persona, che la rivoluzione non doveva né poteva, appunto, essere una rivoluzione: traducendo il passato remoto al presente, La battaglia soda è il canto di un partigiano costretto a deporre le armi e a rientrare nei ranghi di un paese normalizzato, ma è anche l'attestato d'amore per un'Italia rovinosamente emarginata e via via diffamata, fatta di «gente - scriverà ad un amico - con la barba, vera, che parla vero, s'incazza, piange, s'appassiona, urla, bestemmia, prolissa e retorica anche nell’ira, ma sinceramente retorica, sinceramente appassionata».
Dal fondo della propria delusione, chiuso nel suo labirinto di etilismo e rancori, Bianciardi non sa immaginare altro seguito alla Battaglia soda che non sia dinamitardo, ultimativo, esemplare: l'ultimo omaggio al mito del Risorgimento (e, di fatto, al messaggio della Resistenza) è Aprire il fuoco (1969), un romanzo che, di nuovo incrociando passato e presente, trasferisce i fatti delle Cinque Giornate nella Milano del 1959 e dunque nei frangenti di un'altra rivoluzione tradita, un attimo prima del boom e, quasi a quadratura del cerchio, già nei paraggi de La vita agra.
L'anarchico Bianciardi non aveva mai perdonato all'Italia il sacrificio di Garibaldi né poteva accettare l'adagio (che è anche la divisa etica di molti italiani, ora come allora) secondo cui è fatale a chi nasce incendiario morire pompiere.
Al suo medesimo alter ego Giuseppe Bandi (questo non lo dice ma lo rileva Mario Lavagetto nell'eccellente curatela de I Mille, Garzanti 1977) era andata più o meno così: svestita la camicia dei garibaldini, si era fatto prima gazzettiere, poi memorialista e imprenditore di giornali; il colore rosso, intanto, era così sbiadito da mutarsi nella tinta neutra, intonabile a piacere, che sempre prediligono gli opportunisti ovvero i trasformisti: fatto sta che il povero Bandi perì nell'estate del ’94, da reazionario grasso e imbolsito, sotto il ferro vendicatore di un anarchico. E' da immaginare che una simile parabola, agli occhi di Luciano Bianciardi, fosse la prova provata.

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