Su “Le Reti di Dedalus”, la rivista on line del Sindacato Nazionale Scrittori, sotto l’interrogativo Fratelli d’Italia, è apparso uno scritto di Simona Cigliana, nel quale con efficace sintesi sono presentate le magagne dell’unificazione italiana. Ne propongo qui un ampio stralcio, corredato dalla piccola ma puntuale bibliografia. (S.L.L.)
L’Unità fuori di retorica: una durissima repressione di massa accompagnò la nascita della nazione Nel 150° anniversario dell’unificazione della penisola, è bene rammentare che il Risorgimento fu anche una assai sanguinosa guerra di conquista del Sud da parte del regno sabaudo. Circa un milione di morti, centinaia di cittadine distrutte, 500 mila prigionieri politici, il sovvertimento di un’intera economia, la diaspora di molte generazioni e la deportazione di oltre 70 mila soldati e ribelli e dissidenti meridionali a Fenestrelle e in altri lager del nord, quasi tutti morti in condizioni disumane. È opportuno ricordarsene quando intoniamo l’Inno di Mameli.
Forte Fenestrelle |
A guardar quel che succede nella nostra vita pubblica da qualche anno a questa parte, viene da chiedersi di che cosa stiamo per festeggiare l'anniversario. Se questa è l’Italia fatta e voluta dagli italiani, c'è poco da festeggiare; e, infatti, a dire la verità, tutto sommato, sembra che le manifestazioni celebrative siano piuttosto contrastate e che debbano svolgersi il più possibile in sordina, essendo le forze politiche molto occupate a dar triste spettacolo di sé e le istituzioni tutte impegnate nella propria difesa.
Eppure, ancora oggi, una profonda tristezza mi prende al pensiero delle migliori forze cadute per sostenere l'attuarsi di un ideale che allora, nel 1848-70, proiettato com’era verso il futuro, sembrava molto più luminoso di quel presente e di quel passato che, tra baronie e principi ignavi, inquisizione e torture, latifondo e mano morta, provincialismo e insipienza, particularismo e nepotismo avevano per secoli visto gli italiani abbandonati non solo e non tanto al dominio straniero quanto, soprattutto, alla povertà, all’analfabetismo, all’abbrutimento, al malgoverno e talvolta alla tirannia degli autoctoni prelati e signorotti. Ma è purtroppo un dato di fatto che anche la nostra Unità stava nascendo in qualche modo già "tradita", macchiata da bassezze e inganni, sull'onda di un convergere di interessi nazionali e internazionali che fatalmente cooperarono all’attuarsi delle ambizioni dei Savoia e dei ceti imprenditoriali del nord, fin da allora in predicato di combutta con i grandi latifondisti meridionali. I reali piemontesi, lo sappiamo, per giungere al loro obiettivo, non esitarono a cavalcare le speranze repubblicane e democratiche e a servirsi di Mazzini e di Garibaldi, sicuri che i coinvolgimenti economici e politici sullo scacchiere internazionale avrebbero finito per giocare a loro favore. La necessità di ricondurre istanze divergenti e bisogni tanto differenziati sotto un’unica bandiera – il glorioso tricolore su cui campeggiava lo stemma sabaudo – richiese però enormi sforzi e non poche contraffazioni storiche. Le guerre di liberazione dallo straniero, che presero poi il nome di «guerra del Risorgimento», assunsero infatti talvolta, troppo spesso, l’aspetto di una vera guerra di conquista, costellata da numerosi episodi di crudeltà e disonore che, nell’opera di edificazione dell’ identità nazionale, verranno poi cancellati da una storiografia piena di retorica patriottarda, capace di modificare il senso degli eventi nel mentre stesso del loro attuarsi.
Dal canto loro, i Savoia non esitarono a tacitare nel sangue ogni resistenza all’attuazione del nuovo Stato monarchico, mettendo in campo, negli anni immediatamente successivi all'unità, una repressione feroce, in particolar modo contro le plebi meridionali. Il fatto è che, dissoltasi l’eco degli entusiasmi e dei proclami retorici, l’adesione delle popolazioni del sud al progetto unitario apparve sin dall’inizio problematica: un elemento aggiuntivo di insicurezza per uno Stato sottoposto ad attenta valutazione dagli agguerriti osservatori e dai precari alleati esterni, preoccupato di soccombere alla ipoteca repubblicana e democratica e di apparire un fattore di instabilità sulla scena politica internazionale. Il sospetto e la paura, che si aggiunsero all’altissimo costo delle guerre e allo spaventoso disavanzo del bilancio, spinsero dunque il governo cisalpino ad accrescere la rigidità, col risultato di approfondire le vecchie diffidenze e di peggiorare, in definitiva, lo stato delle cose. La situazione allarmò anche Massimo d’Azeglio: «fatta l’Italia bisognava fare gli italiani», ma come riuscirvi se, scriveva, «per controllare la parte meridionale del Regno ci vogliono sessanta battaglioni?»
Così come accadde nel caso di Giuseppe Mazzini, beatificato «padre della patria» all’indomani della morte, avvenuta, nella casa di amici pisani che lo ospitavano segretamente, dopo una vita trascorsa da perseguitato, tra l’esilio, i rientri clandestini, i processi in contumacia. Bollato in vita quale nemico pubblico, come un brigatista ante litteram, Mazzini fu inviso non solo agli occupanti stranieri ma anche – fino all’ultimo dei suoi giorni e forse con ancor maggior sospetto – ai nuovi regnanti, i quali furono ben felici, nel 1872, di assistere all’imbalsamazione del suo corpo, scortato in un viaggio trionfale fino a Genova, dove fu solennemente tumulato insieme alle sue utopie repubblicane. Appena trent’anni più tardi, gli scritti di Mazzini («Dio e popolo, pensiero e azione») si sarebbero studiati nelle scuole del Regno e i persecutori di un tempo avrebbero finanziato l’edizione nazionale delle opere di un uomo che, una volta neutralizzati gli aspetti più scomodi del suo pensiero in un edulcorato mix di alti ideali, da nemico dello Stato, poteva diventare eroe e guida morale degli italiani: non era proprio Mazzini esempio preclaro di quella necessità di “sacrificare” ogni tentazione di estremismo in favore di un cosiddetto interesse superiore e comune? Garibaldi stesso, che pure – con un laconico «Obbedisco» – si era piegato al volere del re, corse più volte il rischio di essere arrestato.
Goffredo Mameli |
Nell’agosto del 1862, infatti, i paesi del sud in rivolta contro l’invasione piemontese erano circa millecinquecento: nel meridione vigevano lo stato d’assedio e la legge marziale, estreme misure di una violenta opera di contenimento della resistenza nei luoghi che si volevano “liberare” dai partigiani borbonici. La campagna di conquista durò oltre il 1880 e causò all’ex Regno delle Due Sicilie, secondo le stime più pessimiste, quasi un milione di morti, centinaia di cittadine distrutte, cinquecentomila prigionieri politici, il sovvertimento di un’intera economia, la diaspora di molte generazioni e la deportazione di decine di migliaia tra soldati e dissidenti pertinaci.
La deportazione dei “ribelli” iniziò quando ancora Garibaldi combatteva sull’Aspromonte: dei 97 mila soldati dell' esercito di Franceschiello molti si diedero alla macchia e diventarono protagonisti di una imbarazzante e mai ammessa guerra civile protrattasi per anni. Gli altri vennero dapprima instradati alla “rieducazione” nei campi provvisori di Livorno, Genova, Alessandria, Ancona, Rimini e Fano, affinché si correggessero e divenissero, possibilmente, idonei al servizio nell’esercito regolare. Ma la “riconversione” si rivelò non troppo facile. I numerosi renitenti saranno indirizzati allora ai “campi” e alle fortezze del nord: a Fenestrelle ed ad altri lager sabaudi (a Lombardore, a San Maurizio Canavese, ad Alessandria). In tutto, si parla di più di 70.000 prigionieri delle guerre di liberazione risorgimentali deportati al nord: morti mai registrati, senza onore, senza tomba, senza ricordo, cancellati da una guerra fratricida le cui vicende vennero riassunte dai vincitori in una luminosa e gloriosa epopea di rinascita nazionale – dai tempi mai più sottoposta a revisione nei libri di testo e nella vulgata.
La lapide di Forte Fenestrelle |
Eppure le testimonianze dell’orrore sono ancora lì. A Fenestrelle, le condizioni cui venivano sottoposti i detenuti erano a dir poco disumane. In questa sorta di inespugnabile muraglia cinese, al confine tra la val Chisone e le valli francesi, sistema fortificato adibito a carcere militare, i prigionieri, varcato il monumentale portone con la scritta «Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce» (la stessa filosofia dell’«Arbeit Macht Frei»), venivano ammassati, con indosso solo i resti delle divise o dei loro miseri stracci, e spesso con una palla di quindici chili al piede, in enormi stanzoni comuni, aperti in alto al vento gelido delle valli. Era un campo di sterminio senza forni, una siberia italiana, dove la parte del boia era rappresentata dal freddo e dall'altitudine. Qui, d’inverno, faceva talmente freddo che la broda ricavata dalla bollitura degli ossi – sempre gli stessi per settimane – congelava nel trasporto dalle cucine alle camerate e l’unico modo per riscaldare la minestra era quello di seppellire per qualche tempo le gamelle nelle grandi botti in cui venivano raccolti gli escrementi fermentanti dei muli – e, anche, degli umani. A Fenestrelle – un posto bellissimo, di severa e magnifica eloquenza naturalistica – furono mandati a morire circa quarantamila giovani uomini, la cui storia molto parzialmente è di recente riaffiorata, in qualche caso, dalle pagine di un vecchio libro parrocchiale fortunosamente ritrovato: ragazzi tra i ventuno e i ventisette anni, provenienti da Chieti, da Isernia, da Napoli, da Avellino, da Barletta, da Lecce, da Paola, da Cosenza, qui morti di freddo e di stenti e poi disciolti nella calce viva, soldati e ufficiali sconfitti in guerra, come si diceva, ma anche centinaia di semplici “disobbedienti” che si opponevano al progetto di un governo accentrato e autoritario.
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